La guerra vandalica

LA CAUSA PROSSIMA DEL CONFLITTO

Le conquiste di Giustiniano.
L’Impero di Giustiniano nel 565 confrontato con l’Impero romano alla fine del IV secolo.

Fin dal principio la più grande ambizione dell’impero romano era quella di sottomettere sotto il suo giogo l’intera ecumene, ma ben presto questa ambizione subì grandi contraccolpi: le ultime grandi conquiste furono portate avanti da Traiano, e a partire dal terzo secolo l’impero perse tutti i territori al di là del Danubio e del Reno. Nonostante ciò l’Impero ancora a fine IV secolo controllava tutti i territori europei al di qua del Danubio e del Reno, gli stessi confini fissati da Augusto. Nel corso del V secolo, tuttavia, l’intera parte occidentale andò perduta, sottomessa dai Barbari, e la stessa Italia oramai era controllata soltanto indirettamente dall’Imperatore romano di Costantinopoli, governata in suo nome da re barbari, dapprima Odoacre e poi i re ostrogoti, Teodorico e i suoi successori. Giustiniano tentò di realizzare la difficile impresa di riconquistare la parte occidentale, ma ci riuscì soltanto in parte e al costo di pesanti devastazioni, nonché dello sguarnimento della frontiera danubiana e orientale, del quale ne approfittarono Persiani e Slavi.

Il suo primo obiettivo fu la riconquista dell’Africa, caduta sotto il giogo dei Vandali. Il casus belli gli fu fornito da un colpo di stato che portò alla deposizione del re vandalo Ilderico a tutto vantaggio del cugino Gelimero, che gli succedette. Ilderico era in rapporti amichevoli con Giustiniano, e cessò ogni persecuzione ai danni dei Cattolici (i Vandali erano ariani). La politica di Ilderico incontrò l’opposizione di una frangia della corte vandala che tramò un colpo di stato: nel 530 Gelimero detronizzò il cugino e lo gettò in prigione, impadronendosi del trono. Giustiniano per tutta risposta scrisse una lettera di protesta a Gelimero chiedendo la restituzione del trono al re legittimo, Ilderico, ma senza successo. Giustiniano allora inviò un ultimatum, intimando a Gelimero di inviare Ilderico a Costantinopoli, pena la guerra. La risposta di Gelimero fu che l’imperatore avrebbe dovuto farsi i fatti suoi, dato che non gradiva la sua intromissione in questioni interne al regno dei Vandali. Giustiniano ebbe così il pretesto per tentare la riconquista dell’Africa ai Vandali, e non appena fu conclusa la pace con la Persia nel 532, i preparativi per la spedizione furono portati avanti. Per Giustiniano questa non era una guerra di aggressione quanto piuttosto la liberazione di province appartenenti di diritto all’Impero da tiranni eretici e persecutori dei cattolici. La Chiesa appoggiò la spedizione mossa dal desiderio di liberare i cattolici africani dalle persecuzioni degli Ariani Vandali. Molti dei consiglieri e dei ministri di Giustiniano, tuttavia, tentarono di dissuadere l’imperatore dal tentare la riconquista dell’Africa, rammentandogli l’esito disastroso del precedente tentativo del 468. I Vandali, del resto, possedevano ancora una flotta potente, che avrebbe potuto ostacolare con successo lo sbarco dell’esercito romano-orientale in Africa. Il prefetto del pretorio d’Oriente Giovanni di Cappadocia tentò invano di dissuadere l’imperatore dall’impresa. Giustiniano, credendo nella giustezza della sua causa e nel favore divino, affidò la spedizione in Africa al generale Belisario, con pieni poteri (gli attribuì la carica di “strategos autokrator”, traducibile grossomodo con “generalissimo”), confidando nel suo valore e nel suo talento.

LA PARTENZA DELLA SPEDIZIONE

La guerra vandalica del 533-534: movimenti degli eserciti.

