Mentre Agilulfo, furioso per l’aggressione al suo regno da parte da Callinico, attaccava e vinceva gli imperiali, costringendoli a firmare una pace svantaggiosa, Costantinopoli finiva nel caos più totale. Maurizio si era impegnato in una vasta opera di restaurazione dell’Impero nei territori minacciati e invasi, decidendo di occuparsi di un nemico per volta. Dal 582 al 591 concentrò le sue attenzioni nella guerra contro la Persia, che vinse annettendo all’Impero gran parte dell’Armenia, mentre dal 591 al 602, risolto il problema persiano, tentò di vincere e costringere al ritiro gli Avari e gli Slavi, che avevano invaso e occupato molte delle province balcaniche dell’Impero. La guerra portò a buoni risultati, e mancava poco al completo ristabilimento dell’autorità imperiale nei Balcani, quando i soldati, che già in passato si erano rivoltati all’Imperatore per una riduzione delle paghe, si ammutinarono perché ritenevano ingiusto l’ordine dell’Imperatore di svernare a nord del Danubio. Essi marciarono sulla capitale con l’intenzione di deporre Maurizio, che fuggì a Calcedonia, dall’altro lato del Bosforo. L’esercito occupò la capitale ed elesse imperatore il rozzo centurione Foca, il quale ordinò l’esecuzione di Maurizio e dei suoi cinque figli (27 novembre 602). Anni dopo fu ritrovato il testamento di Maurizio: tra le altre cose imponeva la rinascita dell’Impero romano d’Occidente, perché l’Italia e le isole (capitale Roma) sarebbero state governate da un imperatore d’Occidente, ovvero dal figlio di Maurizio Tiberio, mentre l’Oriente sarebbe spettato al figlio maggiore Teodosio. Inutile dire che con l’ammutinamento di Foca i piani di Maurizio andarono a monte e l’Impero restò unico.
L’ascesa al trono del tiranno Foca, che inaugurò un periodo del terrore nella storia bizantina (molte furono le congiure contro di lui, tutte punite con la pena capitale), diede il pretesto alla Persia di invadere l’Impero in quanto il re persiano Cosroe II era in buoni rapporti con Maurizio e invase l’Impero con il pretesto di vendicarne l’assassinio. La guerra durò fino al 628 e, dopo una fase di incredibili successi persiani (Siria, Palestina, Egitto strappate all’Impero), l’Imperatore Eraclio (successore di Foca) riuscì a ribaltare la situazione con una serie di trionfi che costrinsero la Persia a rinunciare a tutte le terre strappate all’Impero dopo il 602. La guerra contro la Persia minacciò apertamente la sopravvivenza dell’Impero (la stessa Costantinopoli, nel 626, venne assediata dai Persiani e dagli Avari) e, con la maggioranza delle truppe impegnate in Oriente per cercare disperatamente di salvare l’Impero, la possibilità di inviare rinforzi in Italia per cercare di cacciare i Longobardi era fuori questione. L’esarca Smaragdo, successore di Callinico, non poté far altro che rinnovare di anno in anno la pace con i Longobardi a partire dal 603. Nel 605 la tregua scadde e i Longobardi conquistarono in Toscana le città di Bagnoregio e Orvieto, costringendo Smaragdo a rinnovare la tregua per un altro anno (prezzo: 12.000 solidi) e poi per altri tre anni (cfr. Ravegnani, I Bizantini in Italia, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 103). La tregua venne successivamente rinnovata di anno in anno, fino al 615 (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 104).
Nel frattempo nel Regno longobardo Agilulfo, per legittimare la continuità dinastica, fece associare al trono suo figlio Adaloaldo a Milano nel 604. Da allora in poi, il re longobardo assunse il titolo di “Gratia dei … Rex totius Italiae” (Re di tutta Italia… per grazia divina). In questo modo il re, non solo faceva discendere la sua autorità dal Signore, ma espresse anche la sua ambizione di strappare tutta l’Italia all’Impero. Milano divenne con Agilulfo, anche se per poco, capitale del regno (cfr. Jarnut, Storia dei Longobardi, p. 43). A Agilulfo succedette il figlio Adaloaldo, nel 615.
