Le cause del declino e della caduta dell’Impero romano d’Occidente

LE SPECULAZIONI DEI COEVI

I Vandali saccheggiano Roma nel 455.

Una sorprendente sequenza di eventi provocò il rapido declino e crollo dell’Impero romano d’Occidente dopo la morte di Teodosio il Grande. Le province erano state conquistate da barbari invasori e la stessa Italia era stata profanata dalla violenza germanica. La vista della stessa città di Roma colpita e insultata, costretta a scendere a ignominiosi patti con gli intrusi sul proprio territorio, non poteva non indurre gli uomini ad interrogarsi sulle cause di tali calamità. Certo, invasioni barbariche e guerre civili c’erano state anche in passato, ma da quando i Galli Senoni di Brenno si erano abbattuti su Roma quasi novecento anni prima, l’Urbe caput mundi non era mai stata violata e saccheggiata da un esercito straniero, e prima del 410 (anno del sacco di Alarico) sembrava inconcepibile che ciò potesse verificarsi prima o poi. In quell’epoca, inoltre, gli uomini erano inclini ad attribuire non a cause razionali ma alla volontà del cielo, all’ira di divinità o alle stelle (l’astrologia), le calamità pubbliche sconvolgenti o inaspettate.

I Visigoti di Alarico saccheggiano Roma (agosto 410).

I pagani non ebbero difficoltà a risolvere il problema usando il cristianesimo come capro espiatorio. Secondo il loro punto di vista personale, finché furono tenuti in onore gli dei sotto il cui favore Roma aveva conquistato l’intero bacino mediterraneo, finché le tradizioni dell’antica religione furono preservate, l’Impero romano era potente e invincibile. Ma a causa della diffusione del Cristianesimo, che era diventato la nuova religione di stato e l’unica religione lecita, i pagani cominciarono a essere perseguitati e discriminati,  i loro templi vennero distrutti e il culto delle divinità pagane divenne reato. Per effetto della sostituzione dei culti pagani con il Cristianesimo, Roma avrebbe perso la protezione delle divinità pagane, con il risultato che l’Impero fu inondato da una marea di selvaggi rapaci e Roma stessa fu profanata e posta a sacco. Per i Pagani, come Zosimo ad esempio, la decadenza dell’Impero era dovuta all’introduzione del Cristianesimo e all’abbandono degli antichi culti pagani.

Già nel terzo secolo i pagani avevano usato il cristianesimo come capro espiatorio, considerandolo responsabile di piaghe, siccità e guerre. Due teologi africani del III secolo ribatterono a tali accuse. Cipriano, vescovo di Cartagine, sostenne che i disastri del suo tempo erano segni dell’approssimarsi della fine del mondo. Arnobio di Sicca, mezzo secolo dopo, nei suoi “Sette libri contro le nazioni”, obiettò alle argomentazioni dei pagani mettendo in evidenza le calamità anche maggiori che avevano flagellato l’Impero prima della comparsa del cristianesimo.

All’inizio del V secolo teologi ed eruditi cristiani si sentirono in dovere di controbattere alle accuse dei Pagani, e si trovarono di fronte a delle difficoltà. Dovevano cercare di giustificare come fosse possibile che lo stato romano, nonostante il Cristianesimo fosse diventato religione di stato e gli eretici e i pagani fossero giustamente (secondo il punto di vista cristiano cattolico) perseguitati, dovesse patire tutta una serie di disastri contro dei Barbari che peraltro erano ariani e dunque eretici. Agostino da Ippona, Paolo Orosio e Salviano da Marsiglia affrontarono il problema e diedero la loro personale risposta.

Agostino da Ippona nel suo studio.

La prima opera dal punto di vista cronologico, e anche la migliore qualitativamente, fu la De civitate Dei di Agostino da Ippona. Agostino era rimasto profondamente colpito dal Sacco di Roma da parte di Alarico, e si sentì in dovere di trovare una spiegazione cristiana per tale calamità per controbattere gli attacchi dei Pagani che stavano usando il Cristianesimo come capro espiatorio per le calamità che stavano affliggendo Roma.

