Anni di pace, contrasti religiosi e la ripresa delle operazioni belliche sotto Rotari (603-643)

ANNI DI PACE
Mentre Agilulfo, furioso per l’aggressione al suo regno da parte da Callinico, attaccava e vinceva gli imperiali, costringendoli a firmare una pace svantaggiosa, Costantinopoli finiva nel caos più totale. Maurizio si era impegnato in una vasta opera di restaurazione dell’Impero nei territori minacciati e invasi, decidendo di occuparsi di un nemico per volta. Dal 582 al 591 concentrò le sue attenzioni nella guerra contro la Persia, che vinse annettendo all’Impero gran parte dell’Armenia, mentre dal 591 al 602, risolto il problema persiano, tentò di vincere e costringere al ritiro gli Avari e gli Slavi, che avevano invaso e occupato molte delle province balcaniche dell’Impero. La guerra portò a buoni risultati, e mancava poco al completo ristabilimento dell’autorità imperiale nei Balcani, quando i soldati, che già in passato si erano rivoltati all’Imperatore per una riduzione delle paghe, si ammutinarono perché ritenevano ingiusto l’ordine dell’Imperatore di svernare a nord del Danubio. Essi marciarono sulla capitale con l’intenzione di deporre Maurizio, che fuggì a Calcedonia, dall’altro lato del Bosforo. L’esercito occupò la capitale ed elesse imperatore il rozzo centurione Foca, il quale ordinò l’esecuzione di Maurizio e dei suoi cinque figli (27 novembre 602). Anni dopo fu ritrovato il testamento di Maurizio: tra le altre cose imponeva la rinascita dell’Impero romano d’Occidente, perché l’Italia e le isole (capitale Roma) sarebbero state governate da un imperatore d’Occidente, ovvero dal figlio di Maurizio Tiberio, mentre l’Oriente sarebbe spettato al figlio maggiore Teodosio. Inutile dire che con l’ammutinamento di Foca i piani di Maurizio andarono a monte e l’Impero restò unico.

L’ascesa al trono del tiranno Foca, che inaugurò un periodo del terrore nella storia bizantina (molte furono le congiure contro di lui, tutte punite con la pena capitale), diede il pretesto alla Persia di invadere l’Impero in quanto il re persiano Cosroe II era in buoni rapporti con Maurizio e invase l’Impero con il pretesto di vendicarne l’assassinio. La guerra durò fino al 628 e, dopo una fase di incredibili successi persiani (Siria, Palestina, Egitto strappate all’Impero), l’Imperatore Eraclio (successore di Foca) riuscì a ribaltare la situazione con una serie di trionfi che costrinsero la Persia a rinunciare a tutte le terre strappate all’Impero dopo il 602. La guerra contro la Persia minacciò apertamente la sopravvivenza dell’Impero (la stessa Costantinopoli, nel 626, venne assediata dai Persiani e dagli Avari) e, con la maggioranza delle truppe impegnate in Oriente per cercare disperatamente di salvare l’Impero, la possibilità di inviare rinforzi in Italia per cercare di cacciare i Longobardi era fuori questione. L’esarca Smaragdo, successore di Callinico, non poté far altro che rinnovare di anno in anno la pace con i Longobardi a partire dal 603. Nel 605 la tregua scadde e i Longobardi conquistarono in Toscana le città di Bagnoregio e Orvieto, costringendo Smaragdo a rinnovare la tregua per un altro anno (prezzo: 12.000 solidi) e poi per altri tre anni (cfr. Ravegnani, I Bizantini in Italia, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 103). La tregua venne successivamente rinnovata di anno in anno, fino al 615 (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 104).

Nel frattempo nel Regno longobardo Agilulfo, per legittimare la continuità dinastica, fece associare al trono suo figlio Adaloaldo a Milano nel 604. Da allora in poi, il re longobardo assunse il titolo di “Gratia dei … Rex totius Italiae” (Re di tutta Italia… per grazia divina). In questo modo il re, non solo faceva discendere la sua autorità dal Signore, ma espresse anche la sua ambizione di strappare tutta l’Italia all’Impero. Milano divenne con Agilulfo, anche se per poco, capitale del regno (cfr. Jarnut, Storia dei Longobardi, p. 43). A Agilulfo succedette il figlio Adaloaldo, nel 615.

ELEUTERIO, UN EUNUCO SUL TRONO DEI CESARI
A Smaragdo, rimasto in carica fino ad almeno il 608, succedette probabilmente tal Fozio, di cui non abbiamo molte informazioni a parte che fu esarca, succeduto a sua volta da Giovanni Lemigio. Nel 615, tuttavia, una rivolta a Ravenna risultò nell’assassinio dell’esarca Giovanni. Nel frattempo anche Napoli si era rivoltata, essendosi impadronito di questa città un certo Giovanni da Conza. Le rivolte dell’esercito locale, dovuto evidentemente al ritardo nel soldo, sembravano portare l’esarcato verso la disgregazione. L’Imperatore Eraclio, allora, mandò come esarca l’eunuco Eleuterio per sedare le rivolte a Ravenna e a Napoli con truppe fresche. Ebbe successo come narra il biografo di Papa Deusdedit nel Liber Pontificalis: Huius temporibus/Eodem tempore veniens Eleutherius patricius et cubicularius Ravenna et occidit omnes qui in nece Iohanni exarchi et iudicibus rei publicae fuerant mixti. Non è granché chiaro il ruolo rivestito dai “giudici della repubblica” nella rivolta, complici due corruzioni nel testo (Ravenna, da emendare in Ravennam, ed et iudicibus, la cui emendazione è controversa). Secondo l’interpretazione più diffusa, i giudici della repubblica furono uccisi insieme all’esarca Giovanni dai rivoltosi (cfr. lemma “Eleuterio” del “Dizionario Biografico degli italiani” della Treccani). Tale ipotesi si basa sulla proposta di emendare l’ablativo plurale (iudicibus) in genitivo plurale (iudicum), seguita, tra gli altri, in epoca rinascimentale dall’erudito austriaco Thomas Ebendorfer quando usò il Liber Pontificalis come fonte per la sua opera “Chronica Pontificum Romanum”:

Eodem tempore venit Eleutherius patricius de Constantinopoli, cubicularius imperatoris, Ravennam, multavit pena pecuniaria veloccidit omnes, qui in nece Johannis Esarchi hac dignitate pollentis et iudicium rei publicae mixti fuerunt. A quei tempi giunse a Ravenna da Costantinopoli Eleuterio, patrizio e cubiculario dell’Imperatore, e inflisse una pena pecuniaria o uccise tutti coloro che erano coinvolti nell’assassinio del potente per dignità  esarca Giovanni e dei giudici della Repubblica.

