Guerra gotica (535-553) – La vittoriosa campagna di Belisario

LO SCOPPIO DELLA GUERRA

L’imperatore Giustiniano I con il suo seguito, Ravenna, Basilica di San Vitale.

Subito dopo il crimine (l’uccisione di Amalasunta), Pietro fece ritorno a Costantinopoli portando lettere da Teodato e sua moglie a Giustiniano e Teodora, seguito da un rappresentante del clero italico, forse lo stesso Papa Agapito. L’obbiettivo di Teodato era di evitare lo scoppio del conflitto, e contava sull’influenza di Teodora. Si narra che esercitò pressioni sul senato affinché scrivessero a Giustiniano per  convincerlo a mantenere la pace, minacciandolo, in caso contrario, di massacrare i senatori e le loro famiglie. Cassiodoro, prefetto del pretorio, si occupò di redigere la lettera che il senato romano inviò a Giustiniano per implorargli di mantenere la pace.

Tutto ciò, tuttavia, risultò vano, in quanto l’Imperatore era determinato a riunire l’Italia all’impero. Per Giustiniano l’unica soluzione per evitare la guerra era che Teodato abdicasse e cedesse l’Italia all’imperatore. Pietro tornò in Italia nell’estate dell’anno 535 portando l’ultimatum.

Nel frattempo Giustiniano inviò un’ambasceria presso i Franchi, cercando di comprare la loro alleanza contro i Goti con l’oro. I Franchi promisero che sarebbero intervenuti nel conflitto in favore dell’Impero, ma in realtà non mantennero la promessa e intervenirono solo in seguito in maniera opportunistica, né a vantaggio dell’Impero né a quello dei Goti.

Nel frattempo i preparativi per la guerra proseguirono, e la spedizione fu affidata a Belisario, generale che aveva già riconquistato l’Africa ai Vandali e che era stato nominato console per l’anno 535. Per preparare la strada alla conquista dell’Italia, fu pianificata la conquista della Sicilia, da invadere via mare, e della Dalmazia, da invadere via terra. La conquista della Dalmazia fu affidata al gepido Mundo, magister militum per Illyricum. Questi sconfisse i Goti di stanza nella regione ed espugnò Salona. La conquista della Sicilia fu invece affidata a Belisario, nominato ancora una volta strategos autokrator (generalissimo o comandante supremo della spedizione). Gli fu messo a disposizione un esercito consistente in 4.000 comitatensi e foederati, 3.000 Isauri, 200 Unni, 300 Mauri, a cui vanno aggiunti i circa 7.000 Bucellarii di Belisario.

LA CONQUISTA DELLA SICILIA E DELLA DALMAZIA (535)

 

La prima fase della guerra gotica (535-540).

Giustiniano tentò di nascondere per quanto possibile lo scoppio delle ostilità. Fu diffusa la falsa voce che la flotta fosse diretta a Cartagine, e Belisario fu istruito che allo sbarco in Sicilia avrebbe dovuto fingere di aver fatto solo uno sbarco tecnico ma di essere ancora diretto in Africa, e solo dopo aver appurato che l’isola poteva essere sottomessa senza problemi, avrebbe dovuto procedere a conquistarla militarmente. Nel caso non fosse stato possibile conquistarla agevolmente, sarebbe salpato per l’Africa come se non avesse mai avuto altre intenzioni.

Belisario sbarcò a Catania e si rese conto della debolezza delle guarnigioni gote a presidio dell’isola, decidendo dunque di conquistare la Sicilia. Dopo aver espugnato Catania, occupò Siracusa, e dal resoconto della conquista dell’isola tramandato da Procopio sembra che i Goti opposero resistenza militare solo a Palermo, protetta dalle fortificazioni e difesa da una consistente guarnigione. Grazie alla superiore strategia di Belisario tuttavia anche Palermo fu espugnata. La riconquista della Sicilia, agevolata dal favore della popolazione locale e dall’esiguità di truppe gotiche nell’isola, fu completata entro la fine di dicembre. Il 31 dicembre 535 Belisario celebrò la fine del suo consolato entrando trionfante a Siracusa.

Nel frattempo, allarmato dalle sconfitte subite in Dalmazia e in Sicilia, re Teodato nell’inverno 535 indusse Papa Agapito a recarsi come ambasciatore a Costantinopoli per tentare di negoziare una pace non troppo sfavorevole. La missione diplomatica del pontefice non ebbe però esito sfavorevole e Agapito morì nella Nuova Roma alcuni mesi dopo (22 aprile 536). Nel frattempo l’inviato imperiale Pietro riuscì quasi a convincere re Teodato ad abdicare e a cedere l’intera Italia a Giustiniano in cambio di 1200 libbre d’oro. Teodato in preda ai timori accettò in un primo momento questa proposta ma poi si rimangiò la parola data, decidendo di rimanere al potere e di continuare la guerra, rinvigorito dalla notizia di una vittoria ostrogota in Dalmazia, che costrinse le truppe imperiali a evacuarla. Questa notizia fece cambiare idea al re ostrogoto, che decise di venir meno al giuramento che avrebbe abdicato e consegnato l’Italia all’impero. Per tutta risposta Giustiniano inviò Costanziano, comes stabuli, in Dalmazia con l’esercito di campo dell’Illirico per recuperarla, e ordinò a Belisario di invadere l’Italia. Costanziano riuscì a recuperare la Dalmazia per l’Impero.