Lo scopo dell’opera può spiegare alcuni dei suoi difetti. Si tratta di uno dei maggiori sforzi della speculazione cristiana, ma l’esecuzione non è pari alla concezione, e la concezione di per sé non era originale. L’opera si compone di due sezioni distinte che avrebbero potuto benissimo formare due trattati indipendenti. La prima sezione (Libri I-X) è una polemica contro la religione pagana, in cui si mostra che il politeismo non è necessario per assicurare la felicità né in questo mondo né nell’altro. L’argomentazione più efficace è quello che era già stata usata da Arnobio: le miserie di cui soffriamo oggi non fanno eccezione al corso generale dell’esperienza, perché basta leggere la storia di Roma per trovarne di analoghe o peggiori. Lo scrittore insiste sul fatto che la gloria e la prosperità terrene non sono necessarie per la vera felicità. Queste cose furono concesse a Costantino il Grande, ma per provare che non erano incompatibili con la vita di un cristiano. D’altra parte, se il regno del cristiano Gioviano fu più breve di quello dell’apostata Giuliano, e se Graziano fu assassinato, queste erano indicazioni divine che la gloria e la lunga vita non sono la vera ricompensa della fede cristiana.

Ma la risposta di Agostino alle domande che affliggevano il mondo non si trova nella prima parte della sua opera. Si rese conto che una qualsiasi soluzione soddisfacente del problema doveva risiedere nella scoperta di un’armonia e di una connessione tra gli eventi della storia e il piano generale dell’universo. Agostino nella sua opera argomentò la sua tesi che esistesse un disegno, uno scopo, o un principio guida nel processo della storia, caratteristica che la rende un esempio di saggio di “filosofia della storia”. Agostino riteneva che la chiave di lettura della storia del genere umano si trovi nella convivenza fianco a fianco di due città o stati che sono radicalmente opposti l’uno all’altro nella loro natura, principi e fini, la Civitas Dei e la Civitas Terrena. In realtà questa concezione non era originale; Agostino l’ha derivata dal suo amico donatista Ticonio. Le origini di entrambi questi stati risalgono a un’epoca in cui l’uomo non esisteva ancora; la Città di Dio è stata fondata con la creazione degli angeli, l’altra con la ribellione degli angeli caduti. Dal peccato di Adamo la storia di ciascuna di queste città, “intrecciate e mutuamente mescolate” (perplexas quodam modo invicemque permixtas), ha fatto il suo corso. La stragrande maggioranza della razza umana sono stati e sono cittadini della città terrena, destinati prima o poi alla morte. Le minoranze che appartengono alla città celeste sono durante il loro soggiorno sulla terra solo stranieri o pellegrini (peregrini) nella città terrena. Fino alla conversione del primo Gentile al Cristianesimo i membri della Città di Dio appartenevano esclusivamente alla razza ebraica e ai suoi antenati patriarcali; e Agostino determina le principali divisioni della storia universale secondo le grandi epoche del racconto biblico: il diluvio, Abramo, Davide, la prigionia e la nascita di Cristo. Quest’ultimo evento segna l’inizio del sesto periodo, in cui ci troviamo vivere attualmente; e il sesto periodo è l’ultimo. Poiché i periodi della storia corrispondono ai giorni della Creazione, e poiché Dio si riposò nel settimo giorno, così il settimo periodo segnerà il trionfo della Città celeste e il riposo eterno dei suoi cittadini. Alla domanda su quanto durerà il sesto periodo, Agostino risponde che non lo sa. A questo proposito ci dice un fatto interessante. Secondo un oracolo pagano, la religione cristiana sarebbe scomparsa dal mondo al termine di un periodo di 365 anni. Secondo tale diceria, l’apostolo Pietro sarebbe riuscito con una stregoneria a imporre al mondo l’adorazione di Cristo per tutta la durata di questo periodo, ma al suo termine il Cristianesimo si sarebbe dissolto come un sogno. Agostino fa notare trionfante, e forse con un certo sollievo, che erano già trascorsi più di 365 anni dalla Crocifissione e il Cristianesimo esisteva ancora. Dopo aver completato la sua rassegna storica, dedica l’ultima parte della sua opera all’esposizione del fine verso il quale stanno viaggiando il mondo e la razza umana. Esamina la questione del Giudizio Universale, si dilunga sulla morte ardente che è il destino della Città terrena e termina con una discussione sulla beatitudine che attende i cittadini della Città di Dio.