Per Ebendorfer i giudici della repubblica furono uccisi dai rivoltosi insieme all’esarca Giovanni e per tale motivo emendò l’ablativo plurale in genitivo. Ebendorfer aggiunge inoltre un particolare assente nel Liber Pontificalis, cioè che Eleuterio avrebbe inflitto una pena pecunaria a coloro che si erano compromessi con i ribelli ma che non aveva fatto giustiziare. Ci sarebbe da chiedersi quale fosse la sua fonte. Alcuni autori invece ritengono che i giudici della Repubblica sarebbero stati nominati dai ribelli in seguito all’assassinio dell’esarca Giovanni e sarebbero stati giustiziati per ordine dell’esarca Eleuterio insieme ai ribelli. Ciò è spiegabile emendando et iudicibus in ex iudicibus. In effetti il Concilia Omnia, Tam Generalia, quam particularia, ab apostolorum temporibus in hunc usque diem a sanctissimis patribus celebrata, & quorum acta literis mandata, ex vetustissimis diversarum regionum bibliothecis haberi potuere, his duobus tomis continentur: Conciliorvm Omnivm, Tam Generalium q[uam] particulariu[m], a temporibus Agapeti papae vsque ad Eugenium papam quartu[m], ex vetustissimis bibliothecis collectorum, tomo II (1538), riporta:

Eodem tempore veniens Eleutherius patricius et cubicularius Ravennam, occidit omnes, qui in nece Iohanni exarchi ex iudicibus rei publicae fuerant mixti. A quei tempi, il patrizio e cubiculario Eleuterio, venendo a Ravenna, uccise tutti coloro, tra i giudici della repubblica, che erano coinvolti nell’assassinio dell’esarca Giovanni.

Il biografo di Papa Adeodato (o Deusdedit) prosegue:

Hic venit Roma et susceptus est a sanctissimo Deusdedit papa optime. Qui egressus de Roma venit Neapolim , qui tenebatur a Iohanne Compsino intarta contra quem/qui pugnando Eleuterius patricius ingressus est Neapolim et interfecit eundem tyrannum, simul cum eo alios multos. Reversus est Ravenna et data roga militibus facta est pax magna in tota Italia. Costui [Eleuterio] venne a Roma e fu ricevuto ottimamente dal santissimo Papa Adeodato. Uscito da Roma, venne a Napoli, che era sotto il potere del ribelle Giovanni Compsino, combattendo il quale il patrizio Eleuterio entrò a Napoli e uccise questo tiranno, e molti altri con lui. Ritornò a Ravenna e, pagato il soldo ai soldati, una grande pace fu ottenuta in tutta l’Italia.

Eleuterio svolse quindi il suo compito con successo, riportando tutto all’ordine e punendo con molta durezza i ribelli di Ravenna e di Napoli. La frase del Liber Pontificalis che sostiene che pagato il soldo ai soldati ritornò la pace in tutta Italia sembra suggerire che le rivolte a Ravenna e a Napoli fossero dovute proprio alla scontentezza dei soldati per il ritardo nella paga (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 105).

Ripristinato l’ordine interno nel turbolento esarcato, l’esarca poté quindi muovere guerra ai Longobardi, come sembra gli abbia ordinato Eraclio: infatti, secondo almeno il continuatore di Aquitano, “Eraclio inviò Eleuterio a proteggere tutta l’Italia, che i Longobardi non avevano ancora occupato”. Il momento era proprio quello più opportuno per un attacco al regno longobardo, dato che questi attraversava un periodo di temporanea debolezza, dovuto al fatto che era retto dal minorenne Adaloaldo sotto la reggenza della madre Teodolinda. Ma nonostante lo sforzo profuso dall’esarca, la sua missione fallì:

Eleutherius adversus Langobardos saepe inito bello vincitur per Sundrarium maxime Longobardorum ducem, qui apud Agilulfum bellicis rebus instructus erat. Animum amiserat Eleutherius et cum saepe suorum ruinam cerneret, pacem cum Longobardis fecit, ca tamen condicione, ut quinque centenaria, quae dudum, cum ad obsidendam Romam Agilulfus rex venisset, per singulos annos dare longobardis statuerant, persolverent Romani.

 

Eleuterio, iniziata una guerra con i Longobardi, venne battuto ripetutamente da Sundrarit, generale supremo dei Longobardi, che si era formato alla scuola di Agilulfo. Persosi d’animo di fronte alle frequenti sconfitte dei suoi, stipulò la pace con i Longobardi, però a condizione che i Romani versassero il tributo annuale di cinque centenaria, già stabilito quando re Agilulfo aveva assediato Roma. (Continuatore di Aquitano, Extrema, 22)

Approfittando del fatto che Eraclio fosse impegnato contro la Persia, Eleuterio ritenne di poterne approfittare cercando di restaurare l’Impero romano d’Occidente; ecco quanto ci dice la Cronaca del continuatore di Aquitano:

Eleutherius cum erga se Longobardorum gentem pacatam videret, imperium conatur suscipere. Sed cum iam porpuram induisset atque coronam sibi dari poposceret, venerabilis viri Iohannis interventu adhortatur, ut ad Romam pergeret, atque ibi, ubi imperii solium maneret, coronam sumeret. Quod consilium ratum iudicans obaudit. … Nam cum a Ravenna profectus pergeret Romam, apud castrum Luceoli paucis iam suo itinere comitantibus a milites [sic, militibus] interficitur.

