Il Dominato

LA TRANSIZIONE DAL PRINCIPATO AL DOMINATO

L’Impero Romano fu fondato da Augusto, ma per i tre secoli successivi alla sua fondazione lo Stato fu costituzionalmente una “repubblica”, pur trattandosi di una finzione giuridica. Il governo era, almeno all’apparenza, condiviso tra l’Imperatore e il Senato; i poteri dell’Imperatore, la cui posizione costituzionale era espressa dal titolo di Princeps, erano formalmente limitati dal Senato. Questo periodo dell’Impero romano, in cui la Repubblica fu mantenuta dal punto di vista formale e il Princeps non era ancora diventato un autocrate ma era semplicemente il primus inter pares (“primo tra i pari”) , prende il nome di “Principato”. Fin dall’inizio il Princeps era il partner predominante della “diarchia” con il Senato e la storia costituzionale del Principato ruota attorno alla sua graduale e progressiva usurpazione di pressoché tutte le funzioni di governo che Augusto aveva attribuito al Senato. Nella seconda metà del III secolo si ebbe la transizione dal Principato all’autocrazia (o Dominato). Aureliano adottò dei costumi esteri tipici di un monarca assoluto, non di un cittadino; e Diocleziano e Costantino trasformarono definitivamente lo Stato da repubblica ad autocrazia. Questo cambiamento, accompagnato da corrispondenti riforme radicali, fu, da un punto di vista puramente costituzionale, una rottura con il passato tanto grande quanto il cambiamento attuato da Augusto, e la transizione fu altrettanto fluida.

LA SUCCESSIONE

L’instaurazione dell’autocrazia non apportò modifiche al principio della successione al trono. Fino alla caduta dell’impero, l’elezione dell’imperatore spettava al Senato e all’esercito. Di norma, la scelta da parte di un organo veniva accettata dall’altro; in caso contrario, la questione doveva essere risolta con un conflitto civile. Inoltre la nomina del nuovo imperatore doveva essere ratificata dall’acclamazione del popolo. Senato, esercito e popolo avevano ciascuno un ruolo nelle cerimonie di incoronazione.

Pur essendo la carica di imperatore formalmente elettiva, in realtà fin dall’inizio fu introdotta indirettamente la possibilità di ereditarla. L’imperatore regnante aveva la possibilità di designare il suo successore nominando un co-reggente. In questo modo Augusto designò il suo figliastro Tiberio, Vespasiano suo figlio Tito. Gli imperatori cercavano ovviamente di assicurare il trono ai loro figli e, se non li avevano, in genere cercavano il loro erede all’interno della propria famiglia. Dalla fine del IV secolo divenne consuetudine per un imperatore conferire il titolo imperiale al figlio maggiore. Le solite forme di inaugurazione furono sempre rispettate; ma il diritto dell’Imperatore di nominare co-reggenti non fu mai contestato. La conseguenza fu che la successione degli imperatori romani presenta una serie di dinastie, e che solo a intervalli, spesso considerevoli, il Senato e l’esercito furono chiamati a esercitare il loro diritto di elezione.

Il co-reggente non deteneva poteri effettivi. Godeva degli onori imperiali, il suo nome appariva nei documenti ufficiali; ma non partecipava al governo vero e proprio, a meno che non fosse autorizzato dal suo collega più anziano. Questa, almeno, era la regola. Sotto il Principato l’Imperatore anziano distingueva la propria posizione da quella del suo collega assumendo per sé il titolo di Pontefice Massimo. Marco Aurelio condivise sperimentalmente la piena sovranità con Lucio Vero. Questa divisione della sovranità era una parte essenziale del sistema di Diocleziano, corrispondente alla partizione geografica dell’Impero da lui introdotta. Dal suo tempo fino alla caduta della parte occidentale, l’Impero fu governato da due (o anche più) colleghi sovrani, che avevano tutti uguali diritti e competenze e differivano solo per anzianità. A volte l’imperatore più giovane era nominato dall’anziano, a volte era eletto in modo indipendente ed era riconosciuto dall’anziano. Insieme a questi potevano esserci co-reggenti, che non esercitavano alcun potere sovrano, ma erano i loro eventuali successori. Così Arcadio fu per nove anni co-reggente con gli imperatori Valentiniano II e Teodosio il Grande. Nessun titolo formale, tuttavia, elevava il sovrano al di sopra del co-reggente, sebbene quest’ultimo, per motivi di distinzione, fosse spesso chiamato “il secondo imperatore” o, se era in minore età, “il piccolo imperatore”. Quando verso la fine del V secolo ebbe termine la spartizione territoriale dell’Impero, cessò il sistema di sovranità congiunta e d’ora in poi, qualora vi fosse stato più di un Augusto, solo uno avrebbe esercitato il potere sovrano.