ASSEDIO DI NAPOLI E DEPOSIZIONE DI TEODATO (536)

L’invasione della penisola italiana da parte dell’esercito di Belisario fu rimandata a causa di una rivolta dell’esercito di stanza in Africa. Belisario perse la prima metà nell’anno 536 nel tentativo di reprimere la rivolta militare in Africa. Al suo ritorno in Sicilia, Belisario collocò delle guarnigioni a Siracusa e a Palermo, e con l’armata attraversò lo stretto di Messina, sbarcando a Reggio. Teodato aveva affidato la difesa degli stretti al suo genero Evermud, che tuttavia disertò in favore di Belisario, venendo inviato a Costantinopoli, dove fu ricompensato con la dignità di patrizio. La marcia di Belisario lungo la costa fino a Napoli non incontrò resistenza. Accampatosi in prossimità di Napoli, Belisario ricevette una deputazioni di cittadini partenopei, che lo implorarono di non assediare una città di quasi nessuna importanza come Napoli, ma di marciare subito Roma. Con la resa di Roma, asserivano, anche Napoli si sarebbe consegnata spontaneamente agli Imperiali. Belisario, convinto assolutamente a espugnare tutte le fortezze lungo la via per non correre il rischio di essere assalito alle spalle dalle guarnigioni nemiche, tentò di convincere i napoletani ad arrendersi, promettendo che avrebbe concesso alla guarnigione ostrogota di partire incolume, e promettendo grandi ricompense al capodelegazione Stefano se fosse riuscito a convincere i suoi concittadini ad aprire le porte agli Imperiali. Due oratori filogoti, Pastore e Asclepiodoto, tuttavia riuscirono a convincere la popolazione a rifiutare la resa e a resistere. Anche gli ebrei napoletani, favoriti dalla politica di Teodorico, erano contrari alla resa ed erano determinati a opporre la più strenua resistenza. Belisario decise dunque di assediare Napoli, ma la città era dotata di ottime mura e resistette per alcune settimane all’assedio, infliggendo perdite non trascurabili all’esercito imperiale. Belisario aveva già dato ordini per la partenza, quando un isauro curioso scoprì che attraverso l’acquedotto di Napoli era possibile penetrare all’interno della città mediante un’apertura all’interno di esso. Quando Belisario ne fu informato, decise di approfittarne per espugnare la città. Nel corso della notte seicento soldati imperiali penetrarono nella città attraverso l’acquedotto, e aprirono le porte della città ai loro commilitoni. I soldati imperiali, entrando nella città, si diedero al massacro e al saccheggio, e specialmente gli Unni si distinsero in ciò, ma Belisario riuscì a fermare la strage in corso. I prigionieri vennero liberati e la guarnigione ostrogota, ottocento soldati, fu ben trattata. La popolazione partenopea per la rabbia linciò Asclepiodoto mentre Pastore morì colpito da un attacco apoplettico alla notizia della caduta di Napoli in mano imperiale.

Nel frattempo, i Goti di Roma e della provincia di Campania, disgustati dall’inazione del loro re Teodato, decisero, dopo la caduta di Napoli, di detronizzarlo e di eleggere un nuovo re dotato di grande esperienza militare. La scelta cadde su Vitige, generale distintosi nelle campagne contro i Gepidi, che fu proclamato re dall’esercito nel novembre 536. Teodato, alla notizia della rivolta dell’esercito, da Roma fuggì prontamente in direzione di Ravenna ma fu ucciso durante il viaggio da un sicario inviato da Vitige.

Il nuovo re si recò a Roma per incontrarsi con i suoi generali per discutere sul da farsi. I Goti erano minacciati su due fronti, dall’armata imperiale di Belisario nel Sud della penisola e dai bellicosi Franchi a nord. Vitige decise di risolvere prima il problema franco. Munì Roma di un presidio di 4.000 soldati ostrogoti, dopo aver preso anche in ostaggio alcuni senatori nel tentativo di prevenire un eventuale tradimento, e decise di marciare a nord per negoziare una pace con i Franchi, che premevano sulla Provenza e sulle Venezie. A Ravenna Vitige sposò, contro la volontà di costei, Matasunta, sorella di Atanarico, in modo da legittimare il trono imparentandosi con la dinastia degli Amali a cui apparteneva Teodorico il Grande. Trattò la pace con i Franchi accettando di cedere loro la Provenza e di pagare 2.000 libbre d’oro, in cambio di un’alleanza militare contro l’Impero. I Franchi, tuttavia, non volendo rompere gli accordi precedentemente stretti da Giustiniano, decisero di non intervenire direttamente nel conflitto, ma di inviare come rinforzi agli Ostrogoti guerrieri dei popoli tributari sotto il loro giogo. Teodorico tentò anche di negoziare la pace con l’Imperatore ma senza successo.