ELEUTERIO, UN EUNUCO SUL TRONO DEI CESARI
A Smaragdo, rimasto in carica fino ad almeno il 608, succedette probabilmente tal Fozio, di cui non abbiamo molte informazioni a parte che fu esarca, succeduto a sua volta da Giovanni Lemigio. Nel 615, tuttavia, una rivolta a Ravenna risultò nell’assassinio dell’esarca Giovanni. Nel frattempo anche Napoli si era rivoltata, essendosi impadronito di questa città un certo Giovanni da Conza. Le rivolte dell’esercito locale, dovuto evidentemente al ritardo nel soldo, sembravano portare l’esarcato verso la disgregazione. L’Imperatore Eraclio, allora, mandò come esarca l’eunuco Eleuterio per sedare le rivolte a Ravenna e a Napoli con truppe fresche. Ebbe successo come narra il biografo di Papa Deusdedit nel Liber Pontificalis: Huius temporibus/Eodem tempore veniens Eleutherius patricius et cubicularius Ravenna et occidit omnes qui in nece Iohanni exarchi et iudicibus rei publicae fuerant mixti. Non è granché chiaro il ruolo rivestito dai “giudici della repubblica” nella rivolta, complici due corruzioni nel testo (Ravenna, da emendare in Ravennam, ed et iudicibus, la cui emendazione è controversa). Secondo l’interpretazione più diffusa, i giudici della repubblica furono uccisi insieme all’esarca Giovanni dai rivoltosi (cfr. lemma “Eleuterio” del “Dizionario Biografico degli italiani” della Treccani). Tale ipotesi si basa sulla proposta di emendare l’ablativo plurale (iudicibus) in genitivo plurale (iudicum), seguita, tra gli altri, in epoca rinascimentale dall’erudito austriaco Thomas Ebendorfer quando usò il Liber Pontificalis come fonte per la sua opera “Chronica Pontificum Romanum”:
Eodem tempore venit Eleutherius patricius de Constantinopoli, cubicularius imperatoris, Ravennam, multavit pena pecuniaria veloccidit omnes, qui in nece Johannis Esarchi hac dignitate pollentis et iudicium rei publicae mixti fuerunt. | A quei tempi giunse a Ravenna da Costantinopoli Eleuterio, patrizio e cubiculario dell’Imperatore, e inflisse una pena pecuniaria o uccise tutti coloro che erano coinvolti nell’assassinio del potente per dignità esarca Giovanni e dei giudici della Repubblica. |
Per Ebendorfer i giudici della repubblica furono uccisi dai rivoltosi insieme all’esarca Giovanni e per tale motivo emendò l’ablativo plurale in genitivo. Ebendorfer aggiunge inoltre un particolare assente nel Liber Pontificalis, cioè che Eleuterio avrebbe inflitto una pena pecunaria a coloro che si erano compromessi con i ribelli ma che non aveva fatto giustiziare. Ci sarebbe da chiedersi quale fosse la sua fonte. Alcuni autori invece ritengono che i giudici della Repubblica sarebbero stati nominati dai ribelli in seguito all’assassinio dell’esarca Giovanni e sarebbero stati giustiziati per ordine dell’esarca Eleuterio insieme ai ribelli. Ciò è spiegabile emendando et iudicibus in ex iudicibus. In effetti il Concilia Omnia, Tam Generalia, quam particularia, ab apostolorum temporibus in hunc usque diem a sanctissimis patribus celebrata, & quorum acta literis mandata, ex vetustissimis diversarum regionum bibliothecis haberi potuere, his duobus tomis continentur: Conciliorvm Omnivm, Tam Generalium q[uam] particulariu[m], a temporibus Agapeti papae vsque ad Eugenium papam quartu[m], ex vetustissimis bibliothecis collectorum, tomo II (1538), riporta:
Il biografo di Papa Adeodato (o Deusdedit) prosegue:
Eleuterio svolse quindi il suo compito con successo, riportando tutto all’ordine e punendo con molta durezza i ribelli di Ravenna e di Napoli. La frase del Liber Pontificalis che sostiene che pagato il soldo ai soldati ritornò la pace in tutta Italia sembra suggerire che le rivolte a Ravenna e a Napoli fossero dovute proprio alla scontentezza dei soldati per il ritardo nella paga (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 105).