 

 

Eleuterio, vedendo la gente dei Longobardi pacata nei suoi confronti, cercò di assumere l’Impero. Ma quando reclamò per se stesso la corona e aveva già indossato la porpora, venne esortato dall’intervento dell’uomo venerabile Giovanni a dirigersi a Roma e assumere qui, dov’era il trono dell’Impero, la corona. Reputando valido il consiglio, obbedì. … Infatti, mentre avanzava diretto da Ravenna a Roma, fu ucciso, con i pochi che già lo accompagnavano durante il suo viaggio, presso Castrum Luceoli dai soldati. (Continuatore di Aquitano, Extrema, 23)

Le parole “vedendo la gente dei Longobardi pacata nei suoi confronti” sembrano suggerire che Eleuterio, prima di rivoltarsi, avesse comprato la neutralità dei Longobardi per avere via libera per la rivolta; questa tesi è sostenuta da Magnani e Godoy (Teodolinda la longobarda, p. 105), che sostengono: «Non si può escludere che, durante le trattative di pace con i Longobardi, cui dovettero aver parte Teodolinda e i suoi consiglieri romani, sia stato negoziato l’appoggio del regno all’impresa. La prospettiva di una restaurazione imperiale, a opera di un esarco sconfitto e oggettivamente debole, avrebbe posto l’organismo politico da lui creato sotto l’influenza politica longobarda». La rivolta è databile intorno al dicembre 619 o poco prima: il biografo di Papa Bonifacio V (619-625), infatti, riporta che la rivolta di Eleuterio avvenne poco prima dell’ordinazione del nuovo pontefice (che avvenne proprio nel dicembre 619). Sembra che, durante la rivolta, Eleuterio abbia assunto il nome imperiale di “Ismailius”, come sembra risultare da monete fatte coniare a suo nome durante la rivolta dalla zecca di Ravenna, che riportano appunto questo nome, “Ismailius”. Ma chi era il “venerabile uomo Giovanni” che esorta Eleuterio a farsi incoronare a Roma? Con ogni probabilità era l’arcivescovo di Ravenna dell’epoca, Giovanni IV, da cui evidentemente Eleuterio intendeva farsi incoronare, seguendo la prassi dell’epoca che stabiliva che un sovrano dovesse ricevere la corona da un ecclesiastico. Giovanni, tuttavia, non volendo assolutamente compromettersi con il ribelle per evitare eventuali problemi in futuro con Eraclio, lo consigliò di farsi nominare Imperatore d’Occidente dal Papa (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 105) o, forse, dal senato romano, come suggerisce lo studioso Bartolini, secondo cui l’idea di farsi incoronare a Roma «rivelava la consapevolezza di ciò che sempre rappresentava Roma, prima sede e culla dell’impero, come perenne custode dell’antica tradizione imperiale. Provava inoltre che a Roma esisteva sempre un senato, e che ad esso si attribuiva ancora la prerogativa di essere il depositario del potere sovrano in concorrenza con gl’imperatori, e la capacità giuridica di convalidare la proclamazione di un nuovo imperatore. Al senato di Roma, infatti, e non al papa, ebbero certo la mente così l’arcivescovo di Ravenna come l’esarco ribelle.» (Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e i Longobardi, p. 302). Reputando valido il consiglio, Eleuterio partì alla volta di Roma. Ma il sogno di Eleuterio di restaurare l’Impero romano d’Occidente fallì miseramente: infatti, giunto a Castrum Luceoli, una fortezza collocata nello stretto “corridoio” umbro che collegava Roma con Ravenna, fu ucciso da soldati fedeli a Eraclio, con ogni probabilità quelli del Castrum Luceoli stesso, come sostenuto da Bertolini: “l’esercito [di Eleuterio] venne disfatto nell’angusta gola dell’Appennino umbro, che sale al passo della Scheggia e di là scende verso Gualdo Tadino, dalle truppe del presidio del vicino castrum Luceoli (presso l’odierna Cantiano), poste a difesa del valico e fedeli all’imperatore.” (cfr. Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani, lemma “Bonifacio V”). In effetti il continuatore di Aquilano fa distinzione tra i “paucis iam suo itinere comitantibus” (“[con] i pochi che già lo accompagnavano durante il viaggio”) e i “milites” (i soldati) che uccisero Eleuterio, facendo intendere che Eleuterio non fu ucciso dal suo seguito ma da altri soldati, che non possono che essere quelli del Castrum Luceoli. Va però notato che secondo il Liber Pontificalis, invece, i soldati che uccisero Eleuterio presso “Castrum Luceoli” erano “ravennati” (“Ravennatis militibus”). Ma possibile che l’esercito al seguito di Eleuterio fosse stato costituito da talmente pochi uomini da essere disfatto da una semplice guarnigione a difesa di una fortezza minore? Alcuni storici hanno provato a dare una risposta plausibile a questa domanda ipotizzando che ci fossero state delle diserzioni durante il viaggio, che resero alla fine il seguito “piccolo” (“paucis”). Comunque sia andata veramente, Eleuterio fu sconfitto e decapitato e la sua testa, narrano il biografo di Papa Bonifacio V e Agnello Ravennate, inviata a Costantinopoli ad Eraclio dentro un sacco.