Tra i pensatori del Medioevo l’influenza dell’opera di Agostino andò lontano e in profondità. Ma l’opera non è priva di difetti. Ad esempio l’argomento principale in sé, sebbene abbia uno schema architettonico definito, è deturpato dalla prolissità e dalle divagazioni. C’è almeno una parte che può attirare l’attenzione del lettore, cioè il Libro in cui Agostino, acerrimo sostenitore del materialismo teologico e della punizione vendicativa, impiega tutta la sua ingegnosità nel dimostrare che il fuoco dell’inferno è letteralmente fuoco, e non risparmia sforzi per eliminare la minima possibilità che la stragrande maggioranza dei suoi simili non sarà tormentata per l’eternità.

Agostino aveva prodotto un libro che trascendeva in importanza il suo scopo originale. Ma il suo scopo era insegnare al mondo ad avere una giusta visione delle disgrazie che stavano colpendo l’Impero e a metterle nella loro corretta prospettiva. Dice in effetti ai pagani: “Queste disgrazie non sono niente di eccezionale, sono semplicemente parte dell’eredità della vostra Città di peccato e di morte”. Ai cristiani disse: “Queste cose non vi riguardano veramente. I vostri interessi non sono colpiti dalle calamità di un paese in cui siete semplicemente stranieri”.

Agostino, consapevole della superficialità con cui aveva trattato la storia di Roma e ritenendo desiderabile uno sviluppo più completo della sua argomentazione storica in risposta ai pagani, chiese al suo amico Orosio, un prete spagnolo, di soddisfare questa necessità. Disse a Orosio: “Cerca negli annali del passato, raccogli tutte le calamità che registrano, guerre, pestilenze, carestie, terremoti, incendi e crimini, e scrivi una storia del mondo. Così la mia confutazione generale delle accuse dei miscredenti che imputano alla nostra religione le attuali disgrazie, che sostengono essere insolite, saranno ampiamente provati da una lunga serie di fatti”. Accogliendo la richiesta di Agostino, Orosio scrisse un’opera intitolata “Storie contro i Pagani”, che potrebbe essere dunque considerata come una sorta di supplemento alla “Città di Dio”. Forse merita, più di ogni altro libro, di essere descritto come il primo tentativo di una storia universale, ed ebbe un considerevole successo nel Medioevo, contribuendo alla diffusione dell’idea di quattro grandi monarchie, la babilonese, la cartaginese, la macedone e la romana, corrispondenti ai quattro punti cardinali.

Quindici o venti anni dopo il completamento dell’opera di Agostino, Salviano, un sacerdote di Marsiglia, scrisse il suo trattato “Sul governo di Dio”, affrontando da un punto di vista diverso lo stesso problema trattato dai libri di Agostino e Orosio. Salviano si rivolge espressamente ai cristiani, poiché non ha alcuna speranza che i suoi argomenti abbiano qualche effetto sui pagani. Salviano si chiede come mai i Romani cristiani, pur non essendo eretici, siano stati conquistati da popolazioni barbariche ariane, e perché la provvidenza divina non è intervenuta per impedire ciò. La risposta di Salviano è che i Romani cristiani soffrono questi mali perché li meritano a causa dei loro vizi e dei loro peccati. A sostegno della sua tesi l’autore dipinge un quadro cupo della condizione dell’Impero, denunciando la corruzione dell’amministrazione e l’oppressione dei poveri da parte dei ricchi nonché la rapacità dei funzionari pubblici. Salviano non dimentica di soffermarsi, con lo zelo di un uomo di chiesa, sui giochi del circo e sulle rappresentazioni licenziose a teatro, svaghi assai poco edificanti che attiravano l’interesse del cristiano medio non meno di quello del pagano medio. Salviano ammette che in un solo aspetto i Romani sono migliori dei Barbari: il fatto che i primi hanno le corrette convinzioni teologiche, mentre i Barbari vittoriosi sono o pagani o eretici. Tuttavia a suo dire, per il resto, i Barbari sono migliori dei Romani. Procede quindi ad approfondire le virtù dei barbari. Tra i Germani, o anche tra gli Unni, i poveri non erano oppressi dai ricchi. Se gli Alamanni sono dediti all’ubriachezza, se i Franchi e gli Unni sono spergiuri e perfidi, se gli Alani sono rapaci, anche i Romani lo sono. D’altra parte, i Vandali hanno svergognato i provinciali per il loro alto livello di moralità sessuale, e i Sassoni e i Goti, pur avendo vizi come la ferocia e la perfidia, sono in compenso meravigliosamente casti.

