La battaglia del Frigido: Cristiani contro Pagani?

Il Serapeo di Alessandria, distrutto dai Cristiani nel 391 sotto l’Imperatore Teodosio.

Nella prima parte di questo articolo si tratteranno le persecuzioni contro i Pagani condotte dall’Imperatore Teodosio. Nella seconda parte si tratterà dell’usurpazione di Flavio Eugenio, interpretata da molta della storiografia moderna come l’ultima reazione pagana ai decreti antipagani di Teodosio. Eugenio avrebbe favorito i Pagani e la sua sconfitta per mano del cristiano Teodosio al Frigido avrebbe determinato la definitiva sconfitta del Paganesimo. Questa interpretazione è stata recentemente contestata da Alan Cameron, che ritiene che l’usurpazione di Eugenio in realtà non avrebbe avuto niente a che fare con lo scontro tra Cristiani e Pagani. Di tutto ciò se ne parlerà nel seguito.

DECRETI ANTIPAGANI

Sotto l’Imperatore Teodosio si ebbe la definitiva repressione del Paganesimo. Il 27 marzo 380 l’editto di Tessalonica riconosceva la religione cristiana (eresie escluse) come l’unica lecita.

(LA)« IMPPP. GR(ATI)IANUS, VAL(ENTINI)ANUS ET THE(O)D(OSIUS) AAA. EDICTUM AD POPULUM VRB(IS) CONSTANTINOP(OLITANAE).

Cunctos populos, quos clementiae nostrae regit temperamentum, in tali volumus religione versari, quam divinum Petrum apostolum tradidisse Romanis religio usque ad nunc ab ipso insinuata declarat quamque pontificem Damasum sequi claret et Petrum Alexandriae episcopum virum apostolicae sanctitatis, hoc est, ut secundum apostolicam disciplinam evangelicamque doctrinam patris et filii et spiritus sancti unam deitatem sub pari maiestate et sub pia trinitate credamus. Hanc legem sequentes Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti, reliquos vero dementes vesanosque iudicantes haeretici dogmatis infamiam sustinere ‘nec conciliabula eorum ecclesiarum nomen accipere’, divina primum vindicta, post etiam motus nostri, quem ex caelesti arbitro sumpserimus, ultione plectendos.

DAT. III Kal. Mar. THESSAL(ONICAE) GR(ATI)ANO A. V ET THEOD(OSIO) A. I CONSS. »

(IT)« GLI IMPERATORI GRAZIANO, VALENTINIANO E TEODOSIO AUGUSTI. EDITTO AL POPOLO DELLA CITTÀ DI COSTANTINOPOLI.

Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che san Pietro apostolo ha insegnato ai Romani, oggi professata dal Pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all’insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste.

DATO IN TESSALONICA NEL TERZO GIORNO DALLE CALENDE DI MARZO, NEL CONSOLATO QUINTO DI GRAZIANO AUGUSTO E PRIMO DI TEODOSIO AUGUSTO »

(Codice teodosianoxvi.1.2)

Nel frattempo in Occidente l’Imperatore Graziano rinunciò al titolo di Pontefice massimo e fece rimuovere l’altare della vittoria dall’edificio del senato romano. La sua detronizzazione per mano dell’usurpatore Massimo fu interpretato dai pagani come punizione divina. Nonostante l’abilità oratoria del senatore pagano Simmaco, le mozioni dei senatori pagani per riottenere la restaurazione dell’altare della vittoria non portarono a niente, a causa dell’influenza esercitata a corte da vescovi eminenti come Ambrogio e Damaso. In compenso il “partito pagano” riuscì a limitare i danni grazie alla nomina a prefetto del pretorio d’Italia del pagano Pretestato il quale, nel corso del suo mandato, riuscì a far promulgare un decreto che impediva la spogliazione dei templi pagani.

Tra il 391 e il 392 si ebbero quattro decreti teodosiani con cui si avviò una vera e propria repressione o persecuzione del paganesimo impedendo ai Pagani di venerare i propri dei nei templi e minacciando i contravventori con pesanti pene. Fanatici cristiani distrussero capolavori architettonici come il Serapeo di Alessandria semplicemente perché templi pagani.

 

(LA)« Idem AAA. ad Albinum praefectum praetorio.

Nemo se hostiis polluat, nemo insontem victimam caedat, nemo delubra adeat, templa perlustret et mortali opere formata simulacra suspiciat, ne divinis atque humanis sanctionibus reus fiat. Iudices quoque haec forma contineat, ut, si quis profano ritui deditus templum uspiam vel in itinere vel in urbe adoraturus intraverit, quindecim pondo auri ipse protinus inferre cogatur nec non officium eius parem summam simili maturitate dissolvat, si non et obstiterit iudici et confestim publica adtestatione rettulerit. Consulares senas, officia eorum simili modo, correctores et praesides quaternas, apparitiones illorum similem normam aequali sorte dissolvant.

Dat. VI Kal. Mart. Mediolano Tatiano et Symmacho Coss »

(IT)« L’Augusto Imperatore (Teodosio) ad Albino, prefetto del pretorio.