La tattica di Vitige nei fatti si rivelò erronea. Invece di ritirarsi a nord, lasciando via libera a Belisario, il re ostrogoto avrebbe dovuto confrontarsi in battaglia con il grosso delle truppe con l’esercito di Belisario prima che quest’ultimo avesse raggiunto Roma oppure munire Roma di forte presidio per costringere l’esercito imperiale a un lungo e impegnativo assedio. Operando diversamente permise a Belisario di impadronirsi agevolmente di Roma. Infatti, i cittadini di Roma violarono il giuramento fatto a Vitige e aprirono le porte dell’Urbe a Belisario, che così entrò a Roma il 9 dicembre 536 passando per la Porta Asinaria, mentre la guarnigione ostrogota si ritirò passando per la Porta Flaminia. Il comandante della guarnigione ostrogota, Leuderi, fu inviato a Costantinopoli presso l’imperatore con le chiavi delle porte dell’Urbe.

ASSEDIO DI ROMA (537-538)

Le mura di Roma nel VI secolo.

Una volta entrato a Roma, Belisario si insediò nella Domus Pinciana, nell’estremo nord dell’Urbe, e diede immediato ordine di rafforzare le fortificazioni della Città Eterna, conscio che presto sarebbe accorso Vitige con il grosso dell’esercito ostrogoto per assediare la città. Sempre in vista dell’imminente assedio, fece anche in modo che l’Urbe ricevesse continui rifornimenti di grano importato dalla Sicilia. Inviò inoltre distaccamenti del suo esercito a occupare importanti fortezze disposte lungo la Via Flaminia, cioè Narni, Spoleto e Perugia.

Ben presto la controffensiva di Vitige arrivò. Il re ostrogoto inviò una piccola parte del suo esercito in Dalmazia, mentre con il grosso dell’esercito (Procopio fornisce la cifra esagerata di 150.000 soldati, cifra respinta dagli studiosi moderni che stimano l’esercito di Vitige intorno ai 30.000 soldati) si diresse ad assediare Roma. Tuttavia il tentativo di riconquista della Dalmazia non ebbe esito favorevole, mentre l’assedio dell’Urbe si protrasse per oltre un anno, concludendosi anch’esso con un nulla di fatto. Dato che però l’assedio di Roma fu un avvenimento importante, sarà trattato qui abbastanza nel dettaglio. L’armata di Vitige rioccupò agevolmente le fortezze lungo la Via Flaminia occupate dagli Imperiali, e in corrispondenza del Ponte Salario, a poche miglia dall’Urbe, ebbe un primo scontro con l’esercito di Belisario. Il generale imperiale aveva collocato un forte in corrispondenza del ponte per sbarrare la strada agli Ostrogoti e poter così guadagnare tempo per introdurre ulteriori vettovaglie nell’Urbe. Il problema fu che la guarnigione del forte, di fronte alla soverchiante superiorità numerica degli Ostrogoti, fuggì e i Goti poterono così attraversare il Ponte indisturbati. Il giorno dopo Belisario, inconsapevole di tutto ciò, marciò in direzione del ponte con un migliaio di cavalieri e si imbatté con l’esercito di Vitige. Seguì uno scontro tra cavallerie in cui gli imperiali, in notevole inferiorità numerica, furono ben presto costretti a ripiegare. Quando Belisario e i suoi uomini raggiunsero la Porta Salaria chiedendo di entrare, le sentinelle non riconobbero il loro comandante, anche perché si era diffusa la notizia infondata della sua morte in battaglia. Belisario allora caricò gli inseguitori, che si ritirarono, nel timore che un nuovo esercito fosse appena uscito dalle porte. Alla fine Belisario fu riconosciuto ed entrò nell’Urbe, passando la notte nel prendere misure per la difesa della città dall’imminente assedio, che cominciò il giorno successivo e durò un anno e nove giorni. I Goti costruirono sette accampamenti, uno in corrispondenza del Campo di Nerone e gli altri sei a est del Tevere. I Goti tagliarono i numerosi acquedotti che rifornivano l’Urbe di acqua e dopo alcuni giorni diedero il primo assalto alle mura, che tuttavia fu respinto. Vitige, furente, fece giustiziare i senatori in suo ostaggio, anche se alcuni di essi riuscirono a mettersi in salvo con la fuga. Nel frattempo Belisario decise di espellere momentaneamente dall’Urbe le persone disutili alla sua difesa (donne, fanciulli e schiavi) e chiese urgentemente rinforzi per lettera all’imperatore Giustiniano. Quest’ultimo glieli aveva già inviati, sotto il comando di Valeriano e Martino, ma non avevano ancora raggiunto l’Urbe avendo deciso di svernare in Grecia. Non appena ricevette la lettera di Belisario, Giustiniano sollecitò i rinforzi ad affrettare il loro arrivo nella Città Eterna, e decise di inviarne di nuovi.

