Il sacco di Roma del 410

LA PERSECUZIONE DEI SEGUACI DI STILICONE

Dopo l’esecuzione di Stilicone, Olimpio ottenne dall’Imperatore la carica di magister officiorum, o governatore della corte,  mentre tutte le altre cariche vennero affidate dall’Imperatore a uomini raccomandati da lui.

Nel frattempo, non solo tutti gli amici di Stilicone, ma chiunque avesse avuto un qualunque coinvolgimento con lui, vennero cercati scrupolosamente. Tra questi Duterio, comandante delle guardie della camera da letto imperiale, fu esaminato, come anche Petro, tribuno dei Notarii. Essi furono sottoposti a tortura per spingerli a confessare il tradimento di Stilicone; ma nessuno di essi, nonostante le torture ricevute, confessò. Olimpio, deluso, li fece uccidere.

Anche molti altri, sospettati di aver complottato con Stilicone il tradimento dello stato e di essere a conoscenza dei suoi presunti piani proditori, furono allo stesso modo esaminati e torturati per indurli a confessare le sue presunte ambizioni di porre sul trono suo figlio Eucherio; ma, non essendo riuscito ad estorcere alcuna confessione, gli inquirenti alla fine desistettero da tale impresa.

Eucherio inoltre ordinò che Eucherio, il figlio di Stilicone, fosse cercato e giustiziato. Avendolo trovato in una chiesa di Roma, nella quale aveva cercato rifugio, i soldati per il momento non osarono molestarlo e trascinarlo fuori, per il rispetto del luogo. Allo stesso tempo, Eliocrate, il tesoriere, produsse a Roma la lettera dell’Imperatore, che ordinava la confisca delle proprietà di tutti coloro che avessero assunto alcuna carica nel periodo della reggenza di Stilicone.

IL MASSACRO DELLE FAMIGLIE DEI BARBARI

Ma come se tutto ciò non fosse bastato a soddisfare la malvagità di Olimpio, a tutti i disastri precedenti si aggiunse il seguente. I soldati presenti in città, all’udire dell’esecuzione di Stilicone, al segnale stabilito, assalirono tutte le donne e i fanciulli delle famiglie dei Barbari che servivano nell’esercito romano, le uccisero e saccheggiarono tutti i loro possedimenti. Quando i parenti degli assassinati vennero a saperlo, si riunirono, ed, essendo fortemente adirati contro i Romani per un atto così empio e crudele, decisero all’unanimità di unirsi ad Alarico nella guerra contro Roma.

Alarico fu così rinforzato da trentamila truppe barbare, che lo eccitarono a condurre una guerra contro Roma per vendicare l’uccisione delle loro famiglie. Secondo Heather, invece, 30.000 era il numero dei soldati a disposizione di Alarico dopo essere stato rinforzato da questi barbari (Zosimo si sarebbe confuso interpretando male la propria fonte Olimpiodoro).

NEGOZIAZIONI FALLITE TRA ALARICO E RAVENNA

Ma Alarico tentò di giungere a un accordo di compromesso, tenendo ancora presente l’alleanza con Stilicone. Inviò quindi ambasciatori a Ravenna con il desiderio di riappacificarsi con lo stato romano, in cambio di una piccola soma di denaro e della cessione come ostaggi di Ezio e Giasone, di cui il primo era figlio di Giovio e il secondo figlio di Gaudenzio; in cambio avrebbe ceduto come ostaggi all’Imperatore due della nobiltà gotica, e avrebbe ritirato il proprio esercito dal Norico per stabilirsi in Pannonia.

Quando Alarico propose la pace a queste condizioni, l’Imperatore rifiutò di concedergliela, anche se se avesse condotto gli affari con prudenza, avrebbe dovuto scegliere una delle due alternative che si ponevano di fronte a lui. Se avesse scelto la pace, l’avrebbe ottenuta solo pagando una piccola somma di denaro e cedendo ostaggi, se invece preferiva la guerra, avrebbe dovuto raccogliere quante più legioni possibili, e disporle lungo il tragitto del nemico, per ostacolare l’avanzata nemica. Avrebbe dovuto allo stesso modo scegliere una persona adatta a condurle, in particolare Saro, che da solo era sufficiente a incutere il terrore nel nemico, sia per via della sua intrepidità, sia per la sua grande esperienza negli affari militari.

L’Imperatore, al contrario, né accettò le offerte di pace, né, avendo accettato la guerra, radunò quante più legioni possibili per ostacolare l’avanzata nemica né pose al comando delle legioni Saro. Al contrario, abbandonando il governo dello stato a Olimpio, fu artefice delle innumerevoli calamità che colpirono la parte occidentale dell’Impero. Per opera di Olimpio, il comando delle legioni fu affidato a persone inette e in grado solo di suscitare il disprezzo del nemico. Turpilione fu nominato comandante della cavalleria, Varane fu nominato comandante della fanteria, Vigilanzio fu nominato comandante delle truppe domestiche. Essi trascurarono di porre un qualunque ostacolo all’invasore cagionando la rovina dell’Italia.

Alarico, pertanto, cominciò la sua spedizione contro Roma, mettendo in ridicolo i preparativi di Onorio. Non volendo invadere l’Italia non prima di aver ottenuto forze almeno pari a quelle di Onorio, inviò messaggeri in Pannonia Superiore presso Ataulfo, fratello della moglie, chiedendogli di unirsi a lui nell’impresa. Ataulfo disponeva di un considerevole esercito di Goti e Unni in Pannonia, e avrebbe potuto essere un ottimo alleato per Alarico.

MARCIA DI ALARICO SU ROMA

Tuttavia, Alarico non attese l’arrivo del cognato, ma, oltrepassate le Alpi, passò per Aquileia e per altre città oltre il Po, ovvero Concordia, Altino e Cremona. Una volta attraversato il fiume, dopo non aver trovato esercito romano alcuno a tentare di contrastare la sua avanzata, passò per Bononia e per l’Emilia, e, dopo essersi lasciato alle spalle la città di Ravenna, dove risiedeva la corte dell’Imperatore Onorio, si diresse in direzione di Ariminum, una grande città nella regione della Flaminia. Da qui mosse celermente nel Piceno, situato all’estremità del golfo ionico. Da qui, marciò verso Roma, saccheggiando tutte le fortezze e le città lungo il cammino.