L’esercito partito per l’Africa comprendeva non più di 16.000 soldati, tra cui 10.000 fanti (in parte comitatensi, in parte foederati), 5.000 cavalieri, di cui 2.000 bucellarii di Belisario (i bucellarii erano una sorta di milizia privata al servizio dei generali), e 1.000 arcieri a cavallo barbari, di cui 600 unni e 400 eruli. L’armata fu trasportata in Africa su 500 vascelli. I Vandali, rispetto all’epoca di Genserico, si erano indeboliti di molto, ma il seguito della spedizione dimostrò che avrebbero potuto vincere se solo il loro re Gelimero non avesse preso degli errori di valutazione fatali. L’armata vandalica era costituita soprattutto da cavalieri.

Mentre la spedizione imperiale era in partenza, due avvenimenti favorirono la causa imperiale: la rivolta dei provinciali della Tripolitania e quella del governatore vandalo della Sardegna. Gelimero non tentò di reprimere la rivolta in Tripolitania, ma inviò 5.000 soldati e 120 navi per recuperare la Sardegna. Con l’intera flotta vandala intenta nel recupero della Sardegna, l’esercito romano potè sbarcare in Africa senza problemi. L’errore di valutazione di Gelimero gli fu fatale. Piuttosto che impiegare l’intera flotta nella riconquista di una provincia distante e di secondaria importanza quale la Sardegna, l’avrebbe potuta usare per ostacolare lo sbarco dell’esercito di Belisario, e inoltre la Tripolitania era una provincia strategicamente più importante della Sardegna. Questo primo errore di valutazione di Gelimero cominciò a indirizzare la guerra in favore di Belisario.

La flotta imperiale salpò da Costantinopoli nel giugno del 533. Il patriarca di Costantinopoli pregò per il successo della spedizione, e Belisario fu accompagnato dalla moglie Antonina e dallo storico Procopio, testimone oculare del conflitto. Il viaggio fu caratterizzato da numerose soste, e l’esercito sbarcò in Africa, a Caputvada (Ras Kapudia), soltanto a settembre. Prima di sbarcare Belisario tenne un concilio di guerra e i suoi sottoposti proposero di sbarcare direttamente a Cartagine, ma Belisario si oppose, temendo di imbattersi nella flotta nemica. Una volta sbarcati a Caputvada, l’esercito imperiale marciò lungo la costa, seguiti dalla flotta, in direzione di Cartagine al ritmo di oltre undici miglia al giorno. Cartagine era a quattordici giorni di marcia. Fur inviato in avanguardia uno squadrone di 300 cavalieri, sotto il comando di Giovanni l’Armeno, e a un altro reggimento di 600 Unni fu ordinato di marciare alla sinistra della strada, per proteggere l’esercito da un attacco ai fianchi. La prima città in cui si imbatterono fu quella di Syllectum (Selketa), che fu presa senza difficoltà. Belisario tentò di diffondere tra i nobili vandali una lettera loro indirizzata da Giustiniano in cui veniva affermato che non veniva mossa guerra ai Vandali, né i Romani stavano violando il trattato stipulato con Genserico; i Romani intendevano soltanto rovesciare il tiranno Gelimero, che si era impadronito illegalmente del trono sottraendolo al legittimo sovrano Ilderico; la lettera esortava i nobili vandali a unirsi all’esercito romano affinché l’Africa fosse liberata dall’oppressione del tiranno Gelimero. Tuttavia il nobile vandalo disertore a cui fu mostrata la lettera non osò renderla pubblica ma la mostrò in segreto soltanto ai suoi amici, per cui questo espediente non ebbe effetto.