Secondo Bertolini, Eleuterio aveva il proposito di ridare all’Italia « un impero indipendente, pari di rango all’impero in Oriente» (ibidem, p. 302), anche se non si può escludere, come sostiene nel lemma “Eleuterio” del Dizionario Biografico degli Italiani T.S. Brown, che «le sue ambizioni contemplassero soltanto l’instaurazione, nell’Italia bizantina, di un governo autonomo». Lascia stupiti che, nonostante fosse un eunuco e quindi in teoria non candidabile alla porpora (per diventare imperatori bisognava essere fisicamente integri, il che escludeva ovviamente gli eunuchi), sia riuscito lo stesso a usurpare la porpora, forse, come sostiene Ravegnani, favorito dalla confusione dei tempi, che rendevano possibile persino a un eunuco di usurpare il trono. Ma la sua ambizione di restaurare l’Impero romano d’Occidente (secondo lo studioso Classen, in Die erste Romzug in der Weligeschichte. Zur Geschichte des Kaisertum im Westen und der Kaiserkrönung in Rom zwischen Theodosius dem Grossen und Karl dem Grossen, in Historische Forschungen für Walter Schlesinger, a cura di H. Beumann, Köln-Wien 1971, pp. 325-347, intraprese la “prima marcia di incoronazione a Roma della storia del mondo”) precorreva troppo i tempi, poiché, come sostiene ancora Bertolini nell’opera già citata (p. 303), “le forze che andavano preparando l’Italia al distacco dall’Oriente si trovavano appena al travaglio iniziale del loro sviluppo, ed erano troppo varie ancora e lontane dalla coscienza di sé stesse e di una comunità di aspirazioni. Né la figura dell’esarco ribelle, uscita da quella cerchia di alti dignitari bizantini contro i quali si appuntava il malcontento (…) poteva divenire un’insegna d’incontro e d’accordo. Le milizie di Ravenna non avevano certo visto con piacere che Eleuterio intendesse riportare alla rivale Roma il centro di un rinnovato impero in Occidente, e ciò non era stata ultima causa del fatto che solo in minima parte avevano aderito alla seconda fase del moto. ”

IL PATRIZIO GREGORIO E TASONE E CACCONE
Tra il 619 (fine di Eleuterio) e il 625 (arrivo dell’esarca Isacio in Italia) c’è un vuoto nella cronotassi degli esarchi: si ignora chi fu esarca in questo periodo. Vari studiosi, però, hanno ipotizzato, per cercare di riempire questo vuoto, che in questo periodo l’esarcato sarebbe stato retto dal “patrizio Gregorio” resosi reo, secondo la storia dei Longobardi di Paolo Diacono, dell’uccisione a tradimento di Tasone e Caccone, duchi del Friuli:

Hos duos fratres Gregorius patricius Romanorum in civitate Opitergio dolosa fraude peremit. Nam promittens Tasoni, ut ei barbam, sicut moris est, incideret eumque sibi filium faceret, ipse Taso cum Caccone germano suo et electis iuvenibus ad eundem Gregorium nihil mali metuens advenit. Qui mox cum Opitergium cum suis esset ingressus, statim isdem patricius civitatis portas claudi praecepit et armatos milites super Tasonem eiusque socios misit. Quod Taso cum suis conperiens, audacter se ad proelium praeparavit; ultimumque sibi data pace valedicentes, per singulas civitatis plateas hac illacque dispersi, quoscumque obvios habere poterant trucidantes, cum magnam stragem de Romanis fecissent, ad extremum etiam ipsi perempti sunt. Gregorius vero patricius propter iusiurandum quod dederat caput Tasonis sibi deferri iubens, eius barbam, sicut promiserat, periurus abscidit.

 

Gregorio patrizio dei Romani uccise questi due fratelli con la frode nella città di Opitergium (Oderzo). Promise a Tasone che gli avrebbe tagliato la barba, come da prassi, e lo avrebbe adottato come figlio, e Tasone, con Caccone suo fratello, insieme ad alcuni giovani prescelti si recarono da Gregorio non temendo danno alcuno. Quando entrò a Opitergium con I suoi seguaci, il patrizio ordinò che le porte della città venissero chiuse e inviò soldati armati contro Tasone e i suoi compagni. Tasone e I suoi seguaci, vedendo ciò, si prepararono audacemente alla lotta, e quando ebbero un momento di quiete, si diedero a vicenda un ultimo addio, e sparsi per le diverse strade della città, uccisero tutti coloro che trovavano lungo la via, e dopo aver fatto una grande strage dei Romani, vennero infine massacrati anch’essi. Ma Gregorio il patrizio, per mantenere la promessa data, ordinò che gli fosse consegnata la testa di Tasone affinché gli potesse tagliare la barba come aveva promesso. (Paolo Diacono, IV, 38)

Di questo patrizio Gregorio, forse anche esarca, si sa solo questo.

L’ESARCA ISACIO E LA RIVOLTA DI ARIOALDO
Nel 625 arrivò in Italia l’esarca Isacio. Una preziosa iscrizione che lo commemora, conservatasi a Ravenna, ci dà informazioni preziose sulla sua vita: ci dice che era sposato con Sosanna e aveva combattuto sia in Oriente che in Occidente, quindi è possibile che prima del 625 fosse stato magister militum per Orientem o dux, anche se non ci sono certezze in proposito. Appena arrivato, ricevette una lettera da Papa Onorio, che lo pregava di aiutare Adaloaldo a recuperare il trono usurpatogli da Arioaldo. In quell’anno era infatti scoppiata una sanguinosa rivolta nel Regno longobardo, che la storiografia moderna fa risalire allo scontento della frangia belligerante e ariana per la politica pacifista e filocattolica di re Adaloaldo: infatti, il figlio di Agilulfo e Teodolinda, pur essendo conscio che l’Impero era in difficoltà estrema contro Avari e Persiani e che quindi era il momento opportuno per attaccarlo, non lo fece, ma anzi attuò una politica di riappacificazione con l’Impero (cfr. Jarnut, ibidem, p. 54). Questo ovviamente non andò bene a quella frangia estremista dei Longobardi che volevano conquistare tutta l’Italia a danni dell’Impero; attribuendo dunque la politica del loro re a una presunta follia o a un incantesimo, i Longobardi ostili a questa politica lo rovesciarono nominando come nuovo re il duca di Torino Arioaldo (cfr. Jarnut, ibidem, p. 55).

Le fonti primarie, in questo caso assolutamente inattendibili, parlano di follia del re dovuta secondo Fredegario a un incantesimo. Ma queste testimonianze sono inattendibili. Comunque, per completezza, esaminiamo quanto ci dicono Fredegario e Paolo Diacono, e constatiamo per quali ragioni esse sono inattendibili.