Pertanto, se i due eunuchi Arsacio e Terenzio non avessero portato con celerità l’incarico affidato a loro dall’Imperatore, ovvero giustiziare a Roma Eucherio, figlio di Stilicone, il giovane sarebbe certamente caduto nelle mani di Alarico, e si sarebbe salvato. Gli eunuchi, invece, operando celermente, riuscirono a giustiziare Eucherio. Dopo aver consegnato a Serena la figlia Termanzia, in precedenza moglie di Onorio ma poi da lui ripudiata in quanto figlia di Stilicone, salparono per mare per Ravenna, dove risiedeva Onorio, non potendo fare ritorno via terra perché le strade erano rese insicure dall’avanzata di Alarico.

Per aver operato in siffatto modo, ovvero aver consegnato Termanzia alla madre e aver giustiziato Eucherio, l’Imperatore li premiò nominando Terenzio ciambellano imperiale, e dando la carica successiva ad essa per importanza ad Arsacio. Dopo aver fatto giustiziare Batanario, comandante delle truppe di stanza in Africa, in quanto marito della sorella di Stilicone, lo sostituì con Eracliano, come ricompensa per aver giustiziato di persona Stilicone.

L’INIZIO DELL’ASSEDIO DI ROMA (408)

Nel frattempo Alarico era arrivato alle porte di Roma, e cominciò ad assediare i suoi abitanti. Il senato sospettò che Serena avesse sobillato i Barbari ad assediare la città semplicemente perché era stata la moglie di Stilicone. Il senato riunitosi, insieme a Placidia, sorella dell’Imperatore, ritenne opportuno che dovesse essere giustiziata, in quanto la ritenevano la causa dell’assedio. A loro dire, una volta che Serena fosse stata giustiziata, Alarico avrebbe levato l’assedio, in quanto, dopo l’esecuzione di Serena, non sarebbe rimasta all’interno della città nessuna persona che potesse, con atti proditori, aprirgli le porte. Questo sospetto era in realtà infondato, in quanto Serena non aveva nemmeno minimamente tali intenzioni. Tuttavia fu giustiziata lo stesso.

Tuttavia, l’esecuzione di Serena non spinse Alarico a levare l’assedio alla città, come sperava il senato. Alarico, al contrario, bloccò tutte le porte, e impedì l’arrivo in città di provviste provenienti dal porto tramite il blocco del fiume Tevere. I Romani, nonostante tutto, continuarono a perseverare nella loro resistenza, attendendo giorno dopo giorno rinforzi da Ravenna. Ma poiché questi aiuti ancora non arrivavano, essendo le loro speranze deluse, i Romani diminuirono la quantità di grano da distribuire ogni giorno alla popolazione cittadina, stabilendo che non più di metà della precedente porzione di cibo dovesse essere consumata ogni giorno. In seguito, a causa dell’aumentare della carenza di provviste, questa quantità fu ridotta a solo un terzo.

Leta, la moglie dell’Imperatore Graziano, e la madre Pissamena fornirono grandi quantità di cibo per qualche tempo. Ma, non ricevendo aiuti, e con le provviste ormai terminate, la carestia fu succeduta da una pestilenza, e molta della popolazione cittadina perì di stenti e malattie. Essendo le provviste ormai terminate, i Romani decisero di negoziare con il nemico, in quanto non potevano più resistere per molto tempo ancora.

AMBASCERIA DEI ROMANI PRESSO ALARICO

I Romani decisero, pertanto, di inviare un’ambasceria al nemico, per informarlo che essi sarebbero stati disposti ad accettare ogni condizione di pace ragionevole, e di essere al tempo stesso pronti alla guerra, poiché la popolazione di Roma aveva preso le armi, e con un continuo esercizio militare erano pronti e disposti a combattere per la salvezza della loro città.

Basilio fu assunto come loro ambasciatore. Costui era di origini ispaniche ed era stato in precedenza governatore provinciale. Insieme a lui si recò nell’accampamento nemico un certo Giovanni, primo tra gli notai imperiali, in quanto già conosceva Alarico, e per tali motivi si poteva sperare che potesse rendere Alarico maggiormente disposto a negoziare. I Romani non avevano nemmeno certezze su se fosse veramente Alarico ad assediarli. Infatti, erano stati ingannati dalla voce secondo la quale non era stato Alarico ad assediarli, bensì un amico di Stilicone in cerca di vendetta.

Quando gli ambasciatori giunsero al cospetto di Alarico, essi si vergognarono per l’abbaglio preso dai Romani, ma portarono il messaggio del senato. Dopo averlo udito, Alarico rispose, riguardo all’affermazione secondo cui i cittadini romani si stavano esercitando dentro le mura per confrontarsi in battaglia, che l’erba grassa è più facile da tagliare di quella magra. Dopo aver detto ciò, rise in faccia in maniera immoderata agli ambasciatori.

Per quanto riguarda la pace, Alarico, mostrando estrema arroganza e presunzione, dichiarò che non avrebbe abbandonato l’assedio fino a quando non avrebbe ricevuto tutto l’oro e l’argento presente nella città, tutti i beni, e tutti gli schiavi barbari. Quando uno degli ambasciatori gli chiese cosa sarebbe rimasto ai cittadini romani, Alarico rispose che ai Romani sarebbe rimasta la vita.

Quando gli ambasciatori ricevettero tale risposta, gli dissero che occorreva del tempo per comunicarla ai cittadini, e consultarli su come procedere. Dopo aver ottenuto sufficientemente tempo, i due ambasciatori tornarono dentro le mura per riferire della conversazione con Alarico al popolo e al senato romano.

I Romani, dopo aver ricevuto la conferma che era stato veramente Alarico a prendere d’assalto la loro città, caddero nella disperazione più totale.

TENTATIVO DI OTTENERE L’INTERCESSIONE DEGLI DEI PAGANI

Nel frattempo Pompeiano, il prefetto della città, incontrò accidentalmente in città alcuni pagani provenienti dalla Tuscia, che riferirono che la città di Narni si sarebbe liberata dall’assedio di Alarico tramite la devozione degli abitanti alle divinità pagane. Infatti i Goti furono costretti a levare l’assedio di tale città da una tempesta di tuoni e lampi, che fu attribuita all’intercessione di tali divinità pagane in favore degli abitanti pagani.

Dopo aver conversato con questi uomini, risolvette di procedere con grande cautela, avendo il Cristianesimo preso ormai il sopravvento sul Paganesimo, e decise di recarsi dal pontefice, di nome Innocenzo. Costui diede il suo assenso al compimento dei riti pagani, nonostante fosse il pontefice dei Cristiani, a condizione che essi fossero compiuti in segreto. Gli abitanti della Tuscia sostennero tuttavia che tali riti pagani non avrebbero avuto efficacia se fossero compiuti in segreto. Il senato avrebbe dovuto ascendere al campidoglio, e compierli in quel luogo e nei differenti mercati della città. Ma poiché nessuno osò procedere in tale modo, gli abitanti della Tuscia furono congedati, e si decise di accontentare i Barbari nel modo migliore possibile.