Nel corso della marcia i nativi romani dell’Africa accolsero come liberatori l’esercito imperiale, rifornendolo di provviste, e Belisario si stette ben attento a impedire ai suoi soldati di alienarsi il favore della popolazione con il saccheggio e altre violenze o sopprusi. Il compito non era semplice, perché il suo esercito era costituito in buona parte da potenzialmente indisciplinate truppe alleate barbare, ma per il momento Belisario riuscì a far rispettare la disciplina nei propri ranghi.

LA BATTAGLIA DI AD DECIMUM

Il piano di Gelimero di accerchiare i Romani a Ad Decimum.

Passando per Thapsus, Leptis e Hadrumetum, l’esercito romano raggiunse Grasse, dove si trovava una villa e un giardino, pieno di frutti, di proprietà dei re vandali. I soldati si nutrirono di quei frutti. Nel corso della notte alcuni esploratori romani si imbatterono in quelli nemici e Belisario apprese da loro che il nemico non era distante. In effetti Gelimero era stato già informato dello sbarco, e come prima mossa inviò il fratello Ammata a Cartagine con l’ordine di uccidere Ilderico e gli altri prigionieri, e di raccogliere tutte le truppe di stanza nella città in vista di una futura imboscata all’esercito imperiale. Il piano di Gelimero consisteva in un’imboscata a circa dieci miglia da Cartagine.

Nel frattempo, durante il quarto giorno di marcia, il 13 settembre 533, l’esercito romano raggiunse Tunisi. Belisario, non intendendo rischiare uno scontro con l’intera armata, decise di collocare la propria fanteria in un accampamento fortificato, lasciandola indietro, e di continuare l’avanzata con la cavalleria. Giovanni l’armeno e le sue truppe erano in avanguardia, mentre gli Unni marciavano a sinistra dell’armata principale, onde prevenire un attacco ai fianchi. Belisario non aveva idea dell’eccellente piano strategico escogitato da Gelimero. Peccato che fallì lo stesso.

La prima fase della Battaglia di Ad Decimum.

Gelimero intendeva tendere un’imboscata all’esercito di Belisario nei pressi di Ad Decimum, a dieci miglia da Cartagine. L’esercito di Ammata avrebbe dovuto attaccare i Romani alla gola, l’armata di Gibamundo (comprendente 2.000 uomini) li avrebbe attaccati da sinistra, mentre le truppe di Gelimero li avrebbero attaccati alle spalle. Tuttavia Ammata commise il fatale errore di comparire a Ad Decimum con alcune ore di anticipo, probabilmente per perlustrare il suolo, e così si imbatté nelle truppe di Giovanni. Nello scontro conseguente Ammata perse la vita, e i suoi seguaci fuggirono fino a Cartagine. Nel frattempo gli Unni si imbatterono nelle truppe di Gibamundo avendo decisamente la meglio nello scontro conseguente.

La seconda fase della Battaglia di Ad Decimum.

Nel frattempo Belisario, ancora ignaro di quanto stava accadendo, inviò in avanguardia i Foederati. Questi, arrivati ad Ad Decimum, si imbatterono nei corpi dei loro commilitoni e quelli di Ammata e di alcuni Vandali. I nativi del posto li informarono di quanto era appena accaduto, e decisero di salire sui colli in perlustrazione. Videro l’esercito di Gelimero in avvicinamento e inviarono, di conseguenza, un messaggio a Belisario dicendogli di sbrigarsi. Ben presto arrivò l’avanguardia dell’armata di Gelimero, che si scontrò con i Foederati di Belisario per il possesso di una collina, riuscendo infine a metterli in fuga. Gelimero sembrava avere ormai la vittoria assicurata. Secondo Procopio di Cesarea:

“Se solo Gelimero si fosse fiondato immediatamente al loro inseguimento dubito che persino Belisario sarebbe riuscito a tenergli testa, e la nostra causa sarebbe andata in rovina, così immensa appariva la moltitudine dei Vandali e così grande la paura che essi ispiravano; o, se si fosse diretto diritto a Cartagine, avrebbe massacrato agevolmente tutti gli uomini di Giovanni, e avrebbe preservato la città e i suoi tesori, e si sarebbe impadronito delle nostre navi che si stavano avvicinando, privandoci non solo della vittoria ma di ogni mezzo di fuga.”

