Secondo la tradizione l’invasione dell’Italia da parte dei Longobardi sarebbe dovuta al tradimento del generale Narsete, che, per ripicca contro l’Imperatore Giustino II (che lo aveva destituito), avrebbe istigato i Longobardi a invadere l’Italia (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II,5). Ma la storiografia moderna non dà credito a questa versione mitica dei fatti (cfr. ad esempio G. Ravegnani, I Bizantini in Italia, Mulino, Bologna, 2004, p. 71). Narriamo comunque cosa dice in dettaglio la tradizione tramandata da Paolo Diacono (e, prima di lui, dal Liber Pontificalis e dalla Origo), seppur inattendibile:
In realtà, come detto prima, si ritiene che questa storia del tradimento di Narsete sia stata una storia inventata a posteriori per dare una spiegazione al perché i Longobardi invasero
l’Italia. Gli storici moderni propendono per altre motivazioni, come il fatto che erano minacciati dagli Avari, per questo motivo invasero l’Italia (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 72).
Altri invece, come Neil Christie, sostengono che Narsete avrebbe chiamato i Longobardi in Italia come foederati, intendendo l’eunuco utilizzarli per contenere potenziali incursioni franche in Italia. Ciò spiegherebbe la scarsa resistenza dei Romei negli anni di regno di Alboino, e il fatto che nei primi anni i principali nemici dei Longobardi fossero i Franchi. Solo in seguito, quando i Longobardi conquistarono più territorio di quanto assegnato loro, i Romei compresero di aver commesso un errore madornale e tentarono di scacciarli, ma con effetti nefasti. Quanto fondamento ha questa teoria? E’ certamente affascinante, ma si basa su pure congetture, per cui diversi studiosi si sono dimostrati scettici a riguardo. Del resto la scarsa resistenza romea si potrebbe spiegare altrimenti (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 73) con:
-l’esiguità delle truppe
-l’assenza di un generale capace dopo la rimozione di Narsete
-il tradimento dei Goti, che avrebbero aperto le porte delle città ai Longobardi
-l’ostilità della popolazione per la politica religiosa di Bisanzio
-il fatto che i Romei ritenevano che quell’invasione fosse a fini di saccheggio e di non occupazione permanente delle terre, per cui ritennero, per non rischiare perdite, di non intervenire aspettando che gli invasori si fossero ritirati (cosa che non sarebbe mai accaduta).
PREPARATIVI PER L’INVASIONE
Alboino e il suo intero popolo (la cui grandezza è stata stimata a intorno 100.000-150.000 persone) migrarono dunque in Italia, percorrendo le strade romane della Pannonia nell’anno 568 (cfr. Jarnut, Storia dei Longobardi, p. 30). Il viaggio iniziò il 2 aprile del 568, dopo che Alboino ebbe firmato un patto con gli Avari con cui cedeva agli Avari la Pannonia ma solo se l’invasione dell’Italia fosse riuscita; in caso contrario, i Longobardi avrebbero riavuto indietro la Pannonia. Ma non partì con Alboino solo il popolo longobardo, ma anche 20.000 guerrieri sassoni, che si unirono all’impresa. L’esercito di Alboino comprendeva inoltre al suo interno non solo Longobardi, ma anche Gepidi, Unni, Sarmati, Svevi e Romanici delle province di Norico e Pannonia (Jarnut, ibidem, pp. 22-24). Percorrendo le strade della Pannonia, Alboino e il suo popolo si diressero verso le Alpi Giulie, la parte delle Alpi più vulnerabile a un invasione estera, come narrato anche da Paolo Diacono; mentre infatti il resto delle Alpi non consentono un ingresso in Italia “se non per angusti passaggi”, le Alpi orientali, che delimitano il Norico e la Pannonia dall’Italia, erano maggiormente pianeggianti (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II,9). Lo stesso Alarico era consapevole dei vantaggi di entrare in Italia attraverso le Alpi Giulie, meno difendibili rispetto al resto dell’arco alpino, invadendo sempre l’Italia dal Norico o dalla Pannonia; e lo stesso valse per Attila. Durante il viaggio, si narra che Alboino salì su un monte, detto da allora “Monte del re” proprio per questo episodio, probabilmente leggendario, e da lì “contemplò quella parte dell’Italia fin dove poté spingere il suo sguardo” (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II,8). Infine, varcate le Alpi Giulie, invase l’Italia.