XLIX. Ipsoque anno 40 Chlotharii, Adaloaldus rex Langobardorum filius Agonis regis, cum patri suo successisset in regno, legatum Mauricii imperatoris, nomine Eusebium, ingeniose ad se venientembenigne suscepit. Inunctus in balneo nescio quibus unguentis ab ipso Eusebio persuadebatur; et post hanc unctionem nequidquam aliud, nisi quod ab Eusebio hortabatur, facere poterat. Persuasus ab ipso ut primates et nobiliores cunctos in regno Langobardorum interficere ordinaret, eisdem exstinctis, se cum omni genteLangobardorum imperio Mauricii traderet. Quod cum jam duodecim ex eis, nullis culpis exstantibus, gladio trucidasset, reliqui cernentes eorum esse vitae periculum, L. Charoaldum ducem Taurinensem, qui germanam Adaloaldi regis habebat uxorem, nomine Gundebergam, omnes seniores et nobilissimi Langobardorum gentis uno conspirantes consilio, in regnum eligunt sublimandum. Adaloaldus, veneno hausto, interiit. Charoaldus statim regnum arripuit.

 

XLIX. Nel quarantesimo anno di regno di Clotario [re dei Franchi], Adaloaldo re dei Longobardi figlio di Agone [Agilulfo], dopo essere succeduto al padre nel regno, accolse benevolmente un ambasciatore ingegnoso dell’Imperatore Maurizio, di nome Eusebio, che venne da lui. Venne persuaso da detto Eusebio a ungersi nel bagno di non so quali unguenti; e dopo questa unzione di qualcosa che ignoro, non faceva se non quello che Eusebio lo esortava a fare. Venne persuaso, su ordine dello stesso [Eusebio], a uccidere tutti i primati e i nobili del regno dei Longobardi, e, dopo averli uccisi, a consegnare tutta la gente dei Longobardi all’Impero di Maurizio. Poiché aveva già trucidato con la spada dodici di essi, che non avevano alcuna colpa, essendo i rimasti in pericolo di vita, tutti i signori e i più nobili tra la gente dei Longobardi, cospirando elessero in un concilio, innalzandolo al trono, Caroaldo duca di Torino, la cui moglie, di nome Gundeberga, era una sorella del re Adaloaldo. Adaloaldo, ingerito il veleno, perì. Caroaldo, immediatamente, usurpò il regno.

Questo è tutto quanto ci dice Fredegario nella sua Cronaca. Paolo Diacono ci dice solo che, avendo perso la ragione, fu privato del regno. Ma la cronaca di Fredegario in questo caso è inattendibile. Prima di tutto, Fredegario sostiene che questi fatti avvennero durante il regno di Maurizio, un errore molto grossolano, perché Maurizio e Adaloaldo non erano nemmeno contemporanei (Maurizio regnò dal 582 al 602, Adaloaldo dal 616 al 625); in realtà questi fatti sarebbero da datare al regno di Eraclio (610-641); ma Fredegario sbaglia anche il nome del duca ribelle, che si chiamava Arioaldo (come lo chiama Paolo, certamente più informato di Fredegario sulla storia dei Longobardi) e non Caroaldo. Ma, a parte questi errori, la storia dell’unzione che mette sotto incantesimo Adaloaldo, obbligandolo (quasi come se fosse ipnotizzato) a eseguire gli ordini di Eusebio, inviato dell’Imperatore d’Oriente, sa completamente di leggenda medioevale, assolutamente inattendibile. A smentire la storia della presunta perdita della ragione di Adaloaldo, contribuisce inoltre una lettera di Papa Onorio I all’esarca Isacio, appena arrivato in Italia nell’anno 625; questa lettera, in cui il Santo Padre prega l’esarca a intervenire a favore di Adaloaldo, il cui trono è stato usurpato da Adaloaldo, fa venire il seguente interrogativo: perché il Papa dovrebbe intervenire a favore di un re giustamente deposto perché era incapace di intendere e volere e stava uccidendo tutti i nobili del regno? Questa infatti è la riflessione di Muratori:

“Un parlare si fatto di un Pontefice Romano ci fa intendere, che Adaloaldo più non regnava, ma che non dovette essere giustamente deposto, e forse ch’egli non era impazzito; e seppur tale, se gli doveano dar Curatori, ma non già levargli la Corona. Intanto noi troviamo Arioaldo, considerato dal Papa come usurpatore del Regno, e Tiranno. Noi vedemmo, che Gundoaldo padre d’esso Arioaldo era stato ucciso per ordine del Re Agilolfo. Probabilmente contro del di lui figliuolo si volle vendicare Arioaldo. A me si sa credibile, che concorresse ancora a guadagnar le premure d’esso Pontefice in favore di Adaloaldo, l’esser egli Cattolico di Religione, laddove Arioaldo, che gli tolse la corona, era di professìone Ariana. Mi vien’anche da sospettare, che non influisse poco ad eccitar quella Congiura contro di Adaloaldo la stessa differenza di Religione, perchè i più dei Longobardi seguitavano tuttavia gli errori d’Ario, e di mal occhio miravano un Re, che dalla madre avea bevuto il latte della dottrina Cattolica. Finalmente dalla suddetta lettera impariamo, che Isacco Esarco di Ravenna era in lega col Re Adaloaldo decaduto dal Regno, e dovette fors’anche prendere l’armi per rimetterlo sul Trono. Ma non apparisce, che Adaloaldo risorgesse, e si può credere, che il veleno a lui dato terminasse in fine la fine del Regno, ed Isacco si ritirasse a Ravenna con riconoscere per Re l’usurpatore Arioaldo, e con rinnovar la pace stabilita dai suoi Successori.”
(Muratori, Annali d’Italia, Anno 623)

E’ possibile che queste dicerie siano state diffuse dagli oppositori di Adaloaldo. Arioaldo, rovesciato Adaloaldo non si sa in che modo (essendo Fredegario inattendibile), regnò per dieci anni, mostrandosi tollerante verso il cristianesimo, nonostante fosse ariano.