Nel frattempo gli Ostrogoti occuparono Porto, il porto di Roma, nel tentativo di rendere molto più difficoltosa l’introduzione di vettovaglie nell’Urbe assediata. Procopio si rammaricò per il fatto che Belisario non vi avesse messo un presidio anche solo di 300 uomini, data la solidità delle fortificazioni di Porto che avrebbe reso molto agevole la sua difesa. Tre settimane dopo la caduta di Porto, arrivarono tuttavia i primi rinforzi, 1.600 cavalieri (per lo più Unni e Slavi) sotto il comando di Martino e Valeriano. Belisario decise di impiegare i suoi arcieri a cavallo in sortite offensive fuori le mura infliggendo pesanti perdite al nemico, ma decise prudentemente di evitare uno scontro in campo aperto, conscio dell’inferiorità numerica. Tuttavia i suoi soldati, esaltati da tale successo, chiedevano la battaglia in campo aperto e Belisario con riluttanza acconsentì, come già era successo a Callinicum contro i Persiani. Una battaglia in campo aperto si combatté fuori le mura, in cui le truppe imperiali, soverchiate dalla superiorità numerica nemica, furono costrette a riparare entro le mura. Verso la fine di giugno la fame si era diffusa nell’Urbe, avendo i Goti rafforzato il blocco impedendo l’introduzione di vettovaglie nella città assediata. Il grano era a stento sufficiente per nutrire i soli soldati, e i cittadini, stremati dalla fame, implorarono Belisario a rischiare una nuova battaglia in campo aperto. Belisario rifiutò ma promise che sarebbero presto arrivati nuovi rinforzi e vettovaglie. Belisario inviò Procopio e la moglie Antonina in Campania per procurarsi vettovaglie e ordinare ai soldati delle guarnigioni di Napoli e Cuma di inviare rinforzi alla guarnigione di Roma. Nel frattempo anche l’armata di Vitige stava patendo la carestia e malattie e si era pesantemente indebolita. Infatti gli assedianti ostrogoti a stento ricevevano vettovaglie anche a causa del controllo dei mari esercitato dalla flotta imperiale. Nel novembre 537 arrivarono nell’Urbe nuovi rinforzi. Tremila isauri erano sbarcati a Napoli e 1.800 cavalieri a Otranto. Tra i loro comandanti spiccava Giovanni, nipote di Vitaliano.

Dopo l’arrivo dei rinforzi, Vitige, disperando di espugnare Roma, inviò ambasciatori a Belisario per negoziare una pace o una tregua. L’inviato di Vitige accusò gli Imperiali di aggressione nei confronti dei legittimi possessori dell’Italia, ovvero gli Ostrogoti, che l’avevano conquistata a nome dell’imperatore Zenone per deporre il tiranno Odoacre che aveva a sua volta deposto l’imperatore Romolo Augusto; gli Ostrogoti avevano sempre rispettato la costituzione dell’Impero romano, riservando le cariche civili ai soli italici e non perseguitando i Cattolici, e ora, in ricompensa del loro buon governo, subivano ingiustamente l’invasione delle ingrate truppe imperiali. Belisario ribatté sostenendo che Zenone aveva inviato sì Teodorico contro Odoacre, ma a condizione che il re ostrogoto riportasse l’Italia sotto il controllo dell’impero, condizione che poi Teodorico non rispettò, e dunque erano gli Ostrogoti a trovarsi nella parte del torto. L’inviato di Vitige, in cambio della pace, propose la cessione della Sicilia, essenziale per la sicurezza dell’Africa, al che Belisario lo canzonò per aver proposto la cessione di un’isola che più non possedevano, affermando che i Romani erano pronti a cedere ai Goti l’isola di Britannia, in quanto non era possibile accettare tale favore senza offrire un equivalente. L’inviato aggiunse allora la cessione della Campania o di Napoli e poi anche la disponibilità di pagare un tributo annuale all’imperatore, ma Belisario obbiettò che non possedeva i poteri per disporre della proprietà dell’imperatore, per cui l’inviato concluse che era necessario inviare un’ambasceria presso Giustiniano e negoziare la pace con lui. L’inviato chiese allora a Belisario di concludere un armistizio temporaneo in attesa dell’esito delle negoziazioni, proposta che fu accettata. Fu stabilita una tregua di tre mesi. Nel frattempo ulteriori rinforzi, sbarcati a Ostia, arrivarono a Roma.

Roma ricevette nuove vettovaglie, mentre gli Ostrogoti nei loro accampamenti continuavano a soffrire la fame. La carenza di cibo costrinse Vitige a evacuare le fortezze di Porto, Civitavecchia e Alba, che vennero prontamente rioccupate dagli imperiali. Vitige protestò per ciò con Belisario, accusandolo di aver violato l’armistizio, ma il generale imperiale rise loro in faccia. Belisario inviò 2.000 truppe sotto il comando di Giovanni, nipote di Vitaliano, a svernare ai confini con il Piceno, con l’ordine di invadere e saccheggiare il Piceno nel caso il nemico avesse violato la tregua. Nel frattempo alcuni cittadini di Milano raggiunsero Roma, pregando Belisario di inviare parte del suo esercito per liberare l’Italia nord-occidentale dai Goti. Belisario acconsentì, ma decise di attendere la fine della tregua di tre mesi per eseguirlo.