Nessuno violi la propria purezza con riti sacrificali, nessuno immoli vittime innocenti, nessuno si avvicini ai santuari, entri nei templi e volga lo sguardo alle statue scolpite da mano mortale perché non si renda meritevole di sanzioni divine ed umane. Questo decreto moderi anche i giudici, in modo che, se qualcuno dedito a un rito profano entra nel tempio di qualche località, mentre è in viaggio o nella sua stessa città, con l’intenzione di pregare, venga questi costretto a pagare immediatamente 15 libbre d’oro e tale pena non venga estinta se non si trova innanzi a un giudice e consegna tale somma subito con pubblica attestazione. Vigilino sull’esecuzione di tale norma, con egual esito, i sei governatori consolari, i quattro presidi e i loro subalterni.

Dato in Milano, nel sesto giorno dalle calende di marzo sotto il consolato di Taziano e Simmaco. »

(Codice Teodosiano, xvi.10.10)
(LA)« Imppp. Valentinianus, Theodosius et Arcadius aaa. Flaviano praefecto praetorio. Ii, qui sanctam fidem prodiderint et sanctum baptisma profanaverint, a consortio omnium segregati sint, a testimoniis alieni, testamenti, ut ante iam sanximus, non habeant factionem, nulli in hereditate succedant, a nemine scribantur heredes. Quos etiam praecepissemus procul abici ac longius amandari, nisi poenae visum fuisset esse maioris versari inter homines et hominum carere suffragiis.

Sed nec umquam in statum pristinum revertentur, non flagitium morum oblitterabitur paenitentia neque umbra aliqua exquisitae defensionis aut muniminis obducetur, quoniam quidem eos, qui fidem quam deo dicaverant polluerunt et prodentes divinum mysterium in profana migrarunt, tueri ea quae sunt commenticia et concinnata non possunt. Lapsis etenim et errantibus subvenitur, perditis vero, hoc est sanctum baptisma profanantibus, nullo remedio paenitentiae, quae solet aliis criminibus prodesse succurritur. Dat. V id. mai. Concordiae Tatiano et Symmacho conss. »

(IT)« Gli augusti imperatori Valentiniano, Teodosio e Arcadio a Flaviano, prefetto del pretorio.

Coloro che hanno tradito la santa fede [cristiana] e hanno profanato il santo battesimo, siano banditi dalla comune società: dalla testimonianza [in tribunale] siano esentati, e come già abbiamo sancito non abbiano parte nei testamenti, non ereditino nulla, da nessuno siano indicati come eredi. Coloro ai quali era stato comandato di andarsene lontano ed essere esiliati per lungo tempo, se non sono stati visti versare un compenso maggiore tra gli uomini, anche dell’intercessione degli uomini siano privati.

Se casomai nello stato precedente [il paganesimo] ritornano [i neo-convertiti], non sia cancellata la vergogna dei costumi con la penitenza, né sia riservata loro alcuna particolare protezione di difesa o di riparo, poiché certamente coloro i quali contaminarono la fede, con la quale Dio hanno riconosciuto, e orgogliosamente trasformarono i divini misteri in cose profane, non possono conservare le cose che sono immaginarie e a proprio comodo. Ai lapsi ed anche ai girovaghi, certamente perduti, in quanto profanatori del santo battesimo, non si viene in soccorso con alcun rimedio di penitenza, alla quale si ricorre ed è solita giovare negli altri peccati.

Dato a Concordia, nel quinto giorno dalle idi di maggio sotto il consolato di Taziano e Simmaco »

(Codice Teodosiano, xvi.7.4)
(LA)« Idem AAA. Evagrio praefecto augustali et romano comiti Aegypti.

Nulli sacrificandi tribuatur potestas, nemo templa circumeat, nemo delubra suspiciat. Interclusos sibi nostrae legis obstaculo profanos aditus recognoscant adeo, ut, si qui vel de diis aliquid contra vetitum sacrisque molietur, nullis exuendum se indulgentiis recognoscat. Iudex quoque si quis tempore administrationis suae fretus privilegio potestatis polluta loca sacrilegus temerator intraverit, quindecim auri pondo, officium vero eius, nisi collatis viribus obviarit, parem summam aerario nostro inferre cogatur.

Dat. XVI Kal. Iul. Aquileiae Tatiano et Symmacho Coss. »

(IT)« L’Augusto Imperatore (Teodosio) al prefetto Evagrio e a Romano conte d’Egitto.

A nessuno sia accordata facoltà di compiere riti sacrificali, nessuno si aggiri attorno ai templi, nessuno volga lo sguardo verso i santuari. Si identifichino, in particolar modo, quegli ingressi profani che rimangono chiusi in ostacolo alla nostra legge così che, se qualcosa incita chicchessia ad infrangere tali divieti riguardanti gli dèi e le cose sacre, riconosca il trasgressore di doversi spogliare di alcuna indulgenza. Anche il giudice, se durante l’esercizio della sua carica ha fatto ingresso come sacrilego trasgressore in quei luoghi corrotti confidando nei privilegi che derivano dalla sua posizione, sia costretto a versare nelle nostre casse una somma pari a 15 libbre d’oro a meno che non abbia ovviato alla sua colpa una volta riunitesi le truppe militari.

Dato ad Aquileia, nel sedicesimo giorno dalle calende di luglio, sotto il consolato di Taziano e Simmaco. »

(Codice Teodosiano, xvi.10.11)
(LA)« Imppp. Theodosius, Arcadius et Honorius aaa. ad Rufinum praefectum praetorio.