Ripristinato l’ordine interno nel turbolento esarcato, l’esarca poté quindi muovere guerra ai Longobardi, come sembra gli abbia ordinato Eraclio: infatti, secondo almeno il continuatore di Aquitano, “Eraclio inviò Eleuterio a proteggere tutta l’Italia, che i Longobardi non avevano ancora occupato”. Il momento era proprio quello più opportuno per un attacco al regno longobardo, dato che questi attraversava un periodo di temporanea debolezza, dovuto al fatto che era retto dal minorenne Adaloaldo sotto la reggenza della madre Teodolinda. Ma nonostante lo sforzo profuso dall’esarca, la sua missione fallì:
Approfittando del fatto che Eraclio fosse impegnato contro la Persia, Eleuterio ritenne di poterne approfittare cercando di restaurare l’Impero romano d’Occidente; ecco quanto ci dice la Cronaca del continuatore di Aquitano:
Le parole “vedendo la gente dei Longobardi pacata nei suoi confronti” sembrano suggerire che Eleuterio, prima di rivoltarsi, avesse comprato la neutralità dei Longobardi per avere via libera per la rivolta; questa tesi è sostenuta da Magnani e Godoy (Teodolinda la longobarda, p. 105), che sostengono: «Non si può escludere che, durante le trattative di pace con i Longobardi, cui dovettero aver parte Teodolinda e i suoi consiglieri romani, sia stato negoziato l’appoggio del regno all’impresa. La prospettiva di una restaurazione imperiale, a opera di un esarco sconfitto e oggettivamente debole, avrebbe posto l’organismo politico da lui creato sotto l’influenza politica longobarda». La rivolta è databile intorno al dicembre 619 o poco prima: il biografo di Papa Bonifacio V (619-625), infatti, riporta che la rivolta di Eleuterio avvenne poco prima dell’ordinazione del nuovo pontefice (che avvenne proprio nel dicembre 619). Sembra che, durante la rivolta, Eleuterio abbia assunto il nome imperiale di “Ismailius”, come sembra risultare da monete fatte coniare a suo nome durante la rivolta dalla zecca di Ravenna, che riportano appunto questo nome, “Ismailius”. Ma chi era il “venerabile uomo Giovanni” che esorta Eleuterio a farsi incoronare a Roma? Con ogni probabilità era l’arcivescovo di Ravenna dell’epoca, Giovanni IV, da cui evidentemente Eleuterio intendeva farsi incoronare, seguendo la prassi dell’epoca che stabiliva che un sovrano dovesse ricevere la corona da un ecclesiastico. Giovanni, tuttavia, non volendo assolutamente compromettersi con il ribelle per evitare eventuali problemi in futuro con Eraclio, lo consigliò di farsi nominare Imperatore d’Occidente dal Papa (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 105) o, forse, dal senato romano, come suggerisce lo studioso Bartolini, secondo cui l’idea di farsi incoronare a Roma «rivelava la consapevolezza di ciò che sempre rappresentava Roma, prima sede e culla dell’impero, come perenne custode dell’antica tradizione imperiale. Provava inoltre che a Roma esisteva sempre un senato, e che ad esso si attribuiva ancora la prerogativa di essere il depositario del potere sovrano in concorrenza con gl’imperatori, e la capacità giuridica di convalidare la proclamazione di un nuovo imperatore. Al senato di Roma, infatti, e non al papa, ebbero certo la mente così l’arcivescovo di Ravenna come l’esarco ribelle.» (Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e i Longobardi, p. 302). Reputando valido il consiglio, Eleuterio partì alla volta di Roma. Ma il sogno di Eleuterio di restaurare l’Impero romano d’Occidente fallì miseramente: infatti, giunto a Castrum Luceoli, una fortezza collocata nello stretto “corridoio” umbro che collegava Roma con Ravenna, fu ucciso da soldati fedeli a Eraclio, con ogni probabilità quelli del Castrum Luceoli stesso, come sostenuto da Bertolini: “l’esercito [di Eleuterio] venne disfatto nell’angusta gola dell’Appennino umbro, che sale al passo della Scheggia e di là scende verso Gualdo Tadino, dalle truppe del presidio del vicino castrum Luceoli (presso l’odierna Cantiano), poste a difesa del valico e fedeli all’imperatore.” (cfr. Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani, lemma “Bonifacio V”). In effetti il continuatore di Aquilano fa distinzione tra i “paucis iam suo itinere comitantibus” (“[con] i pochi che già lo accompagnavano durante il viaggio”) e i “milites” (i soldati) che uccisero Eleuterio, facendo intendere che Eleuterio non fu ucciso dal suo seguito ma da altri soldati, che non possono che essere quelli del Castrum Luceoli. Va però notato che secondo il Liber Pontificalis, invece, i soldati che uccisero Eleuterio presso “Castrum Luceoli” erano “ravennati” (“Ravennatis militibus”). Ma possibile che l’esercito al seguito di Eleuterio fosse stato costituito da talmente pochi uomini da essere disfatto da una semplice guarnigione a difesa di una fortezza minore? Alcuni storici hanno provato a dare una risposta plausibile a questa domanda ipotizzando che ci fossero state delle diserzioni durante il viaggio, che resero alla fine il seguito “piccolo” (“paucis”). Comunque sia andata veramente, Eleuterio fu sconfitto e decapitato e la sua testa, narrano il biografo di Papa Bonifacio V e Agnello Ravennate, inviata a Costantinopoli ad Eraclio dentro un sacco.