Ma l’Imperatore poteva anche designare un successore, senza elevarlo alla carica di co-reggente, conferendogli il titolo di Cesare. In genere nel Tardo Impero, se l’imperatore aveva figli, nominava Augusto il figlio maggiore. Tuttavia poteva conferirgli la dignità di Cesare designandolo quale erede al trono. L’Imperatore prima della morte avrebbe potuto elevare il Cesare alla reggenza. Se moriva senza averlo fatto, il Cesare doveva essere eletto nel solito modo dal Senato e dall’esercito. Questo metodo di designazione provvisoria e revocabile era spesso conveniente. Un imperatore senza eredi maschi avrebbe potuto assicurare il trono a un genero, ad esempio, in caso di sua morte prematura. Se gli avesse conferito il titolo di Cesare e se in seguito gli fosse nato un figlio maschio, quel figlio sarebbe stato nominato Augusto, diventando così l’erede al trono al posto del Cesare nominato in precedenza.

Quando l’imperatore aveva più di un figlio, era consuetudine conferire il titolo di Cesare al minore. Costituzionalmente questo può essere considerato un provvedimento di nomina a erede al trono. Di fatto si trattava di una dignità riservata ai membri della famiglia imperiale. A volte la co-reggenza fu conferita a più di un figlio. Teodosio il Grande elevò Onorio al rango di Augusto così come il suo figlio maggiore Arcadio. Ma questa misura non fu adottata fino alla morte dell’Imperatore d’Occidente Valentiniano II e il suo scopo era quello di fornire due sovrani, uno per l’Oriente e uno per l’Occidente. Se la divisione dell’Impero non fosse stata contemplata, Onorio non sarebbe stato creato Augusto nel 393. Per evitare una lotta tra fratelli, la politica ovvia era di conferire il grado supremo a uno solo. Prima del regno di Basilio I nel IX secolo, c’erano poche opportunità di discostarsi da questa regola di convenienza, ed è stata violata solo due volte, in entrambi i casi con sfortunate conseguenze.

Ma l’elevazione a Cesare era l’unico metodo impiegato per designare un eventuale successore. Nel terzo secolo divenne usuale conferire al Cesare, il figlio adottivo dell’imperatore, la dignità di nobilissimus. Nel quarto, esso divenne un titolo indipendente, denotando una dignità inferiore a quella di Cesare, ma limitata alla famiglia imperiale. In due occasioni troviamo nobilissimus usato come una sorta di designazione preliminare. Ma cadde in disuso nel V secolo, e apparentemente non fu ripreso fino all’ottavo, quando fu conferito ai membri più giovani della grande famiglia di Costantino V . Nel VI secolo Giustiniano introdusse un nuovo titolo, Curopalates, che, inferiore a Cesare e nobilissimus, poteva servire a designare o semplicemente a onorare un membro della famiglia imperiale. Lo troviamo usato in entrambi i modi. Era una designazione meno decisa dell’elevazione a Cesare, e un sovrano cauto o sospettoso avrebbe potuto preferirla.

Il principio di ereditarietà, che fu così conciliato con il principio di elezione, diede luogo gradualmente alla convinzione che non solo il figlio dell’Imperatore fosse il suo legittimo successore, ma che, se non avesse avuto figli maschi, la questione della successione sarebbe stata risolta in modo soddisfacente dal matrimonio di una parente vicina – figlia, sorella o vedova – e dall’elezione di suo marito, che avrebbe così perpetuato la dinastia. C’era un sentimento generale di attaccamento a una dinastia, e la storia del Tardo Impero presenta una serie di dinastie, con pochi e brevi intervalli di instabilità interna. Durante i quattro secoli tra il 395 e l’802, abbiamo cinque dinastie, che si succedono, tranne in due casi, senza interruzione.