Nullus omnino ex quolibet genere ordine hominum dignitatum vel in potestate positus vel honore perfunctus, sive potens sorte nascendi seu humilis genere condicione ortuna in nullo penitus loco, in nulla urbe sensu carentibus simulacris vel insontem victimam caedat vel secretiore piaculo Larem igne, mero Genium, Penates odore veneratus accendat lumina, imponat tura, serta suspendat. Quod si quispiam immolare hostiam sacrificaturus audebit aut spirantia exta consulere, ad exemplum maiestatis reus licita cunctis accusatione delatus excipiat sententiam competentem, etiamsi nihil contra salutem principum aut de salute quaesierit. Sufficit enim ad criminis molem naturae ipsius leges velle rescindere, illicita perscrutari, occulta recludere, interdicta temptare, finem quaerere salutis alienae, spem alieni interitus polliceri.

Si quis vero mortali opere facta et aevum passura simulacra imposito ture venerabitur ac ridiculo exemplo, metuens subito quae ipse simulaverit, vel redimita vittis arbore vel erecta effossis ara cespitibus, vanas imagines, humiliore licet muneris praemio, tamen plena religionis iniuria honorare temptaverit, is utpote violatae religionis reus ea domo seu possessione multabitur, in qua eum gentilicia constiterit superstitione famulatum. Namque omnia loca, quae turis constiterit vapore fumasse, si tamen ea in iure fuisse turificantium probabuntur, fisco nostro adsocianda censemus. Sin vero in templis fanisve publicis aut in aedibus agrisve alienis tale quispiam sacrificandi genus exercere temptaverit, si ignorante domino usurpata constiterit, viginti quinque libras auri multae nomine cogetur inferre, coniventem vero huic sceleri par ac sacrificantem poena retinebit.

Quod quidem ita per iudices ac defensores et curiales singularum urbium volumus custodiri, ut ilico per hos comperta in iudicium deferantur, per illos delata plectantur. si quid autem ii tegendum gratia aut incuria praetermittendum esse crediderint, commotioni iudiciariae, subiacebunt; illi vero moniti si vindictam dissimulatione distulerint, triginta librarum auri dispendio multabuntur, officiis quoque eorum damno parili subiugandis.

Dat. vi id. nov. constantinopoli arcadio a. ii et rufino conss. »

(IT)« Gli augusti imperatori Teodosio, Arcadio e Onorio a Rufinoprefetto del pretorio.

Nessuno, di qualunque genere, ordine, classe o posizione sociale o ruolo onorifico, sia di nascita nobile sia di condizione umile, in alcun luogo per quanto lontano, in nessuna città scolpisca simulacri mancanti di sensazioni o offra (alcuna) vittima innocente (agli dèi) o bruci segretamente un sacrificio ai lari, ai geni, ai penati, accenda fuochi, offra incensi, apponga corone (a questi idoli). Poiché se si ascolterà che qualcuna avrà immolato una vittima sacrificale o avrà consultato viscere, sia accusato di reato di (lesa) maestà e accolga la sentenza competente, benché non abbia cercato nulla contro il principio della salvezza (Dio) o contro la (sua) salvezza. È sufficiente infatti per l’accusa di crimine il volere contrastare la stessa legge, perseguire le azioni illecite, manifestare le cose occulte, tentare di fare le cose interdette, cercare una salvezza diversa (da quella cristiana), promettere una speranza diversa.

Se qualcuno poi ha venerato opere mortali e simulacri mondani con incenso e, ridicolo esempio, teme anche coloro che essi rappresentano, o ha incoronato alberi con fasce, o eretto altari con zolle scavate alle vane immagini, più umilmente è possibile un castigo di multa: ha tentato una ingiuria alla piena religione (cristiana), è reo di violata religione. Sia multato nelle cose di casa o nel possesso, essendosi reso servo della superstizione pagana. Tutti i luoghi poi nei quali siano stati offerti sacrifici d’incenso, se il fatto viene comprovato, siano associati al nostro fisco. Se poi in templi e luoghi di culto pubblici o in edifici rurali qualcuno cerca di sacrificare ai geni, se il padrone di casa non ne è a conoscenza, 25 libbre di oro di multa si propone di infliggere (al sacrificante), è bene poi essere indulgenti verso lui (il padrone) e la pena trattenere.

Poiché poi vogliamo custodire l’integrità di giudici o difensori e ufficiali delle varie città, siano subito denunciati coloro scoperti (negligenti), quelli accusati siano puniti. Se questi infatti sono creduti nascondenti favori o negligenze, saranno sotto giudizio. Coloro poi che assolvono (gli accusati di idolatria) con finzione, saranno multati di 30 libbre di oro, sottostando anche agli obblighi che derivano da un loro simile comportamento dannoso.

Dato a Costantinopoli, nel sesto giorno dalle idi di novembre, sotto il consolato di Arcadio e Rufino. »

(Codice teodosiano, xvi.10.12)

Subito dopo la promulgazione di tali decreti, ci fu l’usurpazione di Flavio Eugenio in Occidente. Alcune fonti cristiane sostengono che Flavio Eugenio volesse restaurare il paganesimo e appoggiasse i pagani. Per questo motivo numerosi studiosi moderni hanno interpretato l’usurpazione di Eugenio come una reazione pagana ai decreti antipagani di Teodosio, come un atto di ribellione alla persecuzione del paganesimo, un tentativo di restaurare il paganesimo. Alan Cameron ha invece contestato questa interpretazione, negando il carattere religioso dell’usurpazione di Eugenio.