Secondo Bertolini, Eleuterio aveva il proposito di ridare all’Italia « un impero indipendente, pari di rango all’impero in Oriente» (ibidem, p. 302), anche se non si può escludere, come sostiene nel lemma “Eleuterio” del Dizionario Biografico degli Italiani T.S. Brown, che «le sue ambizioni contemplassero soltanto l’instaurazione, nell’Italia bizantina, di un governo autonomo». Lascia stupiti che, nonostante fosse un eunuco e quindi in teoria non candidabile alla porpora (per diventare imperatori bisognava essere fisicamente integri, il che escludeva ovviamente gli eunuchi), sia riuscito lo stesso a usurpare la porpora, forse, come sostiene Ravegnani, favorito dalla confusione dei tempi, che rendevano possibile persino a un eunuco di usurpare il trono. Ma la sua ambizione di restaurare l’Impero romano d’Occidente (secondo lo studioso Classen, in Die erste Romzug in der Weligeschichte. Zur Geschichte des Kaisertum im Westen und der Kaiserkrönung in Rom zwischen Theodosius dem Grossen und Karl dem Grossen, in Historische Forschungen für Walter Schlesinger, a cura di H. Beumann, Köln-Wien 1971, pp. 325-347, intraprese la “prima marcia di incoronazione a Roma della storia del mondo”) precorreva troppo i tempi, poiché, come sostiene ancora Bertolini nell’opera già citata (p. 303), “le forze che andavano preparando l’Italia al distacco dall’Oriente si trovavano appena al travaglio iniziale del loro sviluppo, ed erano troppo varie ancora e lontane dalla coscienza di sé stesse e di una comunità di aspirazioni. Né la figura dell’esarco ribelle, uscita da quella cerchia di alti dignitari bizantini contro i quali si appuntava il malcontento (…) poteva divenire un’insegna d’incontro e d’accordo. Le milizie di Ravenna non avevano certo visto con piacere che Eleuterio intendesse riportare alla rivale Roma il centro di un rinnovato impero in Occidente, e ciò non era stata ultima causa del fatto che solo in minima parte avevano aderito alla seconda fase del moto. ”
IL PATRIZIO GREGORIO E TASONE E CACCONE
Tra il 619 (fine di Eleuterio) e il 625 (arrivo dell’esarca Isacio in Italia) c’è un vuoto nella cronotassi degli esarchi: si ignora chi fu esarca in questo periodo. Vari studiosi, però, hanno ipotizzato, per cercare di riempire questo vuoto, che in questo periodo l’esarcato sarebbe stato retto dal “patrizio Gregorio” resosi reo, secondo la storia dei Longobardi di Paolo Diacono, dell’uccisione a tradimento di Tasone e Caccone, duchi del Friuli:
Di questo patrizio Gregorio, forse anche esarca, si sa solo questo.