PAGAMENTO DEL RISCATTO AD ALARICO

Furono di nuovo inviati ambasciatori all’accampamento nemico. Dopo lunghe discussioni da entrambi i lati, fu infine concordato, che la città avrebbe dovuto cedere ai Goti cinquemila libbre d’oro, 30.000 d’argento, 400 abiti di seta, 300 abiti scarlatti, e 3.000 libbre di pepe. Per pagare il riscatto, Palladio fu incaricato di stabilire l’ammontare della somma a cui ogni cittadino avrebbe dovuto avere a seconda della ricchezza di ognuno, ma non fu in grado di ottenere tutti i beni richiesti dai Goti, sia perché alcune persone avevano nascosto parte delle loro proprietà, sia perché la città si era impoverita a causa dell’avidità e delle rapaci esazioni dei magistrati assunti dall’Imperatore.

Alla fine, pur di ottenere tutto il necessario per pagare i Goti, decisero non solo di spogliare gli ornamenti delle statue delle divinità pagane, ma anche di fondere alcune di esse in quanto fatte d’oro e d’argento. Gli autori pagani lo ritennero un atto empio, in quanto ritenevano che quelle statue proteggessero la città dai Barbari, e sostennero che, fondendo la statua della Virtù, tutto ciò che avrebbero ottenuto è che tutto il valore romano e la loro intrepidità sarebbe stato totalmente estinto.

Avendo ottenuto con questi modi il denaro, inviarono un ambasciatore all’Imperatore per riferirgli delle negoziazioni con i Goti, e per informarlo che Alarico richiedeva, non solo denaro, ma anche la cessione come ostaggi dei figli di alcuni nobili; intendeva inoltre entrare in alleanza con l’Imperatore, e assistere i Romani contro tutti i loro nemici. Poiché l’Imperatore sembrava intenzionato a concludere la pace, il denaro fu pagato ai Barbari.

In seguito a ciò, Alarico decise di concedere ai cittadini di Roma un mercato libero per tre giorni consecutivi, con il permesso di passare in tutta sicurezza attraverso certe porte della città, e di portare grano proveniente dal porto in città. In questi modi i cittadini riuscirono a recuperare un po’ di respiro, vendendo il resto dei loro beni, o barattandoli, per comprare beni di necessità. I Barbari nel frattempo si allontanarono momentaneamente da Roma, e si accamparono in alcuni luoghi della Tuscia. Fu in quel frangente che quasi tutti gli schiavi di Roma fuggirono dalla città, e si arruolarono tra i Barbari, che raggiunsero la cifra di 40.000 soldati. Alcuni dei Barbari attaccarono alcuni romani che si stavano recando al porto, e sottrassero loro i beni che stavano trasportando. Quando Alarico ne fu informato, punì i responsabili del gesto e fece in modo che non accadesse più, dato che erano atti compiuti contro la sua volontà e a sua insaputa.

VICENDE ALLA CORTE DI ONORIO

Nel frattempo, all’inizio dell’anno dell’ottavo consolato dell’Imperatore Onorio e del terzo consolato dell’Imperatore Teodosio (anno 409), l’usurpatore Costantino inviò alcuni eunuchi come ambasciatori presso Onorio, richiedendo di essere riconosciuto come Imperatore legittimo. Onorio, trovando inopportuno, con Alarico e i suoi Barbari alle porte di Roma, cominciare altre guerre, e temendo per la sorte dei suoi parenti, cioè Vereniano e Didimio, che erano prigionieri dell’usurpatore, decise non solo di acconsentire alla sua richiesta, ma gli inviò persino una veste imperiale. Onorio era ignaro che i suoi parenti erano stati giustiziati ben prima di questa ambasceria. Dopo aver così operato, rispedì in Gallia gli eunuchi.

Non essendo ancora stata ratificata la pace con Alarico, non avendo l’Imperatore né consegnato gli ostaggi, né soddisfatto tutti i suoi desideri, il senato inviò Ceciliano, Attalo e Massimiano come ambasciatori a Ravenna. Anche se i tre ambasciatori fecero una lamentosa rappresentazione delle miserie sofferte da Roma, e narrarono la triste sorte di coloro che erano tragicamente periti, non trassero nessun vantaggio da ciò, in quanto Olimpio gettava il governo nella confusione più totale, e ostacolava la pace. Per questi motivi l’Imperatore congedò gli ambasciatori senza che essi ebbero ottenuto lo scopo per cui si erano recati lì, e decise di destituire Teodoro dalla carica di prefetto della città, sostituendolo con Ceciliano, e assunse Attalo come tesoriere.

Nel frattempo, poiché Olimpio era interamente intento nel cercare in tutti i luoghi tutti coloro che si sospettava avessero una qualche conoscenza sugli affari di Stilicone, alcune persone furono falsamente accusati di tradimento in quanto ritenuti complici di Stilicone. Tra questi vi erano Marcelliano e Solonio, due fratelli appartenenti ai notai imperiali. Essi furono condotti da Olimpio al cospetto del prefetto del pretorio. Anche se per suo ordine furono torturati, Olimpio non riuscì ad estorcere loro nemmeno la minima informazione che egli desiderava ottenere da loro.

IL FALLIMENTO DELLA SORTITA DI VALENTE

Essendo gli affari di Roma in situazione critica, l’Imperatore ordinò a cinque reggimenti di soldati, che erano di stanza in Dalmazia, di difendere la città di Roma. Questi reggimenti consistevano in seimila uomini, che per forza e disciplina erano considerati la parte migliore dell’intero esercito romano. Il loro generale era Valente, persona pronta alle imprese più grandi e più rischiose. Disdegnò, quindi, di marciare per vie non sorvegliate dal nemico. Per tali motivi Alarico, resosi conto della sua avanzata verso Roma, e attaccandolo con tutta la sua armata, uccise tutte le truppe, tranne un centinaio, che a fatica fuggirono a stento insieme al loro comandante. Questi arrivò a Roma insieme ad Attalo, che il senato aveva inviato all’Imperatore.

Attalo, al suo arrivo a Roma, destituì Eliocrate dalla carica che l’Imperatore gli aveva conferito per insistenze di Olimpio. Eliocrate ricevette l’incarico di confiscare le tenute di coloro che erano stati esiliati a causa dei loro rapporti con Stilicone, e incamerarli nelle casse dello stato. Ma, essendo un uomo di grande moderazione, non eseguì il suo incarico con il zelo richiesto, ma al contrario inviò privatamente avviso a coloro sotto inchiesta di nascondere ciò che erano in grado di fare. Per tali motivi, fu arrestato e condotto a Ravenna, per essere punito per la sua umanità nei confronti degli sventurati. Sarebbe stato giustiziato se non fosse fuggito saggiamente in una chiesa cristiana.