La terza fase della Battaglia di Ad Decimum.

Tuttavia, quando Gelimero raggiunse Ad Decimum e si imbatté nel corpo di suo fratello, perse la lucidità e non sfruttò l’opportunità favorevole che gli si era presentata, pensando piuttosto a rendere gli onori funebri al fratello. Nel frattempo Belisario aveva appreso dai fuggitivi quanto era successo, e marciò rapidamente verso Ad Decimum, trovando i Barbari in disordine completo. L’esercito di Gelimero non attese l’attacco ma fuggì in completo disordine, non verso Cartagine ma in direzione della Numidia, perdendo molti uomini. Belisario vinse così la battaglia, ma solo grazie alla perdita di lucidità da parte di Gelimero, turbato dalla morte del fratello Ammata.

L’esercito passò la notte ad Ad Decimum, il giorno successivo Antonina, la moglie di Belisario, arrivò con la fanteria e l’intera armata marciò a Cartagine, arrivando nel corso della notte. Gli abitanti aprirono le porte per dare il benvenuto all’esercito di Belisario, considerandolo un liberatore. Belisario tuttavia decise prudentemente di non entrare in città in quella notte, temendo in un’imboscata oppure che la sua armata si desse al saccheggio della città. Fu solo il giorno successivo, il 15 settembre 533, che l’esercito entrò in città, in formazione di battaglia. Belisario si insediò sul trono del re, e consumò lo stesso pranzo che Gelimero aveva chiesto che gli fosse preparato per il proprio ritorno da vincitore. La flotta imperiale entrò in città, e Belisario provvedette immediatamente a riparare le mura della città, in modo da renderle in grado di resistere a un eventuale assedio di Gelimero. Nel frattempo le tribù maure della Numidia e della Byzacena, non appena informate dell’esito della battaglia, si affrettarono a inviare ambascerie amichevoli a Belisario.

LA BATTAGLIA DI TRICAMERON

Nel frattempo Gelimero e la sua armata erano fuggiti nella pianura di Bulla Regia. Il re vandalo comunicò la cattiva notizia al fratello Tzazone, che aveva appena represso la rivolta in Sardegna, ordinandogli di tornare in Africa con le proprie truppe. Gelimero, rinforzato dalle truppe di suo fratello, marciò verso Cartagine. Tagliò l’acquedotto e tentò di bloccare l’introduzione di provviste nella città, sperando di riuscire a ottenerne la resa per fame.

Intorno alla metà di dicembre Belisario decise di rompere gli indugi e di scontrarsi in battaglia con l’esercito nemico. Gelimero aveva collocato il proprio accampamento a Tricameron, a circa dodici miglia ad occidente di Cartagine. Belisario lasciò indietro la fanteria e attaccò i Vandali con la cavalleria. Dopo cariche ripetute i cavalieri corazzati romani riuscirono a rompere le linee nemiche, vincendo la battaglia. Gelimero fuggì con un modesto seguito in Numidia, mentre gli altri soldati cercarono riparo nelle chiese vicine. Non ci fu inseguimento. Le truppe romane si diedero al saccheggio dell’accampamento vandalo, e fu vano ogni tentativo di Belisario di ricondurle all’ordine. Belisario passò una notte in preda all’ansia, racconta Procopio. Temeva che i Vandali potessero accorgersi del disordine nell’esercito imperiale e li avrebbero attaccati; e, secondo Procopio, “ritengo che, se fosse successa una cosa del genere, nessuno dei Romani sarebbe riuscito a fuggire per godersi il bottino”. Per fortuna di Belisario i Vandali erano già fuggiti molto lontano e non riuscirono a sfruttare nemmeno questa opportunità. Belisario aveva vinto un’altra battaglia ma ancora una volta per gli errori di re Gelimero, che, se non fosse fuggito a gambe levate, avrebbe potuto annientare l’esercito romano mentre era intento a predare l’accampamento vandalo. Verrebbe così il dubbio di cosa sarebbe potuto accadere se i Vandali fossero stati condotti da un comandante più capace di Gelimero. In tal caso Belisario avrebbe potuto benissimo perdere. In effetti, Procopio non esita a considerare la vittoria di Belisario sui Vandali non come il risultato di una superiore abilità strategica bensì come un paradosso della sorte.