Sebbene non esistesse una legge che escludesse le donne dalla successione, di fatto, fino al VII o VIII secolo sarebbe stato considerato non solo politicamente impossibile, ma addirittura illegale, per una donna esercitare il potere sovrano in proprio nome. Ma il titolo di Augusta non includeva l’Imperium proconsolare e la tribunicia potestas, che costituivano il potere del Princeps, e non è chiaro che questi possano essere stati conferiti legalmente a una donna o che ella avrebbe potuto portare il titolo di Imperator. Diverse imperatrici (ad esempio Teodora, moglie di Giustiniano) condividevano virtualmente l’esercizio dell’autorità imperiale con il marito, divenendone di fatto co-reggenti, e godevano di più potere dei co-reggenti maschi, ma il loro potere era de facto, non de jure. Alcune (ad esempio Galla Placidia) erano virtualmente sovrane, ma agivano come reggenti per minori. Solo alla fine dell’VIII secolo troviamo una donna, l’imperatrice Irene, che esercitava la sovranità da sola e in suo nome. Si trattava di un’innovazione costituzionale, che si ripetè una sola volta, e che solo in circostanze eccezionali sarebbe stato tollerata. La possibile elezione di una imperatrice regnante era malvista in quanto considerata inopportuna nonché una violazione della tradizione. Tra il quarto e l’ottavo secolo, tuttavia, due circostanze potrebbero aver contribuito a farlo sembrare non più illegale. Il termine ufficiale greco per Imperator era Autokrator, e nel corso del tempo, quando il latino fu sostituito dal greco e il titolo di Imperator cadde in disuso, Autokrator cessò di avere le associazioni militari che erano attaccate al suo equivalente latino, e l’incompatibilità costituzionale dell’ufficio con il sesso femminile non risultava più evidente. In secondo luogo, le reggenze femminili finirono per preparare la strada al passo audace di Irene. Quando un nuovo imperatore era minorenne, la reggenza poteva essere affidata a sua madre o a una sorella maggiore, che agisse da sola o in collaborazione con altri reggenti. Irene era reggente per suo figlio prima di detronizzarlo e diventare la prima imperatrice regnante.

Il titolo di Augusta veniva sempre conferito alla moglie dell’Imperatore e moglie del co-reggente, e dal VII secolo veniva frequentemente conferito ad alcune o tutte le figlie dell’Imperatore. In determinati casi l’Augusta consorte poteva avere un grande potere politico. Nel sesto secolo, Giustiniano e Teodora, Giustino II e Sofia, esercitarono quello che era praticamente un governo congiunto, ma in nessuno dei due casi la posizione costituzionale dell’Imperatrice differiva da quella di qualsiasi altra consorte.