Nel frattempo però la tregua fu violata dai Goti che tentarono di penetrare nell’Urbe a tradimento attraverso uno degli acquedotti, l’Aqua Virgo, nei pressi della Porta Pinciana, e poi tentarono invano di drogare le guardie di una bassa porzione delle mura sul lato nord-occidentale dell’Urbe con la complicità di due cittadini romani corrotti, ma entrambi i piani fallirono. Belisario, per vendetta, ordinò a Giovanni di saccheggiare il Piceno. Nonostante Belisario gli avesse raccomandato di espugnare tutte le fortezze lungo la via (guerra di posizione), per evitare di essere attaccato alle spalle dalle truppe di guarnigione nemiche, Giovanni, che privilegiava invece la guerra di movimento, disobbedì al suo superiore, marciando direttamente su Rimini senza aver prima espugnato Osimo e Urbino. Giovanni aveva previsto che, se avesse espugnato Rimini, a una sola giornata di marcia da Ravenna, avrebbe costretto Vitige a levare l’assedio di Roma per accorrere in difesa della capitale ostrogota. Così fu, e quando Vitige ricevette la notizia della caduta di Rimini in mano imperiale, decise di levare l’assedio dell’Urbe (marzo 538). Erano passati un anno e nove giorni dall’inizio dell’assedio.

ASSEDIO E LIBERAZIONE DI RIMINI

Non appena il nemico si ritirò da Roma, Belisario inviò Martino e Ildigero alla testa di 1.000 cavalieri per ordinare a Giovanni di evacuare Rimini, e sostituire i suoi 2.000 cavalieri isauri con una piccola armata di fanteria proveniente dalla guarnigione di Ancona. A Belisario appariva infatti sprecato l’uso di 2.000 eccellenti cavalieri nel presidio di Rimini quando sarebbe stato possibile usarli in campo aperto. Durante la loro marcia espugnarono la fortezza di Petra Pertusa e, dopo averla munita di presidio, proseguirono il loro viaggio fino a Fano. Da lì cavalcarono fino ad Ancona, distaccarono dal presidio un distaccamento di fanti e li portarono a Rimini in modo che essi sostituissero gli Isauri nella difesa di Rimini. Giovanni tuttavia rifiutò di obbedire, e rimase a Rimini. Quella della divisione dei generali sulla tattica da seguire fu uno dei problemi che Bisanzio dovette fronteggiare durante la guerra. Giovanni non condivideva la politica prudente di Belisario, basata sulla guerra di posizione, e privilegiava la guerra di movimento. Per questo spesso non seguiva scrupolosamente gli ordini ricevuti dal suo comandante, e faceva di testa sua. In questo caso, tuttavia, probabilmente avrebbe fatto meglio a obbedire. Giovanni si trovò ben presto assediato a Rimini dall’esercito di Vitige e disperava ormai per la propria salvezza (aprile 538).

Belisario nel frattempo procedeva nella sottomissione sistematica di tutte le fortezze ostrogote a ovest degli Appennini, espugnando le fortezze di Clusium e di Tuder. Avrebbe voluto ora procedere con la conquista di Orvieto ma la notizia dell’arrivo di 7.000 rinforzi dall’Oriente nel Piceno sotto il comando dell’eunuco Narsete lo indussero a rinviare l’assedio per incontrarsi con i nuovi rinforzi e discutere con i loro comandanti sul da farsi. I rinforzi consistevano in 5.000 truppe romane sotto il comando di Narsete e del magister militum per Illyricum Giustino, e da 2.000 ausiliari eruli sotto i loro capi tribali. Si discusse su se soccorrere o meno Giovanni stretto d’assedio dai Goti a Rimini, e che rischiava di capitolare in breve tempo per fame. Belisario, spalleggiato dalla maggioranza dei generali suoi subordinati, si oppose al suo soccorso, temendo di essere attaccato alle spalle durante la marcia dai Goti di stanza a Osimo, ma soprattutto infastidito dall’insubordinazione di Giovanni. Narsete, invece, essendo per altro amico personale di Giovanni, insistette per il suo soccorso, facendo peraltro notare non solo le perdite materiali, ma anche le conseguenze morali, della caduta in mano nemica di una città importante e di un ingente corpo di truppe. Durante la riunione un soldato proveniente da Rimini e che aveva eluso il blocco arrivò nell’accampamento portando una lettera da Giovanni in cui veniva implorato immediato soccorso, essendo ormai quasi esaurite le vettovaglie e ormai prossima l’eventuale resa. Alla fine Belisario, seppur tra tanti dubbi, si decise di accorrere in soccorso di Rimini. Belisario, per prevenire un eventuale attacco alle spalle dalla guarnigione di Osimo, collocò un migliaio di soldati a est della fortezza. Un’armata condotta da Ildigero fu inviata via mare a Rimini, con l’istruzione di non sbarcare fino all’arrivo di una seconda armata, condotta da Martino, che avrebbe dovuto marciare lungo la costa. Martino doveva accendere molti più fuochi di quanto richiesti, per ingannare il nemico sul numero delle truppe a sua disposizione. Belisario, accompagnato da Narsete, condusse il resto dell’esercito per un impervio percorso montagnoso con il proposito di raggiungere Rimini da nord-ovest. Il completo successo del piano richiedeva un’estrema coordinazione tra le tre armate. Alla fine, ingannati dal numero di fuochi, e temendo che l’esercito di Belisario fosse molto più grande di quanto in realtà fosse, i Goti di Vitige decisero di levare frettolosamente l’assedio e di ritirarsi a Ravenna. Quando Belisario si trovò di fronte Giovanni, gli disse che doveva la sua salvezza a Ildigero. Giovanni obiettò che in realtà doveva la sua salvezza a Narsete.