Dopo la vittoria Belisario promise ai Vandali rifugiatesi nelle chiesa che sarebbero stati ben trattati e inviati a Costantinopoli in primavera. Belisario inviò inoltre la flotta imperiale in Sardegna, Corsica, Baleari, nonché nelle fortezze di Septem in Tingitana e di Caesarea in Mauritania, per prendere possesso di quelle province e di quelle fortezze. I Romani si impadronirono inoltre dei tesori dei Vandali custoditi a Ippona. Nel frattempo Gelimero aveva trovato riparo sul Monte Papua, dove visse con il suo modesto seguito per tre mesi, assediato dalle truppe imperiali condotte dall’erulo Fara, che avevano circondato il monte. Fara gli inviò un messaggio amichevole consigliandogli la resa. La risposta di Gelimero fu di chiedergli la cortesia di inviargli una pagnotta, una spugna e una lira: una pagnotta perché non mangiava pane da quando si era rifugiato su quel monte, una spugna perché voleva asciugare le proprie lacrime, e una lira perché voleva cantare una canzone che aveva composto sulle sue tribolazioni. La curiosa richiesta fu prontamente esaudita. Nel marzo 534 infine il re vandalo, preso dalla fame, si arrese e fu condotto a Costantinopoli, dove assistette al trionfo di Belisario, onore straordinario per un privato cittadino. Davanti all’imperatore sfilarono il re prigioniero Gelimero insieme al fiore dei guerrieri Vandali, nonché un tesoro immenso. Quando Gelimero vide l’Imperatore in tutto il suo splendore, pare che affermò “Vanita delle vanità, tutto è vanità”. L’Imperatore trattò bene Gelimero, facendogli dono di una tenuta in Galazia, e gli promise il titolo di patrizio in cambio della conversione al cattolicesimo; Gelimero tuttavia rifiutò di abiurare l’arianesimo e si accontentò della tenuta in Galazia.

LA PACIFICAZIONE DELL’AFRICA

Una volta conquistata l’Africa, Giustiniano tentò di ristabilire per quanto possibile lo stato preesistente alla conquista vandalica. Ordinò per prima cosa la persecuzione degli Ariani e l’esclusione dei Vandali dalle cariche pubbliche. Le tenute possedute dai Vandali furono restituite per quanto possibile ai discendenti dei proprietari originari, misura che portò alla falsificazione di documenti e incessanti cause legali. Questa politica portò a lungo termine alla scomparsa della popolazione vandalica in Africa.

Nell’aprile 534 una legge di Giustiniano stabilì l’istituzione della prefettura del pretorio d’Africa, amministrata in ambito civile da un prefetto del pretorio avente sede a Cartagine, e suddivisa in sette province: Proconsolare, Byzacena, Tripolitania, la Numidia, le due Mauritanie, e la Sardegna. L’esercito mobile fu affidato a un magister militum per Africam, mentre furono creati quattro distretti di frontiera, difesi da limitanei sotto il comando di un dux.