L’INCORONAZIONE DELL’IMPERATORE

Il diadema fu introdotto definitivamente da Costantino, e può essere considerato il simbolo supremo della sovranità autocratica che sostituì la magistratura del precedente Impero. Finora il segno distintivo del costume dell’Imperatore era stato il colore porpora di parte di esso; e “assumere la porpora” continuò ad essere l’espressione comune per l’elevazione al trono. La corona era un’importazione dalla Persia e conferiva al sovrano romano la stessa dignità esterna del re persiano. In Persia la corona era posta sulla testa del re dal Sommo Sacerdote dei Magi. Nel Tardo Impero Romano, almeno inizialmente, a incaricarsi dell’incoronazione era un funzionario imperiale laico. Nel IV secolo, ad esempio, a incoronare Valentiniano I, fu il Prefetto Sallustio Secondo. A partire dal V secolo il compito dell’incoronazione dell’Imperatore d’Oriente fu assegnato al Patriarca di Costantinopoli. La sua posizione ecclesiastica sollevò l’imperatore da ogni imbarazzo nel ricevere il diadema da un suddito. Il primo imperatore a essere incoronato con certezza dal Patriarca di Costantinopoli fu Leone I nel 457, anche se ci sono alcuni indizi che sembrerebbero suggerire che anche il suo immediato predecessore Marciano fosse stato incoronato anch’egli dal Patriarca nel 450. Da quel momento in poi l’incoronazione dal Patriarca divenne la pratica regolare, pur non divenendo mai legalmente indispensabile affinché il governo dell’Imperatore fosse considerato legittimo. Il fatto che l’incoronazione del Patriarca non fosse costituzionalmente necessaria mostra che il Patriarca nello svolgere la cerimonia non rappresentava la Chiesa. È possibile che l’idea di affidargli l’incarico sia stata suggerita dal fatto che l’incoronazione del re persiano fosse stata affidata al Sommo Sacerdote. Ma il significato non era lo stesso. Il capo dei Magi agiva come rappresentante della religione persiana, il Patriarca agiva come rappresentante dello Stato. Se avesse rappresentato in modo speciale la Chiesa, la sua collaborazione non avrebbe mai potuto essere eliminata. Il consenso della Chiesa non era formalmente necessario per l’inizio del regno di un sovrano. In effetti, quando l’Imperatore associava al trono un collega, l’Augusto minore era incoronato non dal Patriarca ma dall’Imperatore che lo aveva associato al trono.

IL RUOLO SACRO DELL’IMPERATORE

Quando Augusto fondò l’Impero, derivò la sua autorità imperiale dalla sovranità del popolo; e l’essenza di questo principio fu mantenuta per tutta la durata non solo del Principato ma anche della Monarchia; poiché la carica imperiale rimaneva elettiva e gli elettori avevano il diritto di deporre l’Imperatore. Ma, sebbene questi diritti non fossero mai stati abrogati, con il passare del tempo si diffuse la tendenza a considerare la maestà e il potere del monarca come qualcosa di più alto della volontà del popolo. La teoria che essi derivassero il loro potere dalla divinità (o che discendessero da divinità) è stato costantemente il dispositivo degli autocrati per rafforzare e aumentare il loro potere; e le moderne teorie del diritto divino sono semplicemente un sostituto dell’antica pratica pagana di divinizzare i re. Augusto si autodesignò ufficialmente Divi Filius. Ma questa tendenza  scomparve del tutto con la caduta della dinastia giulio-claudia, per poi riapparire con Aureliano, che anticipò per certi aspetti il Dominato. Diocleziano e il suo collega Massimiano erano designati come dei e genitori degli dei. La divinizzazione ufficiale dell’Imperatore fu successivamente preclusa dall’ascesa del cristianesimo nel IV secolo, anche se il sovrano continuò a mantenere gli epiteti sacro e divino e a considerarsi più un vicegerente di Dio che un governante che derivava il proprio potere dal popolo. Nel IX secolo Basilio I disse a suo figlio: “Hai ricevuto l’Impero da Dio”.

POTERE LEGISLATIVO DELL’IMPERATORE

Sotto il Dominato, l’imperatore si appropriò del pieno diritto di legiferare direttamente, che non gli competeva sotto il Principato. Il Princeps aveva il diritto di emanare leggi che dovevano essere ratificate dai comizi del popolo, ma, dal tempo della legislazione di Tiberio raramente questa procedura veniva seguita, e dopo il I secolo era il Senato a legiferare. L’imperatore, comunicando le sue istruzioni sotto forma di oratio al Senato, poteva far concretizzare i suoi desideri in decreti senatoriali (senatus consulta). Ma possedeva indirettamente poteri legislativi virtuali per mezzo di editti e costituzioni, che, sebbene tecnicamente non fossero leggi, erano per gli scopi pratici equivalenti ad esse. L’editto, a differenza di una legge, non conteneva necessariamente un comando; era più propriamente una comunicazione pubblica fatta da un magistrato al popolo. Ma l’attività legislativa dei primi imperatori era esercitata soprattutto sotto forma di costituzioni, un termine che in senso stretto si applicava alle decisioni che venivano portate solo a conoscenza delle persone interessate. Questo termine includeva la corrispondenza imperiale e specialmente i mandati o istruzioni indirizzate ai funzionari. Questi “atti” avevano piena validità, ma quando un atto richiedeva una esenzione da una legge esistente, la costituzione imperiale era valida solo durante la vita del suo autore.