LA FRAGILITÀ DEL SISTEMA DIFENSIVO ROMEO
A questo punto, sembra opportuno ricordare quale era il sistema romeo di difesa del limes in Italia. Nel tardo impero, vi erano essenzialmente tre tipi di eserciti: quelli “presentali”, alla presenza dell’Imperatore, che avevano il compito di difenderlo da eventuali usurpatori; quelli “da campagna”, o “da campo”, i cui soldati erano detti “comitatensi”, che avevano la funzione di combattere le battaglie contro il nemico, invasore o invaso a seconda dei casi, e vincerlo in battaglia; e infine le truppe di frontiera, detti “limitanei”, che avevano sede nelle fortezze di confine che avevano il compito di difendere dalle invasioni nemiche, ma che in caso di mancato intervento dei loro colleghi “comitatensi” erano del tutto impotenti contro l’invasore. Secondo Warren Treadgold, l’esercito campale d’Italia ricostituito da Giustiniano comprendeva 20.000 soldati (cfr. Treadgold, History of the Byzantine State and Society, 1997, p. 269). Sembra che Narsete avesse inoltre istituito quattro ducati di frontiera, uno sulle Alpi Cozie e Graie, uno presso i Laghi maggiore e di Como, uno presso Trento e un altro presso Cividale del Friuli. Queste guarnigioni di limitanei, a presidio delle fortezze in prossimità delle Alpi, ricevettero il compito di presidiare l’arco alpino, con l’obbiettivo di ostacolare ogni possibile invasione nemica in attesa dell’arrivo dell’esercito da campagna, che li avrebbe sconfitti. Questo sistema di difesa, in Italia come in tutto l’Impero, era però molto fragile.
I limitanei, infatti, erano soldati di seconda categoria, meno addestrati e meno abili dei loro colleghi dell’esercito da campagna; in tempo di pace facevano anche altro (per esempio coltivare i campi oppure pattugliare la frontiera per impedire il contrabbando) ed erano adatte al massimo a respingere una piccola scaramuccia di frontiera, ma si trovavano del tutto impotenti nel respingere una grossa orda nemica senza l’intervento dell’esercito da campagna (cfr. Giorgio Ravegnani, Soldati e guerre a Bisanzio, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 106). Come ammise nel V secolo Teodosio II nella Novella 4 (438), non erano né civili, né veri soldati. Essi erano soldati agricoltori, posti a difesa delle fortezze di confine, che, per definizione del Codex Iustinianus, a proposito dei limitanei dell’Africa, “possono sia difendere i forti e le città confinarie, sia coltivare le terre” (CI I.27.2). Il problema è che erano molto più utili a coltivare le terre.
I limitanei stanziati da Giustiniano in Africa fecero una brutta fine nel corso delle lotte contro i Mauri e contro un esercito romeo ammutinatosi perché erano “poco numerosi in ciascun settore della frontiera e non ben preparati” (Procopio, De bello vandalico, II, 8-10). Anche in Oriente i limitanei si trovarono del tutto inadeguati, per gli stessi motivi, a respingere gli attacchi dei Persiani, perché troppo deboli da soli per affrontarli in battaglia; i Persiani furono così liberi di razziare e ritirarsi con il bottino prima dell’arrivo spesso tardivo dell’esercito da campagna (Ravegnani 2009, ibidem, pp. 106-107). Risultavano insomma spesso inutili se non coadiuvati dall’esercito da campagna.
Si può quindi immaginare perché le truppe confinarie limitanee a presidio del limes non siano riuscite a resistere ai Longobardi, per analogie con gli altri fronti; in numero troppo piccolo per affrontare gli invasori in campo aperto, essi furono costretti a trincerarsi nelle fortezze di confine, dove tuttavia non potevano resistere per sempre, in quanto, se assediati per troppo tempo, alla fine erano costretti ad arrendersi al nemico per fame. Solo l’intervento di un forte esercito da campagna, magari comprendente 20.000 soldati ben addestrati, avrebbe potuto salvare la situazione, scacciando gli invasori e salvando dalla capitolazione gli impotenti limitanei. Secondo Treadgold l’esercito di campagna a difesa dell’Italia comprendeva 20.000 uomini. Ravegnani stima i soldati a difesa dell’Italia a 30.000-40.000, precisando però che il numero di soldati diminuì a causa delle pestilenze (cfr. Ravegnani 2009, ibidem, pp. 86-87). Il problema è che in Italia di questo forte esercito di campagna non vi è traccia. Forse le pestilenze lo ridussero in stato pietoso, o forse, stimando troppo rischioso affrontare gli invasori in campo aperto, preferì non intervenire proprio, ritenendo erroneamente che i Longobardi, una volta saccheggiato il territorio, si sarebbero ritirati dall’Italia con il bottino; quando si resero conto che i Longobardi avevano invaso l’Italia per restarci, era troppo tardi per scacciarli. Oppure, forse parte delle truppe furono richiamate in Oriente.