Tuttavia le province africane furono turbate dalle rivolte delle tribù maure (berbere) e da ammutinamenti dell’esercito. Subito dopo la partenza di Belisario per Costantinopoli si rivoltarono i Mauri, che cominciarono a devastare le province. Giustiniano per tutta risposta inviò contro di loro il generale Salomone, che ricevette sia il titolo di magister militum Africae sia quello di prefetto del pretorio d’Africa, unificando dunque nelle sue mani autorità civile e militare. Il fatto che Salomone fosse stato nominato allo stesso tempo prefetto del pretorio e magister militum si discostava radicalmente dal principio stabilito da Diocleziano della completa separazione tra autorità civile e militare. La necessità di pacificare le province africane dalle incursioni dei Mauri rendeva necessaria questa unificazione. Al suo arrivo in Africa Salomone riuscì ad avere la meglio sulle tribù di Berberi (Mauri) che stavano devastando le province di Byzacena e di Numidia, anche se non in maniera decisiva. All’inizio del 535 Salomone sconfisse i Mauri nella battaglia del Monte Burgaon, anche se una successiva spedizione contro i Mauri della Numidia non ebbe successo. Salomone in compenso fortificò la frontiera erigendo numerose fortezze lungo le strade principali della Numidia e della Byzacena e nel 536 l’Africa poteva dirsi pacificata dalle incursioni dei Mauri (che tuttavia rimanevano in possesso di gran parte delle Mauritanie).

Tuttavia nella Pasqua del 536 l’esercito africano si ammutinò, a causa di ritardi nella paga ma anche per altri motivi. Alcuni dei Foederati Ariani si sentivano perseguitati dal governo imperiale, mentre i soldati che avevano sposato delle donne vandale pretesero che venissero loro assegnate quelle terre appartenute ai mariti o ai padri delle loro nuove mogli, e che erano state confiscate dallo Stato. Nella Pasqua del 536 scoppiò una grave rivolta e Salomone fu costretto a fuggire da Cartagine insieme al suo consigliere, lo storico Procopio di Cesarea, imbarcandosi per la Sicilia al fine di implorare l’aiuto di Belisario, che aveva appena completato la conquista della Sicilia ai danni degli Ostrogoti. Belisario salpò immediatamente per Cartagine, e riuscì a liberarla dall’assedio degli ammutinati, che levarono l’assedio fuggendo in Numidia non appena appresero dell’arrivo del grande Belisario, il conquistatore dei Vandali. Belisario conseguì alcuni limitati successi sui ribelli, tuttavia non decisivi. I ribelli erano fuggiti, ma non si erano arresi, e inoltre Belisario non poteva rimanere in Africa perché gli era giunta la notizia di una rivolta scoppiata in Sicilia. Tornò dunque in Sicilia mentre la rivolta si allargò con i due terzi dell’esercito ammutinatisi. Giustiniano inviò suo cugino Germano con la carica di magister militum Africae con una armata per sconfiggere i ribelli. Per prima cosa Germano fece sapere agli ammutinati che non era venuto per punirli ma per esaminare ed eventualmente rettificare le loro rimostranze. Questo annuncio spinse molti degli ammutinati a tornare obbedienti e a recarsi a Cartagine. Quando si diffuse la notizia che erano stati ben trattati e che avevano ricevuto gli arretrati della paga persino per le settimane in cui erano stati in rivolta, i ribelli abbandonarono in massa la causa del loro capo Stotzas, il quale, con i pochi soldati rimastegli fedeli, avanzò su Cartagine, venendo pero sconfitto in battaglia a Scalas Veteres nella primavera del 537, battaglia che segnò la sconfitta definitiva dei ribelli. Germano rimase in Africa per due anni riuscendo a ristabilire la disciplina nell’esercito prima di essere sostituito nel 539 da Salomone.

Salomone allontanò i soldati dell’esercito sospettati di tramare qualcosa, inviandoli in Italia o in Oriente, e cacciò dall’Africa quelle donne vandale che avevano istigato i loro mariti all’ammutinamento. Dopo alcune campagne vittoriose contro i Mauri Aurasi, pacificò e consolidò il controllo romano sulla Numidia e sulla Mauritania Sitifensis, e rafforzò le fortificazioni delle città costruendo alche centinaia di nuove fortezze. L’Africa godette così di un breve periodo di pace, fino almeno al 543.