L’ESARCA ISACIO E LA RIVOLTA DI ARIOALDO
Nel 625 arrivò in Italia l’esarca Isacio. Una preziosa iscrizione che lo commemora, conservatasi a Ravenna, ci dà informazioni preziose sulla sua vita: ci dice che era sposato con Sosanna e aveva combattuto sia in Oriente che in Occidente, quindi è possibile che prima del 625 fosse stato magister militum per Orientem o dux, anche se non ci sono certezze in proposito. Appena arrivato, ricevette una lettera da Papa Onorio, che lo pregava di aiutare Adaloaldo a recuperare il trono usurpatogli da Arioaldo. In quell’anno era infatti scoppiata una sanguinosa rivolta nel Regno longobardo, che la storiografia moderna fa risalire allo scontento della frangia belligerante e ariana per la politica pacifista e filocattolica di re Adaloaldo: infatti, il figlio di Agilulfo e Teodolinda, pur essendo conscio che l’Impero era in difficoltà estrema contro Avari e Persiani e che quindi era il momento opportuno per attaccarlo, non lo fece, ma anzi attuò una politica di riappacificazione con l’Impero (cfr. Jarnut, ibidem, p. 54). Questo ovviamente non andò bene a quella frangia estremista dei Longobardi che volevano conquistare tutta l’Italia a danni dell’Impero; attribuendo dunque la politica del loro re a una presunta follia o a un incantesimo, i Longobardi ostili a questa politica lo rovesciarono nominando come nuovo re il duca di Torino Arioaldo (cfr. Jarnut, ibidem, p. 55).
Le fonti primarie, in questo caso assolutamente inattendibili, parlano di follia del re dovuta secondo Fredegario a un incantesimo. Ma queste testimonianze sono inattendibili. Comunque, per completezza, esaminiamo quanto ci dicono Fredegario e Paolo Diacono, e constatiamo per quali ragioni esse sono inattendibili.
Questo è tutto quanto ci dice Fredegario nella sua Cronaca. Paolo Diacono ci dice solo che, avendo perso la ragione, fu privato del regno. Ma la cronaca di Fredegario in questo caso è inattendibile. Prima di tutto, Fredegario sostiene che questi fatti avvennero durante il regno di Maurizio, un errore molto grossolano, perché Maurizio e Adaloaldo non erano nemmeno contemporanei (Maurizio regnò dal 582 al 602, Adaloaldo dal 616 al 625); in realtà questi fatti sarebbero da datare al regno di Eraclio (610-641); ma Fredegario sbaglia anche il nome del duca ribelle, che si chiamava Arioaldo (come lo chiama Paolo, certamente più informato di Fredegario sulla storia dei Longobardi) e non Caroaldo. Ma, a parte questi errori, la storia dell’unzione che mette sotto incantesimo Adaloaldo, obbligandolo (quasi come se fosse ipnotizzato) a eseguire gli ordini di Eusebio, inviato dell’Imperatore d’Oriente, sa completamente di leggenda medioevale, assolutamente inattendibile. A smentire la storia della presunta perdita della ragione di Adaloaldo, contribuisce inoltre una lettera di Papa Onorio I all’esarca Isacio, appena arrivato in Italia nell’anno 625; questa lettera, in cui il Santo Padre prega l’esarca a intervenire a favore di Adaloaldo, il cui trono è stato usurpato da Adaloaldo, fa venire il seguente interrogativo: perché il Papa dovrebbe intervenire a favore di un re giustamente deposto perché era incapace di intendere e volere e stava uccidendo tutti i nobili del regno? Questa infatti è la riflessione di Muratori:
“Un parlare si fatto di un Pontefice Romano ci fa intendere, che Adaloaldo più non regnava, ma che non dovette essere giustamente deposto, e forse ch’egli non era impazzito; e seppur tale, se gli doveano dar Curatori, ma non già levargli la Corona. Intanto noi troviamo Arioaldo, considerato dal Papa come usurpatore del Regno, e Tiranno. Noi vedemmo, che Gundoaldo padre d’esso Arioaldo era stato ucciso per ordine del Re Agilolfo. Probabilmente contro del di lui figliuolo si volle vendicare Arioaldo. A me si sa credibile, che concorresse ancora a guadagnar le premure d’esso Pontefice in favore di Adaloaldo, l’esser egli Cattolico di Religione, laddove Arioaldo, che gli tolse la corona, era di professìone Ariana. Mi vien’anche da sospettare, che non influisse poco ad eccitar quella Congiura contro di Adaloaldo la stessa differenza di Religione, perchè i più dei Longobardi seguitavano tuttavia gli errori d’Ario, e di mal occhio miravano un Re, che dalla madre avea bevuto il latte della dottrina Cattolica. Finalmente dalla suddetta lettera impariamo, che Isacco Esarco di Ravenna era in lega col Re Adaloaldo decaduto dal Regno, e dovette fors’anche prendere l’armi per rimetterlo sul Trono. Ma non apparisce, che Adaloaldo risorgesse, e si può credere, che il veleno a lui dato terminasse in fine la fine del Regno, ed Isacco si ritirasse a Ravenna con riconoscere per Re l’usurpatore Arioaldo, e con rinnovar la pace stabilita dai suoi Successori.”