Inoltre non va dimenticato che talvolta questi reggimenti di limitanei erano composti da barbari, non sempre fedeli all’Impero, come dimostra l’episodio della rivolta di Sinduald, nel 566. Sinduald era un erulo, che aveva servito nell’esercito imperiale contro gli Ostrogoti e i Franchi; e Narsete lo premiò per i suoi servigi, mettendolo a capo del ducato di frontiera con sede Trento. Narrano però le cronache, Sinduald fu alquanto ingrato con il suo benefattore: infatti, nel 566, egli si rivoltò, venendo eletto dalla sua guarnigione di eruli loro re. Narsete lo punì severamente, sconfiggendolo in battaglia e, una volta catturato, “impiccandolo ad un’alta trave” (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II,3). Ora Narsete però era stato destituito: e non fu nominato un degno successore dal punto di vista militare, capace di coordinare i vari generali, sicché Longino, il funzionario che sostituì Narsete nelle funzioni di governatore d’Italia, era essenzialmente un funzionario civile, ricordato dalle fonti come “praefectus”, “prefetto del pretorio” quindi; non era quindi, si può presumere, particolarmente esperto nelle questioni militari, e questo potrebbe aver agevolato l’espansione longobarda (cfr. Bernard Bavant, Le duché byzantin de Rome. Origine, durée et extension géographique, pp. 44-45). In più le guarnigioni cittadine costituite da foederati ostrogoti non dovettero avere particolare motivo per resistere ai Longobardi, aprendo forse in qualche caso le porte agli invasori. In ogni caso la presenza di foederati ostrogoti di dubbia fedeltà nelle guarnigioni e la valida mancanza di un generale all’altezza dopo la destituzione di Narsete, nonché l’incapacità cronica dei limitanei di respingere senza il sostegno di un esercito da campagna qualsiasi invasione seria, rese fragilissimo il sistema difensivo romeo, esponendolo allo “tsunami” longobardo.
LE CONQUISTE DI RE ALBOINO
Giunti nella Venezia, i Longobardi trovarono scarsissima resistenza; investirono immediatamente Forum Iulii (Cividale del Friuli), sede del ducato di frontiera romeo posto a difesa delle Alpi orientali, e conquistarono la città, dopo aver trovato scarsa resistenza da parte del presidio romeo; Alboino pose come duca della città e del Friuli Gisulfo, dopodiché l’orda longobarda dilagò in tutto il Veneto, conquistando tutto l’entroterra tranne alcune città, come Padova, Mantova e Monselice. A Treviso Alboino raggiunse un accordo con la Chiesa locale, ottenendo la resa della città in cambio del risparmio della popolazione e presumibilmente un salvacondotto per l’impotente presidio cittadino, il numero (=reggimento di 500 uomini) dei tarvisiani, che fu costretto a ripiegare a Grado, dove si trovavano nel 579, insieme a due numeri: Cadisiani e Persoiustiniani (cfr. Ravegnani 2009, ibidem, p. 98). Si può quindi notare un ritiro ordinato delle impotenti truppe bizantine in territori meglio difendibili, in attesa di tempi migliori. L’invasione generò di certo terrore tra le popolazioni. Molti abitanti delle Venezie, per sfuggire alle spade dei Longobardi, migrarono nelle lagune dove sorgerà l’odierna Venezia:
E anche gli ecclesiastici, scandalizzati per le profanazioni delle Chiese che commettevano quei barbari dei Longobardi, in parte ariani e in parte pagani, se la diedero a gambe levate. Il patriarca di Aquileia, temendo le spade dei Longobardi, da Aquileia si rifugiò nella vicina Grado, meglio difendibile dalle incursioni dei Longobardi. Alboino, sottomessa l’intera Venezia, a parte le zone costiere, svernò quindi lì.
Nel 569, ripresa la marcia, l’orda longobarda invase la Lombardia, entrando il 3 settembre a Milano; Il vescovo della città Onorato fuggì con parte della popolazione a Genova, e, ben
presto, tutta l’Italia nord-occidentale, tranne le coste della Liguria, cadde nelle loro mani. Il comandante del ducato di frontiera dei laghi maggiore e Como, Francione, incapace di porre seria resistenza all’orda con le poche truppe che aveva, fu costretto a trovare riparo sull’Isola Comacina, all’interno del lago di Como, dove resistette fino al 588, allorché dopo un assedio di sei mesi si arrese ad Autari. Anche il ducato di frontiera delle Alpi Cozie e Graie fu investito, ma il suo comandante riuscì perlomeno a mantenere la città di Susa, fino al 576. In breve tempo tutta l’Italia settentrionale, tranne le coste della Liguria e del Veneto, cadde sotto il giogo dei Longobardi. Il prefetto Longino, in tutto questo tempo, si limitò a rafforzare le difese di Ravenna, non osando inviare truppe (che forse non aveva a sufficienza) contro l’alluvione longobarda. E l’unica resistenza trovata fu a Pavia, che fu assediata per tre anni, per poi arrendersi nel 572. Secondo la tradizione Alboino, arrabbiato per la strenua resistenza di Pavia, voleva far fuori la popolazione, ma un prodigio gli fece cambiare idea:
Tuttavia, recentemente, alcuni storici hanno dubitato dell’effettiva storicità dell’assedio di Pavia, sia perché l’unica fonte primaria indipendente che ne parla è Paolo Diacono, sia perché troppo simile all’assedio di Ravenna ad opera di Teodorico (anch’esso durato tre anni), sia perché l’episodio è troppo denso di significati cristiani, quasi volto a conferire una sorta di provvidenzialità alla conquista longobarda; per questi motivi, i suddetti studiosi ritengono probabile che questo episodio sia stato un’invenzione letteraria di Paolo Diacono.
Comunque, indipendentemente dalla storicità o meno dell’assedio di Pavia, resta il fatto che nel 572 Piemonte, Lombardia, Veneto e Toscana (tranne alcune città rimaste in mano bizantina come le coste della Venezia, l’Isola Comacina e Susa) erano in mano longobarda.