Nel frattempo Massimiano, che era caduto nelle mani del nemico, fu riscattato dal padre, Mariniano, con 30.000 libbre d’oro. Infatti, poiché l’Imperatore continuava a prendere tempo procrastinando le trattative di pace e non mantenendo le promesse, i Romani non potevano più uscire liberamente dalla città, oppressi dal nemico gotico. Il senato inviò quindi per una seconda volta degli ambasciatori al cospetto dell’Imperatore per discutere della pace, e questa ambasceria comprendeva anche il pontefice. Essi furono accompagnati da alcuni Barbari, che Alarico aveva inviato per proteggerli dai loro nemici che infestavano le numerose strade.

L’INVASIONE DI ATAULFO

Non appena questi ambasciatori giunsero al cospetto dell’Imperatore, arrivò la notizia che Ataulfo, chiamato da Alarico, come menzionato in precedenza, aveva attraversato le Alpi, tra la Pannonia e la Venezia. Non appena l’Imperatore apprese che l’esercito di Ataulfo non era molto consistente, ordinò a tutte le sue truppe, che fossero fanti o cavalieri, di stanza nelle diverse città, di marciare sotto i loro ufficiali per scontrarsi con l’esercito di Ataulfo. A Olimpio, che era il comandante delle guardie di corte, affidò i trecento guerrieri Unni che erano a Ravenna. Esse si scontrarono con l’armata di Ataulfo nei pressi di Pisa, uccidendo 1100 Goti, e tornando in tutta sicurezza a Ravenna con la perdita di soli diciassette uomini. Tuttavia Ataulfo riuscì a raggiungere Alarico con buona parte della sua armata intatta.

Gli eunuchi di corte accusarono allora Olimpio, di fronte all’Imperatore, di essere l’artefice di tutte le calamità che avevano colpito lo stato, e alla fine riuscirono ad ottenere la sua destituzione. Olimpio, temendo sventure peggiori, fuggì in Dalmazia.

LA VICENDA DI GENERIDO

Nel frattempo, Onorio fece molte innovazioni nelle magistrature, destituendo quelli che erano precedentemente alti ufficiali e sostituendoli con altri; inviò Attalo a Roma come prefetto della città e inviando ad assisterlo un certo Demetrio affinché indagasse sui fondi pubblici; assunse, inoltre, Generido comandante delle armate in Dalmazia, Pannonia Superiore, Norico e Rezia.

Questo Generido, anche se di origini barbariche, era molto virtuoso ed era inoltre pagano. Quando fu promulgata una legge che proibiva a tutti coloro che non fossero cristiani di detenere incarichi alla corte imperiale, Generido, che era all’epoca un ufficiale militare a Roma, lasciò il posto e si ritirò a casa propria. Quando l’Imperatore Onorio scoprì tutto ciò, desiderando mantenerlo al proprio servizio, gli assicurò che avrebbe fatto un’eccezione per lui, non applicando quella legge solo nel suo caso. Generido, tuttavia, rispose che le leggi dovevano essere valide per tutti e non intendeva essere favorito o che venisse fatta un’eccezione per lui soltanto. Alla fine l’Imperatore, costretto sia dalla necessità che dalla vergogna, abolì la legge, e diede di nuovo ai pagani la possibilità di rivestire cariche civili o militari.

Generido, ritornato in carica, si dimostrò degno di detenerla, impiegando e istruendo i soldati con continuo lavoro e esercizio. Distribuiva grano tra loro, facendo in modo che nessuna persona li privasse di ogni parte di esso, come era pratica in precedenza. Diede inoltre adeguate ricompense a coloro che lo meritavano di più. Apparendo un così grande generale, egli costituì non solo un terrore per i Barbari, ma anche una sicurezza per le province poste sotto la sua tutela.

L’ASCESA AL POTERE DI GIOVIO

Nel frattempo, i soldati di stanza a Ravenna si ammutinarono, presero possesso del porto e insistettero rudemente che l’Imperatore si presentasse al loro cospetto per negoziare. Ma, poiché Onorio era terrorizzato per la rivolta e si era nascosto, non avendo il coraggio di presentarsi ai soldati, fu il prefetto del pretorio e patrizio Giovio a negoziare con i soldati. Giovio chiese ai soldati i motivi dell’ammutinamento, fingendo di non esserne a conoscenza, in quanto in realtà era stato lui stesso l’autore di questo ammutinamento, coadiuvato in ciò da Allobico, comandante della cavalleria domestica.

I soldati risposero richiedendo che fossero consegnati nelle loro mani i due generali Turpilione e Vigilanzio, insieme al ciambellano imperiale Terenzio e l’altro eunuco Arsacio, secondo in dignità al primo. L’Imperatore, temendo un’insurrezione dei soldati, condannò i due generali a un esilio perpetuo. Essi furono quindi collocati a bordo di una nave, ma, per ordine di Giovio, furono assassinati qui da coloro che erano stati ingaggiati per trasportarli al luogo di esilio. Giovio temeva infatti che, nel caso avessero fatto ritorno, e avessero scoperto l’intrigo ai loro danni, essi avrebbero potuto sobillare l’Imperatore a punirlo per ciò.

Terenzio fu inviato in Oriente, mentre Arsacio fu spedito in esilio a Milano. L’Imperatore procedette ora a nominare Eusebio ciambellano in luogo di Terenzio, diede il comando detenuto da Turpilione a Valente, e assunse Allobico al posto di Vigilanzio, riuscendo in questo modo a mitigare l’ira dei soldati.

NEGOZIAZIONI FALLITE TRA GIOVIO E ALARICO

Giovio, essendo ora diventato con questi intrighi la personalità più influente presso l’Imperatore, risolvette di inviare ambasciatori ad Alarico, chiedendogli di recarsi a Ravenna per concludere una pace. Alarico, dopo aver ricevuto lettere sia da Giovio che dall’Imperatore, avanzò fino a Rimini, a trenta miglia da Ravenna. Giovio si diresse precipitosamente lì per trattare l’alleanza con Alarico. Giovio già conosceva Alarico, i due si erano incontrati in Epiro. Le richieste di Alarico erano: una certa quantità di oro da pagargli ogni anno, insieme a una certa quantità di grano; inoltre egli e i Barbari al suo comando avrebbero dovuto ottenere il permesso di insediarsi nelle province delle Venezie, Norico, e Dalmazia.