(Muratori, Annali d’Italia, Anno 623)
E’ possibile che queste dicerie siano state diffuse dagli oppositori di Adaloaldo. Arioaldo, rovesciato Adaloaldo non si sa in che modo (essendo Fredegario inattendibile), regnò per dieci anni, mostrandosi tollerante verso il cristianesimo, nonostante fosse ariano.
Secondo la testimonianza sospetta di Fredegario (che, come abbiamo già visto, quando parla delle vicende che non riguardano i Franchi, è alquanto grossolano e confusionario, quindi non particolarmente attendibile), nell’anno 630, l’esarca Isacio uccise a tradimento a Ravenna il duca di Tuscia Tasone su richiesta di Arioaldo (chiamato, sic, Caroaldo da Fredegario), per ottenere in cambio la riduzione del tributo che l’esarcato doveva ai Longobardi. Questo è il brano in questione:
Questo è quanto ci narra Fredegario. Ma la testimonianza è sospetta: in Paolo Diacono è presente un altro racconto in cui un Tasone duca longobardo viene attirato in una città da un patrizio romano e lì ucciso in un imboscata, ma in circostanze e in tempi diversi. Non si sa dire dunque se Fredegario stravolse, datandola al tempo di Isacio, la storia di Tasone duca del Friuli ucciso dal patrizio Gregorio narrata da Paolo Diacono, oppure se questo Tasone duca di Toscana è un personaggio veramente esistito che solo per coincidenza è omonimo al Tasone duca del Friuli di cui ci narra Paolo Diacono.
LE CONQUISTE DI ROTARI E LA TRAGICA FINE DI ISACIO
Rotari, duca di Brescia, asceso al trono nel 636, legittimò la successione sposando la vedova di Arioaldo, Gundeperga. Avviò una politica espansionistica ai danni dell’Impero romano d’Oriente. Nel 639 attaccò la provincia di Venezia Marittima, conquistando Oderzo e Altino:
Mentre per la caduta di Altino, abbiamo il racconto leggendario dell’Origo, la storia delle origini della città, che non è considerata in questo caso attendibile. Gran parte della popolazione di Oderzo si trasferì nelle lagune dove sarebbe sorta l’odierna Venezia, fondando la città di Eraclea, la nuova capitale della provincia. Gli abitanti di Altino invece si trasferirono nell’isola di Torcello. Arrivarono appena in tempo per assistere all’inaugurazione della nuova cattedrale di Torcello, costruita apposta per accogliervi il vescovo altinate:
Questa dedicazione marmorea è stata rinvenuta nel 1895 durante gli scavi nel pavimento della cattedrale; alcune parole sono state danneggiate dagli scavi, ma ciò non ha impedito agli studiosi di ricostruire le parole danneggiate (cfr. G. Ravegnani, Bisanzio e Venezia, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 32). Questa epigrafe sembra suggerire, per la citazione dei “suoi [dell’esarca Isacio] meriti e del suo esercito”, proprio in virtù dei quali la chiesa fu dedicata all’esarca Isacio, che l’esarca e l’esercito imperiale cercarono di contrastare l’attacco di Rotari ad Altino e Oderzo, ma, resosi conto dell’impossibilità di mantenere questi capisaldi nell’entroterra veneto, decisero di evacuare le due città, portando i suoi abitanti in salvo nelle lagune (cfr. Ravegnani 2006, ibidem, p. 33). In ogni caso, la provincia imperiale di Venezia si era ormai ridotta alle lagune (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, pp. 106-107).