DIVISIONI NELL’ESERCITO IMPERIALE

La liberazione di Rimini fu una nuova conferma dell’abilità militare di Belisario, ma costituì una vittoria morale per Narsete, senza la cui insistenza Rimini sarebbe stata abbandonata al suo destino. L’arrivo di Narsete fomentò ulteriori divisioni nell’esercito. Parte dell’esercito rifiutò di obbedire incondizionatamente agli ordini di Belisario ritenendo Narsete il loro comandante supremo. In un concilio di guerra Belisario propose di inviare parte dell’esercito in soccorso di Milano mentre il resto delle truppe avrebbe dovuto essere impiegato nella sottomissione delle rimanenti fortezze a ovest degli Appennini, in particolare Orvieto e Osimo. Narsete tuttavia rifiutò di adoperare le truppe sotto il suo comando per gli scopi stabiliti da Belisario e intendeva intraprendere con esse la conquista dell’Emilia in modo da minacciare da vicino la capitale ostrogota Ravenna, con il possibile vantaggio di impedire al grosso dell’esercito ostrogoto, in quel momento a Ravenna, di intervenire in soccorso delle fortezze assediate da Belisario.

Belisario, contrario per il momento alla conquista dell’Emilia, tentò allora di ribadire la propria posizione di comandante supremo (generalissimo o strategos autokrator) mostrando peraltro una lettera ricevuta da Giustiniano in cui veniva confermato al comando dell’esercito: “Nell’inviare Narsete in Italia non gli abbiamo conferito il comando dell’esercito. E’ nostra volontà che Belisario solo conduca l’esercito come egli vuole, e dovete tutti prestargli obbedienza nell’interesse dello Stato”. Tuttavia Narsete prese a pretesto la parte finale della lettera per disobbedirgli ogniqualvolta che riteneva che Belisario non stesse agendo “nell’interesse dello stato”.

Belisario distaccò parte dell’esercito per assediare Orvieto e, accompagnato da Narsete e Giovanni, procedette egli stesso ad assediare Urbino. L’assedio di Urbino tuttavia si protrasse per parecchio, disponendo la città di un’abbondante riserva di vettovaglie, e Narsete, ritenendo uno spreco di tempo rimanere lì in attesa della sua capitolazione, inviò le truppe di Giovanni contro Cesena. Non essendo riuscito ad espugnarla, Giovanni, che odiava gli assedi, avanzò contro Imola, che fu espugnata di sorpresa, e successivamente sottomise agevolmente l’intera provincia di Emilia. Nel frattempo l’unica sorgente che riforniva Urbino di acqua si seccò costringendo la guarnigione ostrogota, priva ormai di acqua, a capitolare.

CADUTA DI MILANO (539)

Era ormai dicembre (538) e Belisario ritenne inopportuno procedere immediatamente all’assedio di Osimo. Marciò verso Orvieto, che era già sul punto di arrendersi, essendo quasi esaurite le provviste. Orvieto era ben protetta dalle sue difese naturali contro gli assalti nemici e poteva essere espugnata soltanto per fame. Nella primavera del 539 la fortezza capitolò appunto per tale motivo.

Nel frattempo nell’Italia transpadana Milano era assediata dagli Ostrogoti. Un anno prima, nell’aprile 538, Belisario aveva inviato 1.000 soldati tra Isauri e Traci sotto il comando di Mundila a conquistare Milano. Salpati da Porto e sbarcati a Genova, le truppe imperiali erano riusciti a occupare Milano, Bergamo, Como, Novara e tutte le fortezze della provincia di Liguria ad eccezione di Pavia. Tuttavia Vitige aveva prontamente inviato il nipote Uraia a recuperare Milano. Gli assedianti goti presto ricevettero dei rinforzi dal re franco Teodeberto: per non rompere i trattati con Giustiniano, il re franco non inviò direttamente i Franchi come rinforzi ai Goti, ma 10.000 guerrieri Burgundi, popolazione da alcuni anni sottomessa dai Franchi. Milano si trovò ben presto assediata da Goti e Burgundi con un presidio di solo 300 soldati imperiali al comando di Mundila. I cittadini milanesi abili alle armi furono chiamati a prendere parte alla difesa della loro città.