LA RIVOLTA DEI GOTI

Alcuni dei decreti antipagani di Teodosio furono promulgati durante il suo viaggio di ritorno a Costantinopoli, avvenuto nel 391. Non appena tornato a Tessalonica, Teodosio fu informato della rivolta dei Foederati Goti, che, approfittando dell’assenza dell’Imperatore, stavano saccheggiando Macedonia e Tessaglia senza trovare opposizioni.

Quando i Barbari appresero del ritorno di Teodosio, si nascosero di nuovo nelle paludi, e da esse uscivano di giorno per condurre i loro saccheggi. Teodosio, informato, prese con sé cinque cavalieri, ognuno dei quali ricevette il compito di portare con sé tre o quattro cavalli, in modo che, se uno dei cavalli si fosse stancato, il cavaliere ne potesse avere un altro da cavalcare, e i cavalli potessero sopportare le fatiche dell’impresa che egli intendeva compiere.

L’Imperatore viaggiò per il paese sotto mentite spoglie, fingendo di essere un cittadino privato. Egli e il suo seguito erano riforniti di cibo dalla gente delle campagne. Arrivò infine nei pressi di una piccola locanda, gestita da una vecchia, alla quale richiese vitto e alloggio. Dopo essersi rifocillato di vino e di cibo, poichè si avvicinava la notte, Teodosio le chiese di poter passare la notte lì, ed ella acconsentì. Nella stanza, l’Imperatore notò un uomo che rimaneva perfettamente silenzioso, e sembrava non avere nessun desiderio di essere riconosciuto. L’Imperatore, sorpreso, chiamò la vecchia, e le chiese informazioni su quell’uomo. La vecchia rispose che tutto quello che sapeva era che, da quando l’Imperatore Teodosio e il suo esercito erano tornati a casa, era stato il suo ospite e l’aveva pagata ogni giorno. L’Imperatore, avendo udito la storia dalla donna, giudicò conveniente indagare ulteriormente sulla questione, e comandò all’uomo in questione di dichiarare chi fosse. Poiché l’uomo non rispondeva, lo picchiò per costringerlo a confessare. Ma poiché l’uomo continuava a non rispondere, l’Imperatore comandò ai cavalieri di minacciarlo con le spade, rivelandogli di essere l’Imperatore Teodosio in persona. Allora l’uomo confessò di essere una spia al servizio dei Barbari, e lo informò del luogo in cui essi erano nascosti, e come attaccarli. L’Imperatore lo decapitò immediatamente.

Dopo aver raggiunto il suo esercito, che era accampato a non grande distanza, lo condusse contro i Barbari. Li attaccò e li massacrò senza fare distinzioni di età, uccidendone altri nell’acqua. Timasio, il comandante, che ammirava il valore dell’Imperatore, gli chiese il permesso di consentire ai soldati, che erano esausti per la fame, di rinfrescarsi. L’Imperatore assentì, e la tromba suonò la ritirata, al suono della quale i soldati cessarono di inseguire i Barbari. Dopo aver mangiato e bevuto, i soldati furono talmente fiaccati dal vino e dalle fatiche che caddero addormentati.

Quando i Barbari superstiti se ne resero conto, essi presero le loro armi, e assalendo i soldati, già sottomessi dal sonno e dall’intossicazione, li massacrarono. L’Imperatore stesso con la sua intera armata era in grosso pericolo di sopravvivenza, e, quando nella sua tenda giunse la notizia dell’attacco, l’Imperatore e tutti coloro che erano con lui decisero di evitare il pericolo incombente con una fuga precipitosa.

Mentre fuggirono, si imbatterono nel generale Promoto, accorso con rinforzi. Promoto attaccò con i suoi soldati i Barbari, e li massacrò in modo tale che nessuno riuscì a fuggire in sicurezza nelle paludi. Tali furono gli incidenti che accaddero all’Imperatore Teodosio in seguito al suo ritorno dalla sconfitta di Massimo. Mentre tornava a Costantinopoli, fu probabilmente attaccato nei pressi del fiume Maritza dall’esercito federato gotico di Alarico, rivoltatosi all’Impero. Sfuggito a stento, Teodosio riuscì comunque a tornare sano e salvo a Costantinopoli. Fu successivamente il generale Stilicone a ricondurre all’obbedienza il ribelle Alarico.

MALEFATTE DI RUFINO

Teodosio, tornato a Costantinopoli, decise di affidare il comando delle armate a Promoto e a dedicarsi nella vita di corte. Dei magistrati che Teodosio aveva assunto, il più importante di essi era Rufino, originario della Gallia Aquitania. L’Imperatore lo teneva in grande stima, e a lui riponeva l’intera confidenza di tutti i suoi affari. Ciò suscitò l’invidia di Timasio e di Promoto, che, nonostante tutte le gesta militari che avevano compiuto per lo stato romano, si sentivano messi in secondo piano.