Giovio, avendo trascritto tali richieste in presenza di Alarico, le spedì all’Imperatore, insieme ad altre lettere che privatamente gli inviò, consigliandogli di nominare Alarico comandante di entrambe le proprie armate, in modo da indurlo ad accettare proposte più miti, e accettare una pace a condizioni tollerabilmente moderate. Quando l’Imperatore ricevette questa lettera, condannò Giovio per la sua temerarietà, e gli scrisse, dicendogli che, in quanto prefetto del pretorio, avrebbe potuto assegnare ad Alarico la quantità di grano e oro che desiderava, ma che nessun comando o dignità sarebbe mai stata conferita ad Alarico, o a ognuno della sua famiglia.

Quando Giovio ricevette questa lettera, l’aprì e la lesse ad alta voce in presenza di Alarico, che, quando scoprì che Onorio avrebbe negato una carica militare non solo a lui ma anche al resto della sua famiglia, si adirò a tal punto da interrompere le trattative e ordinare immediatamente ai suoi soldati di marciare su Roma, e vendicare in siffatto modo l’affronto fatto a lui e a tutta la sua famiglia.

Giovio fece rapido ritorno a Ravenna. Per recuperare la fiducia dell’Imperatore, giurò di fronte a Onorio che non avrebbe mai negoziato una pace con Alarico, ma avrebbe combattuto una guerra ad oltranza, e costrinse gli altri cortigiani a fare il medesimo giuramento. Nel frattempo, l’Imperatore chiamò diecimila guerrieri mercenari Unni in sua assistenza nella guerra contro Alarico. Affinché al loro arrivo essi potessero trovare le provviste già pronte, ordinò ai provinciali della Dalmazia di provvedere a ciò. Inoltre inviò esploratori per ottenere informazioni della via che Alarico intendeva percorrere per marciare su Roma.

Ma Alarico, nel frattempo, si era pentito della sua intenzione di marciare su Roma, e inviò presso Onorio numerosi vescovi cittadini, non solo come ambasciatori, ma anche per consigliare all’Imperatore di non rendersi artefice della distruzione da parte dei Barbari di una città così nobile, che per più di un millennio aveva dominato la maggior parte del mondo, rifiutando di negoziare ostinatamente una pace. Istruì i vescovi di informare l’Imperatore che i Barbari, in cambio della pace, si sarebbero accontentati solo dell’insediamento delle due province del Norico e un piccolo tributo in grano da pagare annualmente, rinunciando al tributo in oro. Inoltre Alarico sarebbe diventato alleato dei Romani e avrebbe combattuto tutti i nemici dell’Impero.

Nonostante le richieste di Alarico fossero estremamente moderate, esse furono rifiutate da Giovio e dagli altri ministri dell’Imperatore, pur di non violare il giuramento fatto che non avrebbero mai più trattato la pace con Alarico. Alarico, pertanto, avendo ricevuto insulti in risposta delle sue richieste ragionevoli, si diresse verso Roma con tutto il suo esercito, intendendo cingerla d’assedio.

Nel frattempo Giovio, ambasciatore dell’usurpatore Costantino, si presentò al cospetto di Onorio chiedendogli la conferma della pace concordata in precedenza, e presentando le scuse dell’usurpatore per le esecuzioni di Vereniano e Didimio, parenti dell’Imperatore Onorio, assicurando che erano stati giustiziati non per ordine di Costantino. Trovando Onorio molto preoccupato, gli disse che era conveniente per lui fare alcune concessioni a Costantino, in modo da ottenerne l’aiuto contro Alarico. Giovio assicurò che avrebbe informato Costantino delle tribolazioni sofferte dall’Italia, e che sarebbe tornato in breve con tutte le armate della Gallia, della Spagna e della Britannia, per liberare l’Italia e la stessa Roma dai pericoli che incombevano. A queste condizioni a Giovio fu permesso di partire.

USURPAZIONE DI ATTALO

Nel frattempo Alarico, essendo fallite tutte le trattative di pace alle condizioni proposte, né avendo ricevuto ostaggi, assediò ancora una volta Roma, minacciando di distruggerla se i cittadini avessero rifiutato di unirsi con lui contro l’Imperatore Onorio. Essi rinviarono la loro risposta così a lungo, che egli assediò la città, e si impadronì del suo porto dopo alcuni giorni di strenua resistenza da parte dei suoi difensori. Essendosi così impadronito delle provviste della città custodite nel porto, minacciò di distribuirle tra i suoi uomini, a meno che i Romani non avessero accettato le sue condizioni.

L’intero senato pertanto si radunò, deliberando infine di accettare tutte le richieste di Alarico, non essendo rimasta altra alternativa, dopo la caduta del porto in mano nemica. Di conseguenza essi ricevettero l’ambasceria di Alarico, lo fecero entrare in città e, su suo ordine, collocarono Attalo, il prefetto della città, sul trono imperiale, vestendolo di porpora e di una corona. Il nuovo usurpatore, Attalo, nominò Lampadio prefetto del pretorio, e Marciano prefetto della città, mentre nominò Alarico e Valente, quest’ultimo in precedenza comandante delle legioni della Dalmazia, comandanti dell’esercito. Si diresse poi verso il palazzo imperiale.

Il giorno successivo, entrando in senato, rivolse un discorso pieno di arroganza, in cui ostentava che avrebbe sottomesso l’intero mondo ai Romani. I Romani divennero trepidanti di gioia, non solo per la nomina dei nuovi magistrati, abili nella gestione degli affari, ma anche per la nomina di Tertullo a console (inizio dell’anno 410). Gli unici a non essere contenti dell’innalzamento di Attalo fu la famiglia degli Anici, che in precedenza avevano ottenuto nelle loro mani quasi tutto il denaro della città, e che ora veniva danneggiata da questi eventi.

Alarico consigliò prudentemente Attalo di inviare un’armata consistente in Africa e a Cartagine, per destituire Eracliano dalla sua dignità, in quanto, essendo fedele a Onorio, avrebbe potuto ostacolare i loro piani. Ma Attalo non ascoltò le sue ammonizioni, perché dei ciarlatani pagani lo avevano convinto che avrebbe sottomesso Cartagine e l’Africa intera senza combattere. Per questi motivi, rifiutò di inviare Druma e i Barbari sotto il suo comando, che avrebbero destituito agevolmente Eracliano. Diede il comando delle truppe da condurre in Africa a Costantino, ma non inviò con lui nessun soldato capace.