In seguito alla liberazione di Rimini, Belisario aveva inviato un consistente esercito condotto da Martino e Uliare alla liberazione di Milano. I due comandanti si accamparono sulla riva meridionale del Po, ma non osarono muovere un solo ulteriore passo in preda al timore dell’orda dei barbari che stavano assediando la città. Mundila era riuscito a inviare un messaggero, che era riuscito a eludere le sentinelle nemiche, per sollecitare al più presto i soccorsi.

Alla fine Martino e Uliare scrissero con molto ritardo a Belisario, descrivendo le proprie forze come inadeguate a fronteggiare il nemico e richiedendo rinforzi da Giovanni e Giustino, che erano in quel momento di stanza in Emilia. Belisario acconsentì, ma Giovanni e Giustino rifiutarono di eseguire l’ordine se non avessero ricevuto l’assenso anche di Narsete. Narsete diede il via libera, ma Giovanni si ammalò. Insomma, ritardi su ritardi si accumulavano, e nel frattempo Milano, oppressa dalla fame, capitolò al nemico. La guarnigione fu risparmiata e ridotta in prigionia, ma Milano, la città più prospera e popolosa d’Italia, fu rasa al suolo e tutti i suoi abitanti adulti maschi (secondo Procopio 300.000 ma la cifra appare esagerata e andrebbe ridotta ad almeno un decimo) vennero massacrati, mentre le donne furono ridotte in schiavitù dai Burgundi.

La caduta di Milano, avvenuta nel marzo 539, portò come conseguenza la caduta immediata dell’intera Liguria in mano ostrogota, ma soprattutto spinse Giustiniano, resosi ormai conto dei danni provocati dalle divisioni nell’esercito fomentate da Narsete, a richiamare a Costantinopoli il generale eunuco, riconfermando Belisario al comando supremo dell’esercito.

ASSEDIO ED ESPUGNAZIONE DI OSIMO (539)

Nel frattempo Vitige, allarmato dall’andamento del conflitto, cercò l’alleanza con i Longobardi, che tuttavia, essendo alleati di Giustiniano, rifiutarono di intervenire in soccorso dei Goti. Vitige decise allora di rivolgersi alla Persia, tentando di sobillarla a riprendere le ostilità, in modo da tenere impegnato l’Impero su due fronti. Furono inviati come ambasciatori al re persiano Cosroe I due sacerdoti liguri, in modo che potessero raggiungere la Persia attraverso il territorio romano senza destare sospetti. I due sacerdoti, raggiunta la corte di Cosroe I, gli consegnarono una lettera da re Vitige, in cui il re persiano veniva istigato a invadere l’Impero, in modo da tenerlo impegnato su due fronti. Questo appello non fu certo il motivo principale per cui Cosroe riaprì le ostilità, ma indubbiamente sortì il suo effetto. Tuttavia la guerra tra l’Impero e la Persia ricominciò troppo tardi per salvare il trono a Vitige.

Nel giugno 539 Giustiniano fu informato delle negoziazioni tra Ravenna e Ctesifonte (la capitale della Persia), e si mostrò dunque maggiormente disposto a terminare al più presto la guerra in Italia con un compromesso in modo da richiamare Belisario sulla frontiera orientale. Riprese dunque le negoziazioni con Vitige.

Nel frattempo Belisario, prima di avanzare su Ravenna, ritenne opportuno espugnare prima Osimo e Fiesole. Inviò parte dell’esercito, sotto il comando di Martino e Giovanni, a Tortona per impedire all’armata di Uraia di marciare in soccorso di Fiesole, poi inviò Giustino e Cipriano ad assediare Fiesole, mentre con il grosso dell’esercito egli stesso assediò Osimo. Questi due assedi durarono più di sei mesi (da aprile fino a ottobre o novembre del 539).

Nel corso dei due assedi, tuttavia, i Franchi invasero improvvisamente l’Italia per approfittare dell’indebolimento delle due contendenti. I Goti, illusi che Teodoberto fosse accorso in loro soccorso, esultarono alla loro invasione. I Goti di stanza a Pavia, illusi che i Franchi fossero loro alleati, permisero agli invasori di attraversare il Po, ma una volta all’altra riva del fiume, i Franchi svelarono le loro reali intenzioni e assalirono gli stessi Goti, massacrandoli e gettandone i corpi nel fiume. Una volta attraversato il Po, i Franchi si avvicinarono a Tortona, dove erano accampate, a breve distanza l’una dall’altra, l’armata imperiale di Martino e Uliare e quella ostrogota di Uraia. Sia i Goti che gli Imperiali furono attaccati dagli invasori Franchi e furono costretti a battere in ritirata. Belisario, quando fu informato dell’invasione dei Franchi, scrisse al re Teodeberto, accusandolo di violazione dei patti e intimandogli di ritirarsi al di là delle Alpi, ma nel frattempo la dissenteria si era diffusa nell’armata franca, costringendola a ritirarsi dall’Italia.

Nel frattempo proseguivano gli assedi di Osimo e Fiesole. Di fronte al mancato arrivo di rinforzi da parte di re Vitige, nonostante i continui solleciti, e informati dalla resa di Fiesole, la guarnigione di Osimo, oppressa dalla fame e dalla sete, decise infine di capitolare (ottobre o novembre 539). La sua guarnigione passò al servizio dell’Imperatore.