E Rufino divenne talmente confidente della propria autorità che offese incautamente Promoto nel corso di un’assemblea pubblica. Promoto, incapace di sopportare tali ingiurie, colpì Rufino in volto con grande violenza. Rufino immediatamente si recò presso l’Imperatore, e mostrandogli il volto malconcio per il colpo subito da Promoto, lo eccitò a tale ira, da fargli dire che se la loro invidia nei confronti di Rufino non fosse diminuita, lo avrebbero visto presto Imperatore.

Rufino, allora, che per altre ragioni si era inimicato molte persone, ed era generalmente odiato, a causa della sua arroganza e della sua eccessiva ambizione di essere superiore a tutti, all’udire ciò, persuase l’Imperatore a inviare Promoto ad esercitare i soldati in qualche luogo. Avendo ottenuto dall’Imperatore l’assenso, assunse alcuni Barbari affinché tendessero un’imboscata a Promoto mentre stava marciando per la Tracia. Essi, seguendo i suoi ordini, attaccarono Promoto di sorpresa, e lo uccisero. Così perì Promoto, uomo superiore al desiderio di ricchezza, e che era stato sempre leale nei confronti dello stato e degli Imperatori.

Quando il fatto si seppe, e divenne un tema di conversazione generale, ogni persona moderata e sobria si sconvolse per tali atti empi; ma nel frattempo Rufino, come se dovesse essere ricompensato per chissà quale atto glorioso, ascendeva di potenza e fu fatto console. Accuse, senza fondamento ragionevole, furono formulate contro Taziano e suo figlio Procolo, che non avevano fatto nessuna altra offesa a Rufino, a parte quello di aver svolto senza corruzione, per quanto fu loro possibile, i loro incarichi di prefetto, l’uno del pretorio, l’altro della città.

Taziano, privato del suo incarico, fu processato, mentre Rufino fu nominato prefetto del pretorio. Anche se vi erano apparentemente altre persone che sedevano come giudici nel processo oltre a Rufino, solo lui aveva l’autorità di pronunciare la sentenza. Quando Procolo scoprì l’intrigo, fuggì. Allora Rufino si recò da Taziano, e con giuramenti ingannevoli lo persuase a credere a tutto ciò che diceva. Persuase persino l’Imperatore di ingannare Taziano con speranze di perdono; alla fine, ingannato dalle parole di Rufino e Teodosio, Taziano con lettere richiamò il figlio. Ma non appena Procolo arrivò, fu catturato e gettato in prigione. Mentre Taziano venne inviato in esilio nella sua terra nativa, Procolo fu processato e condannato alla decapitazione, da eseguirsi nei sobborghi, noti Sycae. L’Imperatore, all’udire ciò, tentò di impedire l’esecuzione, ma il messaggero di Rufino procedette così lentamente, che quando arrivò sul posto dell’esecuzione, Procolo era già stato decapitato.

LA TRAGICA FINE DI VALENTINIANO II

Mentre eventi di varia sorte stavano avendo luogo in Oriente e in Tracia, l’ordine pubblico venne turbato in Gallia. L’Imperatore Valentiniano II fu rinchiuso a Vienne nel proprio palazzo, ridotto quasi al rango di cittadino privato, mentre il comando militare venne affidato agli alleati franchi, e persino le cariche civili caddero sotto il controllo della fazione di Arbogaste, e nessuno di tutti i soldati vincolati dal giuramento osava obbedire al comando dell’Imperatore.

Il franco Arbogaste, che era stato assunto dall’Imperatore Graziano come luogotenente di Bautone, spentosi Bautone, confidando nella propria abilità, aveva assunto il comando senza il permesso dell’Imperatore. Avendo ottenuto l’appoggio dei soldati, a causa del valore e dell’esperienza provate nelle gesta militari, e per il suo disprezzo per i ricchi, ottenne grande influenza. Giunse a cotanto potere, che poteva parlare senza riserva all’Imperatore, rimproverandolo per ogni misura che riteneva impropria.

Questo atteggiamento arrogante non piaceva a Valentiniano, che tentò di opporsi al suo strapotere, ma non sapeva come fare. Alla fine Valentiniano, persa la pazienza, un giorno, mentre Arbogaste si stava avvicinando a lui mentre sedeva sul trono imperiale, lo guardò con sguardo torvo, e gli consegnò una lettera, con il quale gli annunciava la destituzione dal comando. Arbogaste, dopo averla letta, rispose “Tu non mi hai dato il comando, e non puoi togliermelo”, e dopo aver detto ciò, strappò la lettera in pezzi, e si ritirò. Da quel momento in poi, l’odio reciproco tra Imperatore e generale non fu più tenuto segreto, ma fu evidente in pubblico.

Valentiniano inviò lettere frequenti all’Imperatore Teodosio, informandolo del comportamento arrogante di Arbogaste nei confronti della maestà di un imperatore, e richiedendo aiuto senza però ottenerlo.

