Complotto contro Attila: l’ambasceria di Prisco

IL COMPLOTTO

Nel 449 un’ambasceria degli Unni raggiunse Costantinopoli per consegnare all’Imperatore Teodosio II le minacciose imposizioni di Attila riguardo la questione dei fuggitivi:

“Questo Edeco, giunto alla corte imperiale, consegnò le lettere mandate da Attila, nelle quali egli accusava i Romani riguardo alla questione dei fuggitivi. Per rappresaglia Attila minacciava di ricorrere alle armi, se i romani non non si fossero piegati alla sua volontà, e se non avesse cessato di arare la terra da loro occupata nel corso della guerra. Egli sosteneva che la lunghezza di questo territorio, che si trovava a valle sul Danubio, [andava] dalla terra del Pannoni fino a Novae in Tracia, per una distanza di 300 miglia, che equivale alla marcia di cinque giorni, e che la città mercato non si sarebbe dovuta trovare in Illiria sulla riva del Danubio, come un tempo, ma a Naissus, che, dopo che era stata devastata da lui, fu posta come frontiera tra le terre degli Sciti e dei Romani; trovandosi [alla distanza] di cinque giorni di viaggio dal Danubio, per un uomo senza alcun ostacolo. Egli diede l’ordine che venissero inviati da lui, per discutere i punti controversi, non solo gli ambasciatori consueti, ma anche i maggiorenti con rango consolare. Se si fosse esitato ad inviare questi uomini, minacciò di giungere fino a Sardica per riceverli. Quando queste lettere furono approntate per l’imperatore, Edeco partì con Bigilas, l’interprete che aveva tradotto, parola per parola, le richieste che Attila aveva formulato.”

L’ambasciatore di Attila, Edeco, si incontrò con Crisafio, il ciambellano eunuco dell’Imperatore Teodosio II; da interprete fungeva Bigilas. Notando che Edeco ammirava lo splendore del palazzo e scoperto che era amico intimo e una delle guardie del corpo del re unno (“nei giorni specificati, disse, ciascuno di essi, a sua volta, custodisce Attila con le armi”), Crisafio tentò di corromperlo con l’intenzione di convincerlo ad assassinare a tradimento Attila.  “Avrebbero parlato di questo, se fosse venuto a cena con lui, senza Oreste e i suoi altri colleghi inviati”. Edeco si recò allora a cena alla residenza di Crisafio, e “l’eunuco suggerì a Edeco che, se dopo aver attraversato nuovamente la Scizia, egli avesse ucciso Attila e fosse tornato dai Romani, avrebbe avuto una vita felice e di grande ricchezza”. Prisco riferisce che:

“Edeco acconsentì ma disse che avrebbe avuto bisogno di denaro per l’azione, non molto, ma cinquanta libbre d’oro da distribuire alla guardia sotto il suo comando, in modo che questa avrebbe potuto collaborare con lui nell’azione. Quando l’eunuco ebbe promesso di dargli immediatamente l’oro, il barbaro propose di essere inviato [ufficialmente] per parlare con Attila circa l’ambasciata, e che Bigilas doveva essere inviato con lui per ricevere le risposte di Attila sui fuggitivi. Attraverso Bigilas, proseguì, si sarebbe potuto stabilire in che modo sarebbe stato inviato il suo oro; infatti Attila avrebbe discusso la questione in maniera confidenziale, come [con] gli altri ambasciatori, e per chi gli avesse recato quei doni e tutto quel denaro che avrebbe dovuto ricevere dai Romani, non sarebbe stato possibile nascondere l’oro facendo affidamento su quelli in cammino con lui.”

Crisafio riferì il tutto al magister officiorum Marziale e un’ambasceria composta dall’interprete Bigilas, da Massimino e dallo storico Prisco partì per raggiungere la corte di Attila. Prisco in realtà si aggregò su richiesta di Massimino.

IN VIAGGIO

Dopo un viaggio di tredici giorni, l’ambasceria romana, accompagnata da quella unna di ritorno, raggiunse Serdica. Durante una cena tra ambasciatori romani e quelli unni, narra Prisco, si rischiò l’incidente diplomatico:

Nel corso del pasto, così come i barbari elogiavano Attila e l’imperatore, Bigilas disse che non era opportuno confrontare un dio con un uomo, intendendo Attila in quanto uomo e Teodosio in quanto dio. Quindi gli Unni si irritarono, e man mano si scaldarono sempre più, fino ad infuriarsi. Ma noi abbiamo rivolto il discorso ad altre questioni, con aperture amichevoli, ed essi stessi così calmarono il loro spirito; dopo cena, come ci fummo separati, Massimino lusingò Edeco ed Oreste donando loro capi di seta e gemme indiane.”