Il potere di esentare da una legge apparteneva propriamente al Senato, e gli imperatori precedenti chiedevano al Senato una esenzione quando necessario. Domiziano iniziò ad abusare di questo privilegio. Ma restava il principio che il Princeps, che era costituzionalmente un magistrato, era vincolato dalle leggi; e quando i giuristi del III secolo parlano del Princeps come legibus solutus (“non soggetto alle leggi”), si riferiscono a leggi dalle quali Augusto aveva formalmente ottenuto l’esenzione dal Senato.

Sotto il Dominato gli imperatori assunsero pieni poteri legislativi e le loro leggi assunsero occasionalmente la forma di oratio al Senato, ma quasi sempre di editto. Il termine editto era usato per indicare tutte le decisioni che in precedenza erano chiamate costituzioni, mandati o rescritti, purché avessero un’applicazione generale. E l’Imperatore era l’unico legislatore e si riservava il diritto esclusivo di interpretare le leggi.

LIMITI AI POTERI DELL’IMPERATORE

Pur essendone dispensato, fu sempre considerato vincolato dalle leggi. Un editto del 429 esprime lo spirito di reverenza per la legge, come qualcosa di superiore al trono stesso:

“Riconoscersi vincolato dalle leggi (alligatum legibus) è, per il sovrano, un’espressione che si addice alla maestà di un sovrano. Perché la verità è che la nostra autorità dipende dall’autorità della legge. Sottomettere la nostra sovranità alle leggi è in verità una cosa più grande del potere imperiale”.

Il popolo considerava l’Imperatore il garante delle leggi che proteggevano dall’oppressione di nobili e funzionari.

Le leggi, quindi, erano una limitazione al potere dell’autocrate, e presto fu scoperto un altro mezzo per limitare il suo potere. Nel V secolo, il compito di incoronare un nuovo imperatore a Costantinopoli fu assegnato al Patriarca. Nel 491 il Patriarca si rifiutò di incoronare Anastasio a meno che non avesse firmato un giuramento scritto che non avrebbe introdotto novità nella Chiesa. Questa procedura fu seguita in un primo momento forse solo nei casi in cui un nuovo imperatore era sospettato di tendenze eretiche, ma nel X secolo un giuramento di questo tipo sembrerebbe essere stato un regolare preliminare all’incoronazione. Il fatto che tali capitolazioni potessero essere e furono imposte al momento dell’elevazione mostra che i poteri autocratici dell’Imperatore avevano dei limiti.

L’essenza di un’autocrazia è che non esiste un organismo di controllo in grado di limitare i poteri del sovrano e di porre un freno a eventuali abusi. Da un punto di vista prettamente teorico, il Senato o il Consiglio Imperiale potevano consigliare o sconsigliare il sovrano dal prendere una certa decisione, ma se l’imperatore avesse scelto di ignorare il loro parere non poteva certo essere accusato di agire in modo incostituzionale. Tuttavia, se un imperatore, con il suo comportamento, si alienava il consenso dell’esercito, del senato e del popolo, questi potevano sempre, con una rivolta, deporlo e sostituirlo con un nuovo imperatore. La deposizione avveniva con la proclamazione di un nuovo imperatore. Se il nuovo imperatore fosse riuscito a ottenere un sostegno sufficiente dall’esercito, dal Senato e dal popolo, il vecchio imperatore sarebbe stato costretto a lasciare il trono per forza maggiore mentre il nuovo imperatore sarebbe stato considerato il legittimo monarca fin dal giorno della sua proclamazione ad opera dei ribelli. Se il candidato dei rivelli fosse stato sconfitto, sarebbe stato considerato un usurpatore, anche se durante la rivolta il fatto che il Senato o una parte dell’esercito lo avessero proclamato gli conferiva un ruolo costituzionale che l’esito della lotta poteva ratificare o annullare. Il metodo di deposizione era costituzionalmente la rivoluzione.