SPEDIZIONE DI ATTALO CONTRO RAVENNA

Nel frattempo, mentre la situazione in Africa rimaneva incerta, Attalo intraprese una spedizione contro l’Imperatore Onorio, marciando su Ravenna. L’Imperatore rimase così terrorizzato che inviò presso l’usurpatore alcuni ambasciatori, ovvero il prefetto del pretorio e patrizio Giovio, il magister utriusque militiae Valente, il questore Potamio e il primicerio dei notai Giuliano, proponendogli la spartizione dell’Impero. Attalo rifiutò, ma consentì a permettergli di ritirarsi in esilio in qualunque isola egli desiderasse. Giovio accettò questa proposta, proponendo ulteriormente di mutilare Onorio. Attalo rifiutò la proposta di Giovio, affermando che non vi fosse ragione per mutilare Onorio, nel caso avesse abdicato volontariamente. Giovio, dopo alcune ambascerie infruttuose, decise di tradire la causa di Onorio, passando dalla parte dell’usurpatore e venendo premiato da Attalo con la nomina a prefetto del pretorio e patrizio. Dopo il tradimento di Giovio, il governo a Ravenna passò alle mani del preposito Eusebio che, tuttavia, per pubblico decreto e per la crudeltà di Allobico fu ucciso al cospetto dell’Imperatore.

Nel frattempo, essendo la situazione ormai disperata, Onorio era pronto alla fuga. Quando aveva già radunato a tale proposito un considerevole numero di navi al porto di Ravenna, giunsero dalla parte orientale dell’Impero sei reggimenti di soldati, ammontanti a seimila truppe, attesi fin dai tempi di Stilicone. Al loro arrivo, Onorio affidò loro la difesa delle mura, e decise di rimanere a Ravenna, in attesa di notizie dall’Africa. Se Eracliano fosse riuscito a rimanere al potere in Africa, Onorio intendeva continuare a guerreggiare Alarico con tutte le sue armate; se invece Eracliano fosse stato sconfitto, Onorio intendeva salpare per l’Oriente rifugiandosi presso l’Imperatore Teodosio, rinunciando così al trono d’Occidente.

DOPPIO GIOCO DI GIOVIO

Nel frattempo Giovio fu corrotto da Onorio tramite altre persone. Avendo cominciato ad avere intenzioni proditorie nei confronti di Attalo, Giovio dichiarò al senato che non avrebbe più agito come ambasciatore, e usando espressioni molto dure nei confronti di Attalo, rimproverandolo per aver rifiutato di inviare in Africa contro Eracliano un’armata composta dai Barbari. Per tali motivi, asserì, la spedizione inviata in Africa aveva fallito, terminando con l’uccisione del suo comandante Costantino.

Giovio, al contempo, continuò a parlare male di Attalo di fronte ad Alarico, insinuando che, non appena Attalo avrebbe detronizzato a Onorio, avrebbe ucciso Alarico, e tutti i suoi commilitoni. Alarico, che già stava cominciando a dubitare di Attalo in seguito agli insuccessi in Africa, decise quindi di abbandonare l’assedio di Ravenna, anche se rimase per il momento fedele all’usurpatore a causa del giuramento fatto. Mentre Valente nel frattempo venne arrestato con l’accusa di tradimento, Alarico procedette con la sua armata per sottomettere le città dell’Emilia, che avevano rifiutato di riconoscere Attalo come loro sovrano. Alcune di esse furono rapidamente sottomesse, ma non la città di Bononia, che assediò invano per diversi giorni; non essendo riuscito ad espugnarla, Alarico avanzò verso la Liguria, per costringere anche quella regione a riconoscere Attalo come proprio sovrano.

Onorio, nel frattempo, inviò lettere alle città della Britannia, consigliando esse di provvedere da sé alla loro sicurezza. Nel frattempo, ricompensò i suoi soldati con il denaro inviato da Eracliano, che, rimasto fedele all’Imperatore legittimo, impedì l’arrivo di grano dall’Africa al porto di Roma, ora che apparteneva all’usurpatore Attalo. Roma fu così colpita da una grave carestia, che provocò gravi problemi alla popolazione cittadina. Nel frattempo Attalo, tornato a Roma, radunò il senato. La maggior parte dei senatori insisteva che un esercito di soldati romani e barbari condotto da Druma avrebbe dovuto essere inviato in Africa, ma Attalo e una minoranza del senato dissentirono, in quanto non intendeva inviare un barbaro come comandante di un esercito romano.

Alarico, disperando ormai di Attalo, continuamente calunniato e falsamente accusato da Giovio, decise di condurre Attalo fuori la città di Ariminum, dove allora risiedeva, e di privarlo del diadema e della porpora, privandolo quindi del trono usurpato. Ma anche se Alarico ridusse Attalo alla condizione di cittadino privato di fronte alla popolazione, decise di mantenere egli e il figlio di lui Ampelio nella propria casa, fino a quando non avrebbe raggiunto la pace con Onorio e non si fosse procurato il loro perdono. All’epoca anche Placidia, sorella dell’Imperatore, era con Alarico, in qualità di ostaggio, ma ricevette tutti gli onori riservati a una principessa.

L’AGGRESSIONE DI SARO

Tale era lo stato dell’Italia, mentre nel frattempo in Gallia l’usurpatore Costantino diede un diadema al figlio Costante, elevandolo da Cesare ad Augusto; dopo aver privato Apollinare della sua carica, assunse come prefetto del pretorio un’altra persona. Nel frattempo Alarico procedette verso Ravenna per ratificare la pace con Onorio; ma la sorte gli pose di fronte un altro ostacolo che impedì la riappacificazione. Nel Piceno, infatti, stazionava Saro con alcuni dei suoi Barbari; all’epoca, costui non parteggiava né per l’Imperatore né per Alarico; Ataulfo, a causa di una precedente inimicizia con Saro, decise di marciare contro di lui con la sua intera armata. Quando Saro si rese conto dell’appropinquarsi di Ataulfo, dopo aver constatato che con soli trecento uomini a disposizione, non poteva certo scontrarsi con lui, decise di fuggire presso Onorio, e di assisterlo nella guerra contro Alarico.

Alarico stazionava a circa sessanta stadi da Ravenna, dove doveva tenere un incontro con l’Imperatore riguardo la conclusione di una pace. Sennonché Saro, sospettoso di Alarico a causa della loro precedente inimicizia, ritenendo che un trattato tra Romani e Goti non gli sarebbe stato di alcun vantaggio, attaccò all’improvviso l’esercito di Alarico, uccidendo alcuni dei Barbari. Adirato per questo incidente, Alarico interruppe le trattative, e tornò ad assediare Roma.