Non vi è sollievo nel quadro cupo di Salviano. Va accettato con le dovute cautele, come andrebbe fatto con tutti gli scritti dei predicatori o dei satirici quando denunciano i vizi della loro età. Ma il tono di sconforto è genuino. Descrive lo stato romano come moribondo. Parla come se questo fosse un fatto fuori discussione e al quale gli uomini si stessero già abituando. Erano passati più di trent’anni da quando la notizia dei Goti a Roma aveva sorpreso Girolamo nel suo ritiro a Betlemme spingendolo a urlare “Chi mai si salverà se Roma perisce?” (Quid salvum est si Roma perit?). Nel frattempo i romani si erano rapidamente ripresi dal trauma e l’avevano quasi dimenticato. La calamità delle province non li spinse a modificare il loro modo di vivere né a rinunciare ai loro soliti svaghi dissoluti. Salviano prende atto di questa situazione facendo ironia sul fatto che Roma rida nonostante sia moribonda.

LE INTERPRETAZIONI MODERNE

Le teorie degli studiosi moderni, volte a individuare le cause del declino e della caduta dell’Impero, sono sicuramente più scientifiche e razionali di quelle dei coevi, testimoni oculari degli eventi, ma non sono molto più soddisfacenti. Tra le possibili cause del declino sono state proposte lo spopolamento, il Cristianesimo e il sistema fiscale oppressivo, ma esse non spiegano perché, mentre l’Impero d’Occidente era travolto dai Barbari, l’Impero d’Oriente, pur essendo cristiano, spopolato e con il sistema fiscale oppressivo, continuò a sopravvivere per ancora un altro millennio.

Si prenda in considerazione lo spopolamento. Lo spopolamento dell’Italia fu rilevante ed ebbe conseguenze di vasta portata. Ma si trattava di un processo che probabilmente aveva raggiunto il suo limite al tempo di Augusto. Non ci sono prove che l’Impero fosse meno popoloso nel IV e V secolo rispetto al primo. Il fatto è che lo spopolamento può spiegare in parte il motivo per cui lo stato romano, nel periodo tra i giorni migliori della Repubblica e l’età di Teodosio il Grande, cambiò notevolmente declinando, ma non spiega il crollo nel V secolo. Non spiega perché lo Stato che riusciva a respingere i nemici che premevano su più fronti ai tempi di Diocleziano e Costantino e Giuliano cedette improvvisamente ai giorni di Onorio. Né gli eventi che hanno condotto alla conquista di gran parte dell’Europa occidentale da parte dei Germani possono essere spiegati, se non in parte, dalla superiorità numerica dei molteplici invasori. La nozione di immense orde di centinaia di migliaia di guerrieri che si riversano alle frontiere è assolutamente falsa. Una popolazione della Germania orientale all’epoca probabilmente superava raramente i 100.000 abitanti, e il suo esercito di combattenti raramente poteva superare la cifra di 20.000 o 30.000 soldati. Non erano un diluvio, travolgente e irresistibile, e l’Impero aveva una struttura militare ben organizzata alla fine del IV secolo, assolutamente in grado, se in mani capaci, di respingerli. In effetti, dopo la disfatta di Adrianopoli dovuta agli errori di Valente, nessuna battaglia davvero importante fu vinta dai Germani sulle forze imperiali durante tutto il corso delle invasioni.