Secondo la testimonianza sospetta di Fredegario (che, come abbiamo già visto, quando parla delle vicende che non riguardano i Franchi, è alquanto grossolano e confusionario, quindi non particolarmente attendibile), nell’anno 630, l’esarca Isacio uccise a tradimento a Ravenna il duca di Tuscia Tasone su richiesta di Arioaldo (chiamato, sic, Caroaldo da Fredegario), per ottenere in cambio la riduzione del tributo che l’esarcato doveva ai Longobardi. Questo è il brano in questione:

LXIX. Eo anno Charoaldus rex Langobardorum legatos ad Hisacium patricium secretius mittens, rogat ut Tasonem, ducem provinciae Tuscanae, quo poterat ingenio interficeret. Hujus beneficii vicissitudine tributa, quae Langobardi de manu publica [Id est, imperio] recipiebant, tria centenaria auri annis singulis, unde unum centenarium auri Charoaldus rexpartibus imperii de praesenti cassaret. Hisacius patricius haec audiens, tractabat quibus ingeniis haec potuisset implere,Tasoni ingeniose mandans, dum in offensa Charoaldi erat, cum ipso amicitias obugaret, ipse vero contra Charoaldum regem eiauxiliaretur. … Ravennam pergit. Hisacius ei obviam mandans, prae timore imperatoris, Tasonem cum suis infra muros Ravennae urbis armatum non audebat recipere. Cumque Taso credens, arma suorum foris urbem relinquens, in Ravennam fuisset ingressus, statim qui fuerant praeparati super Tasonem irruunt, et ipsum, et suos totos, qui cum eo venerant [Al., erant] interfecerunt. Charoaldus rex unum centenarium auri, sicut promiserat, partibus Hisacii et imperii cassavit.

 

In quest’anno Caroaldo [Arioaldo], re dei Longobardi, inviando in segreto ambasciatori ad Isacio patrizio, gli chiese di uccidere con l’ingegno Tasone, duca della provincia Toscana. In cambio il re Caroaldo [Arioaldo] avrebbe ridotto di un centenaria d’oro i tributi, che i Longobardi ricevevano dall’Impero, tre centenaria d’oro all’anno. Isacio patrizio, udendo questo, si comportò con ingegno per compiere questo [la missione], mandando ingegnosamente a Tasone, mentre costui era all’offensiva contro Caroaldo [Arioaldo], offrendogli amicizia e aiuti contro Caroaldo [Arioaldo] re. …Si diresse a Ravenna. Isacio gli mandò incontro [a dire che], per il timore dell’Imperatore, non aveva il coraggio di accogliere Tasone armato con i suoi dentro le mura della città di Ravenna. Non appena Tasone, credendogli, dopo aver lasciato le sue armi fuori dalla città, entrò a Ravenna, quelli che erano pronti [all’imboscata] si lanciarono immediatamente su Tasone e uccisero lui e tutti quelli che erano con lui. Il re Caroaldo [Arioaldo], così come aveva promesso, ridusse il tributo di un centenaria d’oro a Isacio e all’Impero.

Questo è quanto ci narra Fredegario. Ma la testimonianza è sospetta: in Paolo Diacono è presente un altro racconto in cui un Tasone duca longobardo viene attirato in una città da un patrizio romano e lì ucciso in un imboscata, ma in circostanze e in tempi diversi. Non si sa dire dunque se Fredegario stravolse, datandola al tempo di Isacio, la storia di Tasone duca del Friuli ucciso dal patrizio Gregorio narrata da Paolo Diacono, oppure se questo Tasone duca di Toscana è un personaggio veramente esistito che solo per coincidenza è omonimo al Tasone duca del Friuli di cui ci narra Paolo Diacono.

LE CONQUISTE DI ROTARI E LA TRAGICA FINE DI ISACIO
Rotari, duca di Brescia, asceso al trono nel 636, legittimò la successione sposando la vedova di Arioaldo, Gundeperga. Avviò una politica espansionistica ai danni dell’Impero romano d’Oriente. Nel 639 attaccò la provincia di Venezia Marittima, conquistando Oderzo e Altino:

Postquam autem Opiterine civitas a Rothari rege capta est, episcopus illius civitatis auctoritate Severiani pape hanc Eraclianam petere ibique suam sedem confirmare voluit.

 

Infatti, dopo che la città di Oderzo venne presa dal re Rotari, il vescovo di quella città si diresse con l’autorità di papa Severino qui ad Eracliana, dove volle porre la propria sede. (Giovanni Diacono, Historia Veneticorum, I,7)

Mentre per la caduta di Altino, abbiamo il racconto leggendario dell’Origo, la storia delle origini della città, che non è considerata in questo caso attendibile. Gran parte della popolazione di Oderzo si trasferì nelle lagune dove sarebbe sorta l’odierna Venezia, fondando la città di Eraclea, la nuova capitale della provincia. Gli abitanti di Altino invece si trasferirono nell’isola di Torcello. Arrivarono appena in tempo per assistere all’inaugurazione della nuova cattedrale di Torcello, costruita apposta per accogliervi il vescovo altinate:

In n(omine) d(omini) D(e)i n(ostri) Ih(es)u Xr(isti), imp(erante) d(omi)n(o) n(ostro) Heraclio p(er)p(etuo) Augus(to), an(no) XXVIIII ind(ictione) XIII, facta est eccl(esia) S(anc)t(e) Marie D(e)i Genet(ricis) ex iuss(ione) pio et devoto d(omi)n(o) n(ostro) Isaacio excell(entissimo) ex(ar)c(ho) patricio et D(e)o vol(ente) dedicata pro eius merit(is) et eius exerc(itu). Hec fabr(ica)t(a) est a fundam(entis) per b(ene) meritum Mauricium gloriosum magistro mil(itum) prov(incie) Venetiarum, residentem in hunc locum suum, consecrante s(anc)t(o) et rev(erendissimo) Mauro episc(opo) huius eccl(esie) f(e)l(ici)t(er). Nel nome del Signore Dio nostro Gesù Cristo, essendo imperatore il nostro signore Eraclio perpetuo Augusto, nell’anno ventinovesimo, indizione tredicesima, è stata fatta la chiesa di Santa Maria Madre di Dio, per ordine del nostro pio e devoto signore Isacco eccellentissimo esarca e patrizio, e, a Dio piacendo, è stata dedicata in favore dei suoi meriti e del suo esercito. Questa è stata fabbricata sin dalle fondamenta grazie al benemerito Maurizio, glorioso magister militum della provincia di Venezia, residente in questo suo luogo, con la consacrazione del santo e reverendissimo Mauro felicemente vescovo di questa chiesa. (Dedicazione lapidea della Cattedrale di Torcello)