Qualche tempo dopo, il 15 maggio 392 l’Imperatore Valentiniano II fu trovato impiccato. Arbogaste e la sua fazione sostennero la tesi del suicidio del giovane imperatore, ma ben presto emerse il sospetto che Arbogaste avesse ordinato agli eunuchi della camera da letto dell’Imperatore di strangolarlo e poi di fare in modo che sembrasse un suicidio. Il 22 agosto 392 il retore Flavio Eugenio fu proclamato imperatore della pars occidentis dal senato romano per volere di Arbogaste. Eugenio tentò di ottenere da Teodosio il riconoscimento inviandogli a tal uopo degli ambasciatori ma Teodosio, nonostante qualche incertezza iniziale, rifiutò di farlo, considerandolo un usurpatore e cominciando i preparativi per una nuova spedizione in Italia. Nel gennaio 393 Teodosio aveva associato al trono con il titolo di Augusto suo figlio Onorio  con l’intenzione di porlo sul trono d’Occidente.

EUGENIO E ARBOGASTE PAGANI?

Nel frattempo Eugenio abbandonò la Gallia per stabilirsi in Italia. Alcuni autori cristiani, a partire dallo storico ecclesiastico Tirannio Rufino, sostennero che Arbogaste ed Eugenio fossero pagani e avessero intenzione di restaurare il paganesimo come religione dominante. Cameron ha messo in dubbio la loro attendibilità.

Tirannio Rufino e Sozomeno (usando come fonte lo stesso Rufino) sostennero che Eugenio, pur essendo ufficialmente cristiano, favorì i pagani e che il fanatico pagano Flaviano (prefetto del pretorio d’Italia) gli aveva predetto che, se la religione cristiana fosse stata abolita, ogni sua campagna militare si sarebbe conclusa con una vittoria. Cameron mette in dubbio tutto ciò facendo notare che altri usurpatori furono falsamente etichettati come pagani dopo la loro sconfitta (ad esempio Magnenzio) e che non è da escludere che lo stesso sia accaduto per Eugenio. Non a caso le fonti cristiane non dipendenti da  Rufino non accennano affatto al carattere religioso dello scontro.

Il biografo del vescovo di Milano Ambrogio, Paolino da Milano, asserisce che Eugenio, su pressioni di Flaviano e di Arbogaste, avrebbe fatto restaurare l’altare della vittoria nella sede del Senato e avrebbe restaurato i fondi garantiti dallo stato per finanziare le cerimonie pagane. A detta di Paolino, ciò avrebbe contrariato Ambrogio che, quando seppe  che Eugenio voleva stabilirsi a Milano, lasciò la città meneghina. Paolino, a conferma di quanto asserito, cita alcuni passaggi di una lettera di Ambrogio indirizzata a Eugenio in cui gli spiegava le motivazioni per cui aveva lasciato Milano rifiutando di incontrarlo. Cameron mette in forte dubbio la testimonianza di Paolino accusandolo di aver frainteso il contenuto della lettera di Ambrogio e di averlo interpretato in base a quanto scritto da Tirannio Rufino. Per Cameron, se uno leggesse la lettera di Ambrogio senza tener conto delle interpretazioni di Paolino, scoprirebbe che ben due ambascerie furono inviate presso Eugenio affinché restaurasse i finanziamenti per le cerimonie pagane, ma in entrambe le occasioni Eugenio negò la richiesta; tuttavia Ambrogio contestò a Eugenio il fatto che Eugenio avesse inviato dei doni ai senatori pagani e per tale motivo il vescovo meneghino avrebbe lasciato Milano. Alcuni studiosi hanno supposto che mediante questi doni Eugenio volesse finanziare seppur non ufficialmente le cerimonie pagane, ma Cameron contesta questa interpretazione, affermando che con quei doni Eugenio intendesse solo dare il contentino ai senatori pagani per farseli moderatamente amici nonostante avesse negato le loro richieste. Cameron si spinge oltre accusando Ambrogio di aver mentito quando nella lettera giustificava la propria partenza con la questione dei doni ai senatori pagani. Il fatto era questo: Ambrogio aveva già incontrato Massimo a Milano e ciò aveva contrariato Teodosio, per cui il vescovo di Milano voleva semplicemente evitare di commettere due volte lo stesso errore. Incontrare l’usurpatore Eugenio a Milano lo avrebbe compromesso agli occhi di Teodosio. Inoltre la lettera pervenutaci probabilmente non è la versione originale effettivamente inviata a Eugenio ma sarebbe stata riscritta dallo stesso vescovo meneghino dopo la vittoria al Frigido in maniera tale, che una volta pubblicata, essa avrebbe dimostrato a Teodosio che Ambrogio aveva completamente preso le distanze dall’usurpatore. Questa è la tesi di Cameron.

Sempre Paolino riporta l’aneddoto secondo cui prima di partire per il Frigido Eugenio avrebbe minacciato di ridurre a stalla la basilica di Milano e di mandare sotto le armi i chierici. Tuttavia questo aneddoto per il Cameron non prova il fatto che Eugenio e Arbogaste fossero pagani in quanto minacce di questo tipo sono state pronunciate in epoche diverse da personalità potenti di fede cristiana.

PREPARATIVI

Nel frattempo entrambi gli schieramenti si prepararono per l’imminente scontro. Secondo Gregorio di Tours, Eugenio e Arbogaste si recarono sulla frontiera del Reno con un possente esercito, sia per dissuadere i Barbari al di là del fiume dall’invadere l’impero, sia per rinnovare gli antichi trattati di alleanza con esse e dunque sollecitarle a inviare guerrieri mercenari in supporto dell’usurpatore. In questo modo l’armata di Eugenio fu rinforzata da un non esiguo numero di guerrieri mercenari franchi e alemanni.