CAMBIAMENTI NELLA TITOLATURA E NELL’ETICHETTA DI CORTE

La trasformazione del Principato in Dominato o Autocrazia comportò dei cambiamenti notevoli nei titoli degli Imperatori, nel loro abbigliamento, nell’etichetta di corte, che mostravano come l’antica tradizione della repubblica fosse stata completamente dimenticata. Sotto il Dominato l’Imperatore era considerato come sacro e divino e coloro che si presentavano al suo cospetto avrebbero dovuto prostrarsi e baciare la porpora. L’Imperatore cominciò a essere chiamato Dominus (“signore” o “padrone”) e, a partire dal IV secolo, la scritta Dominus Noster compare nella monetazione imperiale. Fin dal I secolo era diffuso nelle province orientali dell’Impero l’uso di Basileus per riferirsi al Princeps e di Basileia per riferirsi al potere imperiale. Ad esempio Dione Crisostomo scrisse un discorso sulla Basileia, mentre Frontone definì Marco Aurelio “il grande Basileus, sovrano della terra e del mare”. Basileus in greco era l’equivalente del latino rex (“re”), titolo odioso alle orecchie dei latini (che non vedevano di buon occhio l’età regia di Roma). Tuttavia, a partire dal IV secolo, il titolo di Basileus non veniva più visto come offensivo, ed era regolarmente usato dagli scrittori greci e cominciò a essere usato dagli stessi imperatori nelle iscrizioni greche. Basileus cominciò a essere riservato al solo imperatore romano e allo scià di Persia, usando rex per gli altri re barbari. Fu solo nel VII secolo, tuttavia, che l’Imperatore si autodesignò come Basileus nelle proprie costituzioni e rescritti. L’equivalente greco ufficiale di Imperator era Autokrator, che poteva essere usato anche come Praenomen. Iscrizioni latine continuarono a comparire nelle monete imperiale emesse dalla zecca di Costantinopoli fino all’VIII secolo. Le prime monete con iscrizioni greche presentano le scritte Basileus e Despotes. L’uso di Despotes è uno degli aspetti più caratteristicamente orientali del Dominato. Era usato per denotare il rapporto tra il padrone e i suoi schiavi, ed era regolarmente usato dai sudditi per rivolgersi all’Imperatore dall’epoca di Costantino fino alla caduta dell’Impero. Il suddito si autodefiniva uno schiavo dell’Imperatore.

SUDDIVISIONE DELL’IMPERO IN DUE PARTI

Dal regno di Diocleziano all’ultimo quarto del V secolo, l’Impero fu ripetutamente diviso in due o più sezioni geografiche – più frequentemente due, una orientale e una occidentale – ciascuna governata dal proprio sovrano. Dal 395 al 476, o meglio 480, la divisione in due regni è praticamente definitiva; ogni regno andava per la propria strada e le relazioni tra loro a volte furono persino ostili. Naturalmente, per molti scrittori moderni hanno avuto un’irresistibile tentazione di parlarne come se fossero imperi diversi. Per i coevi del quarto e del quinto secolo una tale concezione sarebbe risultata incomprensibile. Per loro vi era ed era concepibile un solo Impero Romano.

L’Imperatore d’Occidente e il suo collega orientale emanavano le loro leggi a nome di entrambi, e le leggi trasmesse alla cancelleria del suo collega erano valide in tutto l’Impero (sia per la pars occidentis sia per la pars orientis). Inoltre, alla morte di uno dei due imperatori, il collega sopravvissuto estendeva formalmente la propria giurisdizione su tutto l’Impero finché non avveniva l’elezione di un successore dell’imperatore deceduto. A rigor di termini, spettava a lui nominare un nuovo collega. Dopo la caduta della dinastia teodosiana, alcuni degli imperatori eletti in Italia non furono riconosciuti come legittimi da Costantinopoli, ma il principio rimase in vigore. L’unità dell’Impero trova conferma anche negli accordi presi per la nomina dei due consoli annuali. Un console era proclamato dall’Imperatore d’Occidente e un console era proclamato dall’Imperatore d’Oriente.