Non contento, Rotari attaccò nell’autunno del 643 l’esarcato, sconfiggendo l’esarca Isacio in una battaglia combattuta presso il fiume Panaro:
Se, secondo Paolo Diacono, fu una grande vittoria per i Longobardi, che uccisero all’incirca 8000 soldati imperiali, la storiografia moderna tende a ridimensionare questo trionfo, facendo notare che la vittoria non ebbe seguito e che la marcia di Rotari verso Ravenna fu in realtà arrestata (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 109). Approfittando della plausibile caduta in quella battaglia dell’esarca Isacio, con conseguente vuoto di potere, Rotari occupò, sempre nel 643, tutta la Liguria imperiale:
Più o meno contemporaneamente, i Longobardi di Benevento espugnarono Salerno e posero a sacco Nocera.
Sazio di trionfi, Rotari decise di dedicarsi al diritto. Fino ad allora le leggi dei Longobardi non erano scritte, ma tramandate oralmente. Rotari decise di redarre un primo codice di leggi scritte. Il 22 novembre del 643 il codice di leggi di Rotari fu approvato dall’esercito di Pavia (cfr. Jarnut, ibidem, p. 71). Il corpo di leggi scritte aveva la funzione di impedire che i Longobardi poveri venissero danneggiati da una manipolazione arbitraria del diritto a tutto favore dei Longobardi potenti. A conferma della progressiva romanizzazione dei Longobardi, le leggi vennero scritte in latino.
IL PROBLEMA DEL MONOTELISMO: L’ETKESIS
Nel 628, riconquistate la Siria, la Palestina e l’Egitto, finite in mano persiana all’incirca dieci-quindici anni prima, l’Imperatore Eraclio (610-641) si trovò di fronte di nuovo il problema del monofisismo, un’eresia diffusa soprattutto in quelle regioni che riteneva che Cristo avesse solo una natura, quella divina. Con l’aiuto del patriarca di Costantinopoli, Sergio, cercò di trovare una formula teologica compromissoria che potesse andare bene sia per i cristiani che seguivano il credo di Calcedonia (i “non eretici”) che per i monofisiti. Alla fine l’Imperatore e il patriarca trovarono tale formula nel monoenergismo, che sosteneva che Cristo avesse sì due nature, ma solo una forza agente, la cosiddetta unità dell’energia (cfr. Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, Torino, 1968, p. 95). Si tentò di convincere i monofisiti delle province appena recuperate ai Persiani ad accettare la nuova formula teologica, ma dopo taluni iniziali risultati positivi, l’opposizione di entrambe le parti (calcedoniani e monofisiti) fecero sì che la formula venisse abbandonata. In particolare Sofronio, patriarca di Gerusalemme, sostenne che il monoenergismo fosse una nuova variazione del monofisismo e una falsificazione del dogma di Calcedonia. Anche Papa Onorio non si mostrò molto convinto dell’unità dell’energia in Cristo, sostenendo invece che secondo lui in Cristo agisse una sola volontà; ciò spinse Sergio a trovare una nuova formula teologica compromissoria nel monotelismo, secondo cui Cristo avrebbe due nature e una sola volontà. L’editto imperiale che promulgò il monotelismo, l’Etkesis, fu pubblicato nel 638, ma neanche questa formula venne accettata, né dai successori di Papa Onorio, né tanto meno dai monofisiti (cfr. Ostrogorsky, ibidem, p. 96). Tanto più che l’Impero tra il 634 e il 641 perse Siria, Palestina ed Egitto a causa dell’espansionismo degli Arabi Musulmani, a dimostrazione del fallimento politico dell’Etkesis. I monofisiti accolsero con favore i nuovi arrivati arabi e non opposero strenua resistenza.
Di fronte all’opposizione di Papa Severino all’Etkesis, il cartulario (governatore militare) di Roma, Maurizio, ricevette l’ordine di complottare contro il pontefice:
Poco dopo, tuttavia, nel 641, lo stesso Maurizio si rivoltò all’esarca, accusandolo di voler secedere dall’Impero. Isacio gli inviò quindi contro un esercito condotto da un certo Dono. I soldati abbandonarono presto il loro condottiero Maurizio, che, disperato, cercò rifugio in una chiesa di Roma (la Basilica di Santa Maria Maggiore), ma fu catturato e decapitato a Cervia (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 109). La rivolta era stata sedata con estremo rigore.