È stato spesso affermato che il cristianesimo fosse una forza disgregante a livello politico e tendesse a indebolire la capacità da parte di Roma di resistere ai suoi nemici. Le controversie teologiche in effetti si sarebbero rivelate una forza disgregante in Oriente nel VII secolo, quando le divergenze dottrinali che avevano alienato i cristiani di Egitto e di Siria dal governo di Costantinopoli agevolarono le conquiste dei Saraceni, accolti come liberatori dalle popolazioni perseguitati dal governo centrale per le loro opinioni religiose. Ma, dopo la sconfitta dell’arianesimo, non vi era una divisione così profonda in Occidente, e l’effetto del cristianesimo fu quello di unire piuttosto che di dividere. Né vi è la minima ragione per supporre che la dottrina cristiana avesse l’effetto pratico di rendere gli uomini meno fedeli all’Impero o meno pronti a difenderlo. I cristiani erano combattivi come i pagani.

Non molto tempo dopo il sacco di Roma da parte di Alarico, Volusiano, senatore pagano di illustre famiglia, la cui madre era cristiana e amica di Agostino, si chiese se l’insegnamento del cristianesimo non fosse fatale per il benessere di uno Stato, perché un cristiano colpito a una guancia, secondo il Discorso della Montagna, dovrebbe porgere l’altra al percussore. Nella lettera di risposta, Agostino risponde alla domanda sostenendo che la guerra non è vietata dal Vangelo e che anzi, a suo dire, coloro che intraprendono una guerra per giusti motivi agiscono in realtà mossi da misericordia verso i loro nemici, poiché in questo modo correggeranno i vizi dei nemici facendo loro del bene. Il misericorditer di Agostino stabilì involontariamente una dottrina pericolosa e ipocrita perché giustificava la guerra, e si trattava di fatto dello stesso principio che fu usato per giustificare l’Inquisizione. Ma la sua affermazione che la disciplina cristiana non condanna tutte le guerre equivaleva a dire che i cristiani erano tenuti tanto quanto i pagani a difendere Roma contro i barbari. E questa era la visione generale. Tutti i principali ecclesiastici del V secolo erano devoti all’Impero, e quando cercavano la pace o il compromesso, come spesso accadeva, era sempre quando la resistenza ai Barbari sembrava vana.

Secondo parte della storiografia il successo dei Barbari nel fondare regni romano-barbarici nelle province occidentali, sottraendole al controllo dell’Impero, non può essere pienamente spiegato da nessuna causa interna che rendesse inevitabile il crollo dell’Impero, ma fu la conseguenza di una serie di eventi contingenti. Secondo Peter Heather:

Ai limiti interni bisogna dunque dare il giusto peso. Tuttavia, chiunque intenda sostenere che abbiano giocato un ruolo primario nel crollo dell’Impero e che i barbari abbiano solo accelerato il processo deve spiegare in che modo l’edificio imperiale abbia potuto collassare senza un massiccio attacco militare dall’esterno… A mio parere, invece di parlare delle presunte “debolezze” interne al sistema romano che lo avrebbero fatalmente predestinato al crollo, almeno per quanto riguarda la sua metà occidentale, ha più senso parlare dei “limiti” – militari, economici e politici – che gli impedirono di affrontare la particolarissima crisi del V secolo. Limiti interni che indubbiamente dovevano esserci, se l’Impero si dissolse; ma che per di sé non erano sufficienti. Senza i barbari, non ci sono prove del fatto che nel V secolo l’Impero avrebbe comunque cessato di esistere.