Nel frattempo anche Teodosio cominciò i preparativi, cercando di assicurarsi l’appoggio militare dei foederati goti insediati all’interno dell’Impero nel 382. Secondo Eunapio (frammento 60 Muller):

Ne’ primi anni del regno di Teodosio, scacciata la scitica nazione dalle sue sedi per le armi degli Unni, i capi delle tribù più distinte per nascita e dignità, si rifuggirono presso i Romani; ed avendoli quivi l’imperatore innalzati a grandi onori, poiché si videro ormai abbastanza forti, incominciarono a contendere fra di loro; imperocché altri erano contenti dell’attuale prosperità, ed altri per lo contrario opinavano che mantener si dovesse il giuramento fattosi scambievolmente nella loro patria, né violare in alcun modo que’ patti, che erano però iniquissimi ed oltre misura crudeli; e che conveniva preparare ogni trama contro i Romani, e lor nuocere con ogni artifizio ed inganno, ancorché fossero da essi colmati di benefizi, fintantoché pervenissero ad impadronirsi di tutto lo Stato. Eranvi adunque tra loro due opposti partiti, l’uno equo ed onesto, come favorevole ai Romani, e l’altro totalmente contrario; ma amendue tenevano occulti i loro disegni, mentre dall’altro canto non cessava l’ imperatore di onorarli, ammettendoli alla sua mensa e permettendo loro libero l’accesso alla reggia.

Zosimo e la sua fonte, Eunapio, narrano che nel 392, nel corso di uno di questi banchetti, Eriulfo (il capo della fazione antiromana dei Goti) ubriacatosi svelò le sue intenzioni proditorie, e allora il goto Fravitta (il capo della fazione filoromana) lo uccise. I seguaci di Eriulfo tentarono di vendicare l’uccisione del loro capo ma furono fermati dalle guardie del corpo dell’Imperatore che impedirono loro di nuocere a Fravitta. Fravitta, goto di fede pagana, servì fedelmente l’Impero romano fino alla fine.

Almeno parte dei Foederati Goti si era tuttavia rivoltata, guidati da Alarico. Il generale romano (di origine vandalica) Stilicone riuscì tuttavia ad accerchiarli, anche se, per ordine dell’Imperatore (consigliato dal prefetto del pretorio Rufino), li risparmiò firmando con essi un nuovo trattato di alleanza che li obbligava a partecipare alla campagna militare che l’Imperatore Teodosio stava allestendo contro l’usurpatore Eugenio. Teodosio riuscì ad assicurarsi l’appoggio anche di guerrieri mercenari unni e alani.

L’esercito regolare romano fu affidato ai generali Timasio e Stilicone. I Foederati barbari, pur rimanendo sotto il comando dei loro capi tribali, furono posti sotto la supervisione di ufficiali romani di origine barbarica, cioè l’alano Saul,  il goto Gainas e l’iberico (l’Iberia è una regione del Caucaso limitrofa all’Armenia) Bacurio.

Ultimati i preparativi, Teodosio affidò il governo dell’Oriente romano al figlio Arcadio (associato al trono fin dal 383) sotto la reggenza del prefetto del pretorio d’Oriente Rufino e partì da Costantinopoli con l’esercito nel maggio 394.

LA BATTAGLIA DEL FRIGIDO

Dopo essere avanzato per la Dalmazia e per la Pannonia senza trovare opposizione, il 5-6 settembre 394 l’armata di Teodosio si scontrò con l’esercito di Eugenio nei pressi del fiume Frigido (odierno fiume Vipacco), nei pressi dell’odierno comune sloveno di Vipacco.

Eugenio e Arbogaste avevano disposto il loro esercito in pianura e avevano inviato alcuni distaccamenti, sotto il comando del comes Arbizione, nascosti tra i recessi delle Alpi Giulie in modo che potessero sbarrare la strada all’esercito di Teodosio sulla via del ritorno, nel caso Teodosio avesse stabilito la ritirata.

L’avanguardia dell’esercito di Teodosio cominciò lo scontro con la fanteria dell’esercito di Eugenio. Le prime fasi della battaglia furono favorevoli all’esercito di Eugenio. I Foederati Goti, schierati in prima linea da Teodosio, subirono molte perdite perdendo ben diecimila dei loro guerrieri. Per Orosio “la loro perdita era certamente un guadagno e la loro sconfitta una vittoria”. Tuttavia l’intervento del magister militum Bacurio con le sue truppe in sostegno dei Foederati Goti permise di limitare i danni, anche se alla fine Bacurio ci rimise la vita. Zosimo narra che nel corso della battaglia ci sarebbe stata un’eclissi di sole che avrebbe fatto sì che si combattè nell’oscurità. Tuttavia i dati astronomici sconfessano Zosimo dato che non vi fu alcuna eclissi di sole in quel periodo. Cameron nota però che gli storici greci antichi nei resoconti delle battaglie spesso trasformavano delle forti tempeste in eclissi, al fine di aumentarne la drammaticità, concludendo che  l’eclissi di Zosimo corrisponderebbe in realtà alla bora degli autori cristiani. Secondo gli autori cristiani il cristiano Teodosio avrebbe vinto i pagani condotti da Eugenio e Arbogaste grazie all’intervento provvidenziale divino della bora. Per Agostino da Ippona (De civitate Dei, V, 26) infatti:

I soldati presenti mi hanno riferito che venivano strappati loro di mano i giavellotti, perché un vento impetuoso soffiava dalle schiere di Teodosio contro le schiere avverse e non solo portava via con violenza tutti i dardi che erano scagliati contro di loro ma addirittura faceva tornare indietro contro i nemici le loro stesse frecce. Per questo il poeta Claudiano, per quanto contrario al cristianesimo, ha cantato nel panegirico per lui: O prediletto di Dio, per cui Eolo fa uscire dagli antri un ciclone in armi, per cui combatte l’atmosfera e i venti si adunano come alleati per le azioni militari.