INVASIONE DELL’USURPATORE COSTANTINO III

Nel frattempo, mentre Roma era ancora una volta minacciata da Alarico, l’usurpatore Costantino decise di impadronirsi dell’Italia. A tal fine, attraversate le Alpi Cozie, avanzò fino a Verona. Era sul punto di attraversare il Po, quando fu costretto a tornare indietro dalla notizia dell’esecuzione di Allobico. Questo Allobico era il comandante dell’esercito di Onorio. Essendo stato sospettato di complottare per consegnare il governo dell’intera parte occidentale dell’Impero nelle mani dell’usurpatore Costantino, fu ucciso mentre faceva ritorno da una processione, nella quale, come era tradizione, marciava di fronte all’Imperatore. Costantino fuggì e ritornò ad Arelate, dove si ricongiunse con il figlio Costante, tornato dalla Spagna dopo una sconfitta subita contro Geronzio.

IL SACCO DI ROMA (410)

I Visigoti di Alarico saccheggiano Roma (agosto 410).

Nel frattempo Alarico espugnò Roma per tradimento, entrando in città attraverso la Porta Salaria, che gli fu aperta da traditori (24 agosto 410). Sono state tramandate dallo storico Procopio (vissuto nel VI secolo) due differenti versioni della espugnazione di Roma. Secondo la prima versione, Alarico avrebbe inviato ambasciatori ai membri del senato, annunciando che avrebbe levato l’assedio, non prima però di regalare loro come schiavi trecento giovani goti ancora imberbi. Dopo aver consegnato questi trecento goti ai patrizi romani, Alarico diede il segnale per la falsa partenza. Questi giovani goti regalati come schiavi ai patrizi erano stati però istruiti dal re goto di aprirgli la Porta Salaria al segnale convenuto, dopo aver ucciso le guardie. Al giorno stabilito per l’attacco, Alarico condusse la sua intera armata di fronte alla Porta Salaria, la stessa dove si era accampato agli inizi dell’assedio. I trecento schiavi goti, dopo aver ucciso le guardie, gli aprirono la porta, permettendo così alla sua armata di saccheggiare la città. Secondo un’altra versione, tuttavia, sarebbe stata una donna di nome Proba, appartenente a una famiglia senatoria, ad ordinare ai suoi domestici di aprire le porte ad Alarico di notte, provando pietà per i Romani che stavano soffrendo terribilmente la fame, a causa del fatto che il porto e il fiume erano caduti in mano nemica. Entrambe le versioni risultano inattendibili: la prima, perché sostiene che l’apertura a tradimento della Porta Salaria sarebbe avvenuta a mezzogiorno, mentre fonti coeve asseriscono che la città fu espugnata di notte, la seconda, perché probabilmente si trattava di una voce infondata diffusa dai sostenitori di Attalo per diffamare la gens senatoria degli Anicii (a cui Proba apparteneva), fieri oppositori dell’usurpatore.

In ogni modo, è certo che Roma fu espugnata per tradimento. Alarico permise ad ognuno dei suoi seguaci di saccheggiare la città e di impadronirsi di tutti i beni dei cittadini per quanto fosse loro possibile; ma, per rispetto nei confronti dell’apostolo Pietro, comandò che la basilica di San Pietro sarebbe stato un luogo di asilo, in cui tutti coloro che si fossero rifugiati lì avrebbero avuto salva la vita. Questa fu l’unica causa che prevenne l’intera demolizione di Roma, e quelli che si salvarono, ed erano molti, ricostruirono le parti danneggiate della città.

Orosio riferisce che, durante il sacco della città, uno dei maggiorenti goti, di religione cristiana, fatta irruzione in una casa di religiose, avrebbe chiesto con reverenza a una monaca oro e argento; costei rispose che disponeva di molti vasi preziosi e glieli avrebbe mostrati, ma lo avvertì che si trattava del sacro vasellame dell’apostolo Pietro e dunque rubarlo avrebbe potuto costituire sacrilegio. Il maggiorente goto, temendo di commettere sacrilegio nel rubare il vasellame, avvertì Alarico; quest’ultimo comandò di riportare tutto il vasellame nella basilica di San Pietro e di condurvi, sotto scorta, non solo la monaca ma anche tutti i cristiani che a costoro si fossero uniti. E, poiché la casa delle monache si trovava dalla parte opposta della Città Eterna rispetto alla basilica di San Pietro, tutti costoro che si unirono alla processione, pagani compresi, ebbero salva la vita, riuscendo a raggiungere incolumi la basilica di San Pietro.

Il sacco di Roma, per quanto mitigato da certi episodi occasionali di pietà, fu comunque violento. I Goti, fatta irruzione nella casa della nobildonna vedova Marcella, residente sul colle Aventino insieme alla figlia adottiva Principia, la percossero e la picchiarono nel tentativo di farsi dire dove fossero nascoste le sue ricchezze, nonostante ella continuasse a insistere che le avesse donate, per carità cristiana, ai poveri. E’ vero che i Goti, convintesi che la donna dicesse la verità, smisero di percuoterla e la portarono cortesemente insieme a Principia nella chiesa di San Paolo affinché si salvasse, ma è altrettanto vero che il contraccolpo delle violenze subite le fu fatale e portò alla sua morte solo alcuni giorni dopo. Secondo Agostino da Ippona, i Goti, nel corso del sacco, si resero artefici di rapine, torture e stupri, non risparmiando nemmeno le monache cristiane.

I danni subiti dall’Urbe nei tre giorni di Sacco furono comunque ingenti: le case nei pressi della porta Salaria, tra cui spiccava la dimora di Sallustio, furono incendiate, e stessa sorte capitò al palazzo dei Valerii sul Celio e alle residenze private sull’Aventino; le stesse terme di Decio subirono danni ingenti, come anche il tempio di Giunone Regina, che fu completamente distrutto, insieme all’intero quartiere, come è possibile dedurre dai ritrovamenti archeologici; le statue del Foro furono depredate, l’edificio del Senato fu dato alle fiamme e diverse chiese, come la basilica di Papa Giulio, oltre a subire danni ingenti, furono depredate dei vasi liturgici. Dopo aver incendiato dunque le case prossime alla Porta Salaria, tra cui la casa dello storico Sallustio, e aver devastato l’intera città, i Goti partirono dopo tre giorni di saccheggio.

Come attesta Rutilio Namaziano, chi era scappato prima del sacco aveva trovato riparo nell’Isola del Giglio; altri cittadini, ridotti in miseria dal Sacco, trovarono riparo nelle province dell’Impero d’Oriente. In un’epistola, Girolamo narra le tribolazioni di Proba, costretta dal sacco dei Goti a fuggire in Africa a bordo di una modesta imbarcazione insieme alla figlia Leta e alla vergine Demetriade, finendo tuttavia per trovare “le coste dell’Africa persino più crudeli di quelle che aveva abbandonato”. Girolamo infatti accusa il comes Africae Eracliano e il genero di lui Sabino di strappare figlie fidanzate dalle braccia delle madri e di vendere fanciulle di illustre nascita in matrimonio “ai più avidi tra gli uomini, ai mercanti della Siria”.