Questa dedicazione marmorea è stata rinvenuta nel 1895 durante gli scavi nel pavimento della cattedrale; alcune parole sono state danneggiate dagli scavi, ma ciò non ha impedito agli studiosi di ricostruire le parole danneggiate (cfr. G. Ravegnani, Bisanzio e Venezia, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 32). Questa epigrafe sembra suggerire, per la citazione dei “suoi [dell’esarca Isacio] meriti e del suo esercito”, proprio in virtù dei quali la chiesa fu dedicata all’esarca Isacio, che l’esarca e l’esercito imperiale cercarono di contrastare l’attacco di Rotari ad Altino e Oderzo, ma, resosi conto dell’impossibilità di mantenere questi capisaldi nell’entroterra veneto, decisero di evacuare le due città, portando i suoi abitanti in salvo nelle lagune (cfr. Ravegnani 2006, ibidem, p. 33). In ogni caso, la provincia imperiale di Venezia si era ormai ridotta alle lagune (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, pp. 106-107).

Non contento, Rotari attaccò nell’autunno del 643 l’esarcato, sconfiggendo l’esarca Isacio in una battaglia combattuta presso il fiume Panaro:

Cum Ravennantibus Romanis bellum gessit ad fluvium Aemiliae qui Scultenna dicitur. In quo bello a parte Romanorum, reliquis terga dantibus, octomilia ceciderunt. [Rotari] Combatté con i Romani di Ravenna presso il fiume dell’Emilia che è chiamato lo Scultenna (Panaro). In questa battaglia 8.000 dalla parte dei Romani vennero massacrati e i superstiti si diedero alla fuga. (Paolo Diacono, IV, 45)

Se, secondo Paolo Diacono, fu una grande vittoria per i Longobardi, che uccisero all’incirca 8000 soldati imperiali, la storiografia moderna tende a ridimensionare questo trionfo, facendo notare che la vittoria non ebbe seguito e che la marcia di Rotari verso Ravenna fu in realtà arrestata (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 109). Approfittando della plausibile caduta in quella battaglia dell’esarca Isacio, con conseguente vuoto di potere, Rotari occupò, sempre nel 643, tutta la Liguria imperiale:

Chrotharius cum exercitu Genavam maritimam, Albinganum, Varicottim, Saonam, Ubitergium, et Lunam civitates littoris maris de imperio auferens vastat, rumpit, incendio concremans, populum diripit, spoliat et captivitate condemnat; murosque earum usque ad undamentum destruens, vicos has civitates nominare praecepit.

 

Rotari sottrasse all’Impero, devastandole e incendiandole con l’esercito, le città sul litorale, ovvero Genova marittima, Albenga, Varicotti, Savona, Ubitergium [Oderzo, nel Veneto] e Luni, depredando, spogliando e condannando alla servitù la popolazione; inoltre rase al suolo le mura di dette città, e comandò che tali città siano nominate borghi. (Fredegario, Cronaca, IV, 71)

Più o meno contemporaneamente, i Longobardi di Benevento espugnarono Salerno e posero a sacco Nocera.

Sazio di trionfi, Rotari decise di dedicarsi al diritto. Fino ad allora le leggi dei Longobardi non erano scritte, ma tramandate oralmente. Rotari decise di redarre un primo codice di leggi scritte. Il 22 novembre del 643 il codice di leggi di Rotari fu approvato dall’esercito di Pavia (cfr. Jarnut, ibidem, p. 71). Il corpo di leggi scritte aveva la funzione di impedire che i Longobardi poveri venissero danneggiati da una manipolazione arbitraria del diritto a tutto favore dei Longobardi potenti. A conferma della progressiva romanizzazione dei Longobardi, le leggi vennero scritte in latino.

IL PROBLEMA DEL MONOTELISMO: L’ETKESIS
Nel 628, riconquistate la Siria, la Palestina e l’Egitto, finite in mano persiana all’incirca dieci-quindici anni prima, l’Imperatore Eraclio (610-641) si trovò di fronte di nuovo il problema del monofisismo, un’eresia diffusa soprattutto in quelle regioni che riteneva che Cristo avesse solo una natura, quella divina. Con l’aiuto del patriarca di Costantinopoli, Sergio, cercò di trovare una formula teologica compromissoria che potesse andare bene sia per i cristiani che seguivano il credo di Calcedonia (i “non eretici”) che per i monofisiti. Alla fine l’Imperatore e il patriarca trovarono tale formula nel monoenergismo, che sosteneva che Cristo avesse sì due nature, ma solo una forza agente, la cosiddetta unità dell’energia (cfr. Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, Torino, 1968, p. 95). Si tentò di convincere i monofisiti delle province appena recuperate ai Persiani ad accettare la nuova formula teologica, ma dopo taluni iniziali risultati positivi, l’opposizione di entrambe le parti (calcedoniani e monofisiti) fecero sì che la formula venisse abbandonata. In particolare Sofronio, patriarca di Gerusalemme, sostenne che il monoenergismo fosse una nuova variazione del monofisismo e una falsificazione del dogma di Calcedonia. Anche Papa Onorio non si mostrò molto convinto dell’unità dell’energia in Cristo, sostenendo invece che secondo lui in Cristo agisse una sola volontà; ciò spinse Sergio a trovare una nuova formula teologica compromissoria nel monotelismo, secondo cui Cristo avrebbe due nature e una sola volontà. L’editto imperiale che promulgò il monotelismo, l’Etkesis, fu pubblicato nel 638, ma neanche questa formula venne accettata, né dai successori di Papa Onorio, né tanto meno dai monofisiti (cfr. Ostrogorsky, ibidem, p. 96). Tanto più che l’Impero tra il 634 e il 641 perse Siria, Palestina ed Egitto a causa dell’espansionismo degli Arabi Musulmani, a dimostrazione del fallimento politico dell’Etkesis. I monofisiti accolsero con favore i nuovi arrivati arabi e non opposero strenua resistenza.