Mentre l'”eclissi” di Zosimo (che in realtà era la bora) non fu decisiva per la vittoria di Teodosio, per gli autori cristiani la bora fu decisiva. Cameron mette comunque in dubbio l’effettivo intervento della bora, notando che la fonte più antica che menziona l’intervento della bora, ovvero il sermone sul salmo 36 di Ambrogio, asserisce che essa intervenne prima della battaglia demoralizzando gli avversari di Teodosio prima di ogni combattimento effettivo, non durante lo scontro. Secondo Cameron, il poeta di corte Claudiano, essendogli piaciuta l’idea della bora, nel suo panegirico spostò arbitrariamente l’intervento della bora nel bel mezzo della battaglia. Gli autori cristiani che lessero Claudiano diffusero l’idea che Teodosio avrebbe vinto la battaglia grazie alla bora, perché essa ben si adattava alla nozione che la battaglia sarebbe stata combattuta tra Cristiani e Pagani.

Secondo invece Zosimo, l’eclissi-bora non fu affatto decisiva e la prima giornata di battaglia si concluse in maniera favorevole per Eugenio. Teodosio, circondato dal nemico e conscio che ogni via di fuga gli era preclusa dalle truppe nemiche che occupavano le alture alle sue spalle, si sarebbe prostrato al suolo e avrebbe pregato il Signore affinché intervenisse il suo soccorso; subito dopo, gli ufficiali delle truppe di Eugenio stazionate in imboscata sulle alture gli inviarono messaggeri comunicandogli che intendevano defezionare in suo favore, offrendogli i loro servigi come alleati, a patto che avesse loro assegnato posti onorevoli nel suo esercito; l’Imperatore, allora, non disponendo né di carta né di inchiostro, prese alcune tavolette, e su di esse scrisse i ruoli di comando nell’esercito che avrebbe loro conferito nel caso avessero adempiuto al loro proposito di passare dalla parte dell’Imperatore legittimo; sotto queste condizioni, essi passarono dalla parte di Teodosio.

Secondo Zosimo, al termine del primo giorno, Eugenio, eccessivamente confidente, concesse ai soldati il riposo, esponendosi così al rischio di un attacco a sorpresa all’alba. E secondo Zosimo fu effettivamente questo che avvenne. L’esercito di Teodosio avrebbe attaccato a sorpresa all’alba uccidendo i soldati nemici mentre stavano ancora dormendo e vincendo così in maniera ingloriosa la battaglia. Diversi storici hanno screditato la versione di Zosimo facendo notare che era pagano e ostile agli imperatori cristiani, come Teodosio, di cui aveva tutto l’interesse di sminuirne la vittoria.

Che Teodosio avesse vinto la battaglia o grazie alla bora o grazie a un proditorio attacco a sorpresa all’alba mentre i soldati nemici stavano ancora dormendo, comunque, Teodosio procedette alla tenda di Eugenio, catturandolo e ordinando la sua decapitazione. Arbogaste riuscì a fuggire sulle Alpi ma, braccato dalle truppe di Teodosio e non essendoci altra via di fuga, preferì il suicidio alla cattura.

Ambrogio intercedette presso Teodosio nei confronti di tutti coloro che, avendo appoggiato l’usurpatore, si erano rifugiati in Chiesa timorosi della vendetta dell’Imperatore legittimo, prima tramite una lettera e infine recandosi personalmente ad Aquileia per conferire con lui. Teodosio fu clemente e concesse loro la grazia. Secondo Agostino da Ippona:

Dopo la vittoria, ottenuta come aveva creduto e previsto, fece abbattere gli idoli di Giove che non saprei con quali riti erano stati intenzionalmente sacralizzati alla sua sconfitta e collocati sulle Alpi e con gioviale munificenza ne donò i fulmini, dato che erano d’oro, agli inviati i quali per scherzo, giustificato d’altronde dal lieto evento, dicevano che desideravano essere fulminati da essi.

Cameron mette in dubbio questa notizia.

CONSEGUENZE

Dopo la vittoria Teodosio congedò i Foederati Goti rispedendoli nelle loro terre di insediamento in Tracia. Tuttavia, subito dopo la vittoria, si ammalò gravemente. Sentendo la propria fine vicina mandò ordini affinché suo figlio Onorio, che in quel momento si trovava a Costantinopoli, lo raggiungesse in Italia. Teodosio si spense a Milano il 17 gennaio 395. Gli succedettero i figli Arcadio, a cui fu affidato il governo dell’Oriente, e Onorio, a cui fu affidato il governo dell’Occidente.