La corte dell’Imperatore Onorio.

Si narra che l’Imperatore Onorio ricevette da uno dei suoi eunuchi la notizia che Roma era perita. Onorio replicò affermando che Roma aveva appena beccato dalle sue mani, riferendosi alla sua gallina, che si chiamava Roma esattamente come la città. L’eunuco, resosi conto dell’equivoco, chiarì che era la città di Roma e non la gallina ad essere perita per mano di Alarico, al che l’Imperatore si mostrò sollevato, perché aveva temuto che fosse successo qualcosa di grave alla sua gallina. Tale, si narra, era la stoltezza di tale Imperatore.

MORTE DI ALARICO

Nel frattempo Alarico marciò verso sud. Giunto a Reggio, nel Bruzio, intendeva invadere la Sicilia, ma alla fine rinunciò all’impresa. Il pagano Olimpiodoro asserisce che Alarico rinunciò nell’impresa perché intimorito da una statua pagana che era stata eretta in quel luogo con la funzione non solo di proteggere gli abitanti dalle eruzioni dell’Etna ma anche di impedire ai Barbari di invadere la Sicilia via mare. Secondo il cristiano Orosio, invece, l’invasione della Sicilia fallì perché una tempesta provvidenzialmente affondò la flotta gotica.

Tornato a Reggio, Alarico perì di malattia. Gli succedette sul trono dei Goti il cognato Ataulfo, che ricominciò la risalita lungo la penisola verso la Gallia.

IMPRESSIONI SUSCITATE DAL SACCO PRESSO I COEVI

Il Sacco di Roma suscitò grande impressione presso gli scrittori coevi, dato che era da 900 anni (dal Sacco dei Galli Senoni di Brenno del 390 a.C.) che la città di Roma non veniva espugnata da esercito nemico. Girolamo, che si trovava a Betlemme all’epoca del fatto, scrisse che era intento a scrivere il commento a Ezechiele quando ne fu informato, e asserì che “quando in verità la luce fulgidissima di tutte le terre fu distrutta, anzi fu troncato il capo dell’Impero romano e, per dirlo ancora con più chiarezza, in una sola città tutto il mondo è perito, tacqui e ne fui prostrato”. Girolamo scrisse inoltre: “Chi avrebbe mai creduto che Roma, costruita sulle vittorie riportate su tutto il mondo, sarebbe crollata? Che tutte le coste dell’Oriente, dell’Egitto e d’Africa si sarebbero riempite di servi e di schiave della città un tempo dominatrice, che ogni giorno la santa Betlemme dovesse accogliere ridotte alla mendicità persone di entrambi i sessi un tempo nobili e pieni di ogni ricchezza?” E ancora: “la città inclita e capitale dell’Impero romano è stata bruciata in un solo incendio; e non vi è alcuna regione che non abbia esuli romani; chiese un tempo sacre si sono trasformate in faville e cenere e, nondimeno, andiamo sempre soggetti ad avarizia”. Girolamo, cristiano colto che conosceva benissimo i classici della letteratura latina, giunse persino a parafrasare alcuni versi del III libro dell’Eneide (laddove era cantata la caduta di Troia) adattandoli per descrivere il recente sacco di Roma.

Il sacco di Roma ebbe risonanza anche nell’Oriente romano: l’Imperatore d’Oriente Teodosio II proclamò a Costantinopoli tre giorni di lutto, mentre il monaco Isacco di Amida (in Mesopotamia) cominciò a scrivere poemi lirici sulla caduta di Roma.

I Pagani colsero l’occasione per scagliarsi contro il Cristianesimo, asserendo che, poiché i culti pagani erano stati abbandonati e anzi perseguitati, Roma era stata abbandonata dalle divinità pagane, le quali, ricolmi di ira nei suoi confronti, l’avrebbero punita facendo vincere i Barbari. Secondo il loro punto di vista il Sacco di Roma era la punizione divina stabilita dalle divinità pagane, furiose per l’abbandono e la persecuzione dei culti pagani.

Agostino da Ippona nel suo studio.

Agli attacchi dei Pagani risposero i Cristiani Agostino da Ippona e Paolo Orosio. Agostino, vescovo di Ippona e grande filosofo e teologo cristiano, nel De Civitate Dei (La città di Dio) ribatte punto per punto alle argomentazioni dei pagani. Fece notare loro, citando per giunta solo episodi tratti dalla prima decade dell’opera storica di Tito Livio, le disfatte subite dai Romani anche quando veneravano le divinità pagane, chiedendosi retoricamente dove esse fossero quando questi avvenimenti nefasti accaddero. Ma Agostino si spinse oltre. Nella sua opera mette in contrapposizione due città, Babilonia (l’Impero romano o il mondo terreno) e Gerusalemme (il regno dei cieli). Contro la tesi secondo cui l’Impero romano fosse predestinato a conquistare e civilizzare il mondo e a condurlo verso il Cristianesimo, per Agostino l’Impero romano non era destinato a durare in eterno e si era comunque formato mediante uso della forza, violenza e misfatti. Come tutti gli altri grandi Imperi collassati in passato (come l’Impero achemenide o quello macedone), anche l’Impero romano sarebbe prima o poi crollato. Agostino esortò i credenti cristiani a volgere lo sguardo non alle cose terrene (Babilonia) ma al regno dei Cieli (Gerusalemme). L’ispanico Orosio scrisse, intorno al 418, la Historia adversus paganos (Storia contro i Pagani) in sette libri. In tale opera Orosio scrive che il Sacco di Roma era da interpretarsi come punizione del Dio Cristiano per correggere la città lasciva, ancora corrotta dal Paganesimo. Egli dipinge Alarico come strumento della vendetta divina, e asserisce che, a conferma dell’ira di Dio, furono distrutti dai fulmini quei monumenti che erano stati lasciati intatti dalla furia dei Barbari. In ogni modo Orosio affermò che il Sacco di Alarico fu molto più mite di quello dei Galli Senoni di Brenno, essendo durato solo tre giorni mentre i Galli di Brenno imperversarono nell’Urbe per un anno intero, e l’incendio conseguente al Sacco fu molto meno grave di quello attribuito al dolo dell’Imperatore Nerone. Secondo Orosio, già solo alcuni anni dopo, solo poche rovine testimoniavano il sacco, e, se uno avesse interrogato i cittadini romani, avrebbe ottenuto l’impressione che non fosse successo nulla.