Di fronte all’opposizione di Papa Severino all’Etkesis, il cartulario (governatore militare) di Roma, Maurizio, ricevette l’ordine di complottare contro il pontefice:

Severinus, natione Romanus, ex patre Abieno, sedit mens. II dies IIII. Huius temporibus devastatus est episcopius Lateranensis a Mauricio cartulario et Isacio patricio et exarcho Italiae, dum adhuc electus esser domnus Severinus. Sed antequam veniret Isacius patricius, Mauricius, dolo ductus adversus ecclesiam Dei, consilio inito cum quibusdam perversis hominibus, incitaverunt exercitum Romanum, dicentes quia “quid prodest quod tantae pecuniae congretatae sunt in episcopio Lateranense ab Honorio papa, et milex iste nihil subventum habent? Dum quando et rogas vestras quas domnus imperator vobis per vices mandavit, ibi sunt a suprascripto viro reconditas”. His auditis exarserunt omnes adversus ecclesiam Dei et venerunt omnes animo concitati omnes armati qui inventi sunt in civitate Romana, a puero usque ad senem in episcopio suprascripto Lateranensem, et non potuerun manu militare introire, quia resisterunt eis qui erant cum sanctissimo domno Severino. Tunc videns hoc Mauricius quia nihil potuerunt facere, dolo ductus fecit ibi exercitum resedere intra episcopio Lateranense, et fuerunt ibi dies IIl. Post triduo autem introivit Mauricius cum iudices qui inventi sunt cum ipso in consilio et sigillaverunt omnem vestiarium ecclesiae seu cymilia episcopii quas diversi christianissimi imperatores heu patrioti et consules pro redemptione animarum suarum beato Petro apostolo derelinquerunt, ut pauperibus singulis temporibus pro alimonia erogarentur, seu propter redemptionem captivorum. Et postmodum misit Mauricius epistulas suas ad Isacium patricium Ravenna de hoc quod actum est, quomodo ipso cum exercitu sigillasset omnem vestiarium episcopii et quid sine aliqua lesionem omnem substantiam saepedictam potuissent depraedare. Cumque haec verius cognovisset Isacius venit in civitate Romana et misit omnes primatos ecclesiae singulos per singulas civitates in exilio, ut non fuisset qui resistere debuisset de clero. Et post dies aliquantos ingressus est Isacius patricius in episcopio Lateranense et fuit ibi per dies VIII, usque dum omnem substantiam illam depraedarent. Eodem tempore direxit exinde parte ex ipsa substantia in civitate regia ad Heraclium imperatorem. Postmodum ordinatus est sanctissimus Severinus et reversus est Isacius Ravenna.

 

Severino, romano di nascita, figlio di Abieno, sedette [sul trono pontificio] due mesi e quattro giorni. Ai suoi tempi – mentre ancora Severino era solo eletto – fu devastato l’episcopio lateranense dal cartulario Maurizio e da Isacio, patrizio ed esarca d’Italia. Ma prima ancora che venisse [a Roma] il patrizio Isacio, Maurizio, spinto all’inganno verso la chiesa di Dio, fatta lega con alcuni uomini malvagi, incitò l’esercito romano, dicendo: “A che giova che tante ricchezze siano state riunite nell’episcopio lateranense dal papa Onorio, se i soldati che sono qui non ne ricavano nulla? Inoltre, ogni volta che il signore imperatore vi mandò le vostre paghe, esse sono state nascoste qui dal suddetto personaggio”. Udito ciò, tutti si infiammarono contro la chiesa di Dio e vennero con animo irato – tutti gli armati che si trovavano a Roma, dai vecchi ai fanciulli – nel suddetto episcopio lateranense, ma non riuscirono ad entrare con la forza delle armi, poiché quelli che erano con il santissimo Severino resistettero loro. Allora, vedendo questo (che non riuscivano a far nulla), astutamente Maurizio fece stazionare l’esercito entro l’episcopio lateranense, e vi stettero per tre giorni. Passati i tre giorni, Maurizio con gli ufficiali che si erano uniti a lui nella cospirazione entrò [nell’episcopio] e sigillò tutto il vestiario della chiesa (o cymilia dell’episcopio), [contenente le ricchezze] che parecchi imperatori cristianissimi, patrizi e consoli avevano lasciato al beato Pietro apostolo per la redenzione delle loro anime, affinché fossero erogate ai poveri come alimento nei vari periodi [nei quali era necessario], o perché servissero per il riscatto dei prigionieri. Dopodiché Maurizio inviò le sue lettere ad Isacio patrizio a Ravenna, narrandogli ciò che era accaduto, in che modo egli stesso con l’esercito aveva sigillato tutto il vestiario dell’episcopio e come aveva potuto depredare tutta la suddetta ricchezza senza alcun spargimento di sangue. Avendo appreso che ciò era verissimo, Isacio venne a Roma e mandò in esilio tutti i vari primati della chiesa in città differenti, affinché [in città] non ci fosse più nessuno del clero in grado di opporre resistenza. E dopo alcuni giorni il patrizio Isacio entrò nell’episcopio lateranense e vi stette per otto giorni, finché non ebbe depredato tutta quella ricchezza. Contemporaneamente inviò da lì una parte di quella ricchezza nella città regia all’imperatore Eraclio. Dopodiché fu ordinato [papa] il santissimo Severino e Isacio tornò a Ravenna. (Liber Pontificalis, Vita di Severino)

Poco dopo, tuttavia, nel 641, lo stesso Maurizio si rivoltò all’esarca, accusandolo di voler secedere dall’Impero. Isacio gli inviò quindi contro un esercito condotto da un certo Dono. I soldati abbandonarono presto il loro condottiero Maurizio, che, disperato, cercò rifugio in una chiesa di Roma (la Basilica di Santa Maria Maggiore), ma fu catturato e decapitato a Cervia (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 109). La rivolta era stata sedata con estremo rigore.