Nel 543 i Mauri, a causa di un grave affronto loro fatto da Sergio, nipote di Salomone e dux Tripolitaniae, insorsero di nuovo. Nella battaglia di Cillium, combattuta nel 544, i Mauri sconfissero i Romani, e lo stesso Salomone morì in quella battaglia. I Mauri devastarono le province africane mentre i Visigoti ne approfittarono per tentare invano di espugnare la fortezza di Septem. Come se non bastasse Giustiniano commise l’errore di assumere Sergio come successore di Salomone. Quando Sergio dimostrò la sua incapacità, Giustiniano inviò in Africa un secondo comandante incompetente, il patrizio Areobindo, stabilendo che Sergio avrebbe comandato l’armata della Numidia mentre Areobindo quello della Byzacena. Tuttavia i due generali non andavano d’accordo, aggravando ulteriormente la situazione. Nel 545 le truppe a difesa della Byzacena subirono una grave sconfitta a Thacia. Dopo questo disastro finalmente Sergio fu destituito e Areobindo ottenne il comando supremo delle truppe africane. Tuttavia solo alcuni mesi dopo cadde vittima di una cospirazione ordita da Guntarith, dux Numidiae, che tramava di usurpare la porpora e rendere l’Africa indipendente da Costantinopoli. Nel marzo del 546 Guntarith riuscì a impadronirsi del palazzo di Cartagine, facendo assassinare Areobindo. Nel maggio dello stesso anno, tuttavia, Guntarith fu a sua volta assassinato durante un banchetto da quella frangia dell’esercito rimasta fedele a Giustiniano; questa fazione era capeggiata dall’ufficiale armeno Artabane. Giustiniano nominò Artabane magister militum Africae e gli offrì la mano di sua nipote Preiecta. Ma Artabane era già sposato e Teodora rifiutò di concedergli il divorzio. Artabane seguì Preiecta a Costantinopoli, e l’Imperatore tentò di consolarlo nominandolo magister militum praesentalis e comes foederatum.

Artabane fu sostituito da un abile generale, Giovanni Troglita. Non appena arrivato in Africa, nel 546, Giovanni diede immediatamente prova delle sue capacità, riuscendo finalmente a pacificare le province africane, usando sia le armi che la diplomazia. Le sue imprese furono cantate in un poema del poeta latino Corippo, nativo dell’Africa. Nel 547 Giovanni inflisse una decisiva sconfitta ai Mauri condotti da Antalas. Alcuni mesi dopo, i Mauri della Tripolitania insorsero sotto il comando di Carcasan, e sconfissero gli Imperiali in una battaglia nella pianura di Gallica. La notizia della sconfitta spinse il comandante mauro Antalas a rivoltarsi di nuovo e di unire le forze con Carcasan. Ma Giovanni Troglita riuscì a ottenere una vittoria decisiva sui Mauri nei pressi dei Campi di Catone, dove diciasette comandanti mauri caddero, e tra questi lo stesso Carcasan (inizio 548). Dopo questa vittoria l’Africa rimase pacificata per circa quattordici anni.

Solo nel 563 i Mauri insorsero di nuovo, in quanto il loro comandante Cutsina, recatosi a Cartagine per ricevere la consueta pensione annuale, fu proditoriamente assassinato per ordine del magister militum Africae Giovanni Rogatino. L’Imperatore Giustiniano fu costretto a inviare in Africa una nuova armata, sotto il comando del nipote Marciano, che riuscì, forse più con la diplomazia che con le armi, a ristabilire la pace.

La storia successiva dell’Africa romano-orientale, dal regno di Giustino II alla caduta di Cartagine in mano araba (698), sarà trattata solo successivamente.