CADUTA DI RAVENNA (540)

Dopo la caduta di Osimo (ottobre o novembre 539) Belisario procedette immediatamente all’assedio di Ravenna. Bloccò l’arrivo di rifornimenti dalla Liguria tramite il Po, e il controllo dei mari esercitato dalla flotta imperiale rendeva il blocco completo.

Belisario temeva che i Franchi potessero invadere di nuovo l’Italia e quando fu informato dell’arrivo di un’ambasceria dei Franchi a Ravenna ne rimase allarmato e inviò ambasciatori a Vitige per dissuaderlo da accettare le offerte franche. La proposta dei Franchi era di un’alleanza contro l’Impero in cambio della cessione di parte dell’Italia ai Franchi al termine della guerra. Vitige, diffidando dei Franchi in seguito ai saccheggi proditori compiuti da essi ai danni dei Goti solo pochi mesi dopo, rifiutò le loro proposte, e riprese le trattative con Belisario. Nel frattempo alcuni traditori incendiarono i depositi di grano nella capitale ostrogota, aggravando ulteriormente la situazione per gli assediati.

Nel frattempo due senatori, Domenico e Massimino, arrivarono da Costantinopoli per negoziare la pace con Vitige. Giustiniano, alle prese con la Persia, era ora maggiormente disposto a negoziare la pace a termini più vantaggiosi per i Goti. La proposta di Giustiniano era che le terre a nord del Po sarebbero rimaste in mano dei Goti, mentre l’Italia cispadana sarebbe stata conservata dall’Imperatore. Inoltre Vitige avrebbe dovuto cedere a Giustiniano metà del tesoro reale di Ravenna. Vitige e i Goti, sorpresi dalla proposta di pace più favorevole di quanto pensassero, accettarono senza esitazione, ma Belisario vi si oppose con tutte le sue forze, sentendosi defraudato di una vittoria totale che sembrava ormai a portata di mano. Belisario voleva trasportare re Vitige prigioniero a Costantinopoli così come aveva fatto con Gelimero e rifiutò di ratificare il trattato di pace. Informato del rifiuto di Belisario, Vitige sospettò un tranello e comunicò che finché non fosse arrivata la ratifica di Belisario non avrebbe aderito alle condizioni del trattato. Nel frattempo, la carestia stava facendo il suo lavoro, e lo scontento dei Goti nei confronti del loro re incompetente raggiunse il culmine.

Fu a quel punto che i nobili goti ebbero un’idea. Perché non riportare l’Italia alla condizione preesistente a Odoacre? Perché non offrire a Belisario la carica di Imperatore romano d’Occidente? Belisario finse di accettare l’offerta dei Goti,  si fece aprire le porte della città dai Goti e in questo modo fece suo prigioniero il deposto re Vitige oltre a impadronirsi del tesoro ostrogoto (maggio 540). Molte delle fortezze ostrogote a nord del Po si arresero spontaneamente, nell’illusione che Belisario sarebbe diventato presto il loro Imperatore. Solo alcune fortezze, tra cui Pavia e Verona, continuarono la resistenza. Quando i nobili goti delle province traspadane si resero conto che Belisario aveva fatto “il gran rifiuto” e si stava accingendo a tornare a Costantinopoli, si riunirono a Pavia e proposero la corona a Uraia, ma quest’ultimo declinò l’offerta. Essi decisero allora di eleggere come loro nuovo re Ildibado, comandante della guarnigione di Verona, ma questi acconsentì solo a condizione che avrebbero fatto un ulteriore tentativo per convincere Belisario a diventare il nuovo imperatore romano d’Occidente (carica rimasta vacante dai tempi di Romolo Augusto). Una deputazione raggiunse Belisario mentre si stava aggingendo a salpare da Ravenna per tornare a Costantinopoli. Belisario tuttavia congedò tale delegazione ribadendo la sua fedeltà a Giustiniano e il rifiuto di usurpare il trono d’Occidente. Belisario partì dunque per Costantinopoli, con re Vitige, molti prigionieri goti di illustre rango, nonché con il tesoro reale. Vitige fu trattato con tutti gli onori e fu nominato patrizio.

Giustiniano, infastidito dall’insubordinazione mostrata da Belisario in occasione delle trattative di pace con Vitige e insospettito dalla sua finta usurpazione, trattò il generale con freddezza al suo ritorno a Costantinopoli e gli negò il trionfo.

In effetti la vittoria di Belisario conseguita nella sua prima campagna in Italia era incompleta. Nelle province transpadane i Goti non ancora sottomessi continuarono la loro resistenza e, una volta trovato un comandante all’altezza (Totila), riuscirono a ribaltare quasi le sorti del conflitto (almeno fino alla spedizione di Narsete), approfittando delle divisioni nell’esercito imperiale. La guerra si protrasse in Italia fino al 554, e le ultime sacche di resistenza ostrogote continuarono a resistere fino al 562. La guerra ventennale devastò l’intera Italia riducendola in condizioni pietose. Tutti questi avvenimenti saranno trattati negli articoli successivi.