La prima contingenza fu l’irruzione degli Unni in Europa, un evento derivante da cause che erano del tutto indipendenti dalla debolezza o forza dell’Impero Romano. I Visigoti, costretti ad abbandonare i loro territori a causa dell’invasione degli Unni, trovarono riparo nelle province illiriche, ma la difficile situazione di dover gestire un numero immenso di immigrati fu purtroppo mal gestita dai Romani portando alla rivolta dei Visigoti. L’imperatore Valente fu sconfitto dai Visigoti, perdendo la vita, per colpa sua. Quel disastro, che avrebbe potuto non essersi verificato se non fosse stato per gli errori di Valente, fu la seconda contingenza. Il suo successore, Teodosio, permise a un’intera nazione federata, i Visigoti, di stabilirsi sul suolo provinciale, stabilendo uno sfortunato precedente che tuttavia non era irrimediabile. Il successore di Teodosio in Occidente, il figlio Onorio, per giunta era un imperatore imbelle, incapace di governare da solo, con il potere in realtà esercitato dai suoi ministri. Si trattava comunque di un evento indipendente dalle condizioni interne dell’Impero. La migrazione degli Unni ancora più ad Occidente agli inizi del V secolo portò a ulteriori invasioni che colpirono soprattutto l’Impero d’Occidente. Per giunta alcuni popoli invasori formarono delle coalizioni (ad esempio Vandali Silingi, Vandali Asdingi e Alani formarono la coalizione vandalo-alana) per avere maggiori possibilità di vincere gli scontri con i Romani. La devastazione o la perdita delle province occidentali portò alla progressiva riduzione del gettito fiscale rendendo sempre più difficoltoso trovare le risorse finanziarie adeguate per mantenere un esercito efficiente. Particolarmente fatale risultò la perdita delle ricche e produttive province africane, conquistate dai Vandali. L’Impero, di conseguenza, si indebolì sempre di più a causa di un circolo vizioso. Le devastazioni delle province portavano alla perdita di gettito fiscale, con conseguente indebolimento dell’esercito e ulteriori devastazioni, che portavano a ulteriore perdita di gettito fiscale e indebolimento dell’esercito e così via fino alla caduta dell’Impero d’Occidente. Tuttavia, ancora nel 468, l’Impero d’Occidente avrebbe potuto salvarsi se solo la spedizione contro i Vandali del 468, con la flotta fornita dall’Impero d’Oriente, fosse riuscita e l’Africa, con il suo gettito, fosse stata recuperata. Secondo Peter Heather infatti:

Facciamo un po’ di storia basata sui se. Una vittoria schiacciante su Genserico… avrebbe prodotto tutta una serie di effetti a catena. Una volta riuniti Italia e Nordafrica, anche la Spagna sarebbe tornata all’ovile:… infatti, gli Svevi rimasti nella penisola iberica non erano molto pericolosi. … A questo punto, quando anche i tributi della Spagna avessero ricominciato ad affluire nelle casse dello stato, si sarebbe potuto avviare un ampio programma di ricostruzione della Gallia romana. Visigoti e Burgundi, infine, sarebbero stati rinchiusi in enclave d’influenza molto più piccole… Contrariamente a prima, il rinato impero romano d’Occidente sarebbe diventato in realtà una coalizione, con sfere d’influenza gote e burgunde… : non più dunque la coalizione unita e integrata del IV secolo. Ma il centro dell’Impero sarebbe stato comunque il partner dominante della coalizione… Nel giro di un ventennio, poi, anche i romano-britanni … avrebbero potuto trarre giovamento da questi rivolgimenti. Tutto ciò, ovviamente, solo se le cose fossero andate sempre e soltanto per il meglio.

Il fallimento della spedizione, dovuta secondo Heather a “un misto di sfortuna meteorologica, mancanza di strategia (non c’era ragione per sbarcare tanto vicino a Cartagine, bruciando l’elemento sorpresa) ed eccesso di ambizione”, provocò irreversibilmente la caduta della parte occidente.

Nel V secolo, per giunta, gli imperatori d’Occidente erano per lo più imbelli, con l’effettivo potere in realtà esercitato da generalissimi spesso di origini germaniche, e forse l’unico imperatore d’Occidente degno di quel nome fu Maggioriano, che tuttavia non poté far molto per risollevare l’Impero da una situazione ormai disperata e che fu ucciso proprio perché voleva governare indipendentemente dal generalissimo di origini barbariche Ricimero. Lo stesso esercito si era riempito di Barbari, che di fatto giunsero a governare l’Impero ben prima della sua effettiva caduta, con i generalissimi di origini germaniche che detenevano l’effettivo potere usando gli imperatori come loro prestanome. Odoacre, dopo aver deposto Romolo Augusto, avrebbe potuto benissimo nominare un nuovo imperatore romano come prestanome, e in questo modo l’Impero d’Occidente avrebbe potuto continuare a esistere in maniera prettamente formale. Non l’ha fatto perché ha deciso di porre fine a una finzione giuridica. L’Imperatore già da tempo aveva smesso di governare effettivamente, quindi non ce n’era più bisogno. Se fosse stato nominato o meno un ulteriore imperatore d’Occidente, in ogni caso l’effettivo detentore del potere sarebbe stato Odoacre.