L’ambasceria raggiunse successivamente Naisso, distrutta dalle scorrerie unne. Nelle chiese cristiane si erano rifugiate molte persone colpite dalla malattia. Il giorno successivo, in prossimità del fiume, l’ambasceria incontrò Arinteo, magister militum per Illyricum, “per annunciare i comandi dell’imperatore e ricevere i fuggitivi. Doveva consegnarne cinque dei diciassette a proposito di cui era stato scritto ad Attila. Conversammo con lui e stabilimmo che avrebbe dovuto consegnare agli Unni i cinque fuggitivi, che inviò con noi, dopo averli trattati gentilmente”.

Dopodiché il viaggio proseguì. Prisco racconta:

“Dopo aver passato la notte facemmo il viaggio dalle frontiere di Naisso verso il Danubio ed entrammo in una selva fittamente ombreggiata, in cui il percorso ha molte curve, torsioni e avvolgimenti. Qui, quando il giorno spuntò, il sole che sorge si presentò di fronte a noi, anche se avevamo avuto l’impressione di aver viaggiato verso ovest, con il risultato che coloro che ignoravano la topografia del paese si meravigliarono, supponendo che sicuramente il sole stava andando nella direzione opposta, e stava quindi preannunciando eventi strani e insoliti. Tutto questo a causa della irregolarità del luogo, per cui parte della strada rigira verso est.”

“Dopo questo tratto difficile, giungemmo in una pianura boscosa. I barbari traghettatori ci ricevettero in barche che essi stessi costruiscono, tagliando e scavando gli alberi, e ci traghettarono attraverso il fiume Danubio. Essi non avevano fatto tutti questi preparativi al meglio, ma in realtà eravamo stati ricevuti e traghettati da un gruppo di barbari che ci aveva ricevuto sulla strada, perché Attila era ansioso di attraversare al territorio romano, come per una battuta di caccia. Il re degli Sciti aveva avuto veramente l’intenzione di fare questo, come preparativo per la guerra, con il pretesto che tutti i fuggitivi non era stati riconsegnati.”

“Dopo aver attraversato il Danubio e proceduto con i barbari per circa 70 stadi, ovvero otto miglia, fummo costretti ad aspettare in un determinato luogo, in modo che Edeco e il suo seguito potessero recarsi ad Attila come araldi del nostro arrivo. I barbari che avevano agito come nostre guide rimasero con noi, e nel tardo pomeriggio, quando stavamo per consumare la nostra cena, udimmo il rumore dei cavalli venire verso di noi. Poi due Sciti apparvero e ci ordinarono con decisione di recarci da Attila. In primo luogo chiedemmo loro di rimanere a cena, e loro, scesi da cavallo, vennero trattati bene; poi, il giorno dopo ci guidarono nel nostro cammino.”

INCONTRO CON ATTILA

Alla nona ora del giorno l’ambasceria di Prisco raggiunse l’accampamento di Attila. Si rischiò un nuovo incidente diplomatico: “quando stavamo per piantare le nostre tende su una collina, i barbari che si erano uniti a noi ce lo impedirono, in quanto la tenda di Attila era su un terreno più basso. Ponemmo il campo dove sembrava meglio per gli Sciti”. Inoltre “Edeco, Oreste e Scottas, e altri uomini scelti scelti tra gli Unni, giunsero e ci chiesero cosa stavamo cercando di guadagnare facendo quell’ambasciata”. Gli ambasciatori romani rimasero stupiti e risposero che “l’imperatore ci aveva dato l’ordine di parlare con Attila, e senza intermediari”. Prisco narra che “Scottas ci interruppe e andò da Attila; e quindi di nuovo ritornò senza Edeco. Ci riferirono tutto ciò per cui eravamo venuti come ambasciatori e ci ordinarono, quindi, di ripartire il più presto possibile a meno che non avessimo dell’altro da dire. Rimanemmo ancora più sbigottiti di fronte a queste parole, perché non era facile capire come le questioni stabilite dall’imperatore in segreto, fossero diventate ben note”.

Mentre gli ambasciatori si stavano preparando per la partenza, Bigilas tentò di ottenere comunque l’incontro con Attila, sfruttando l’amicizia con il re Unno:

“Disse: ‘Ho conversato con Attila, e dovrei averlo facilmente convinto a mettere da parte le sue divergenze con i romani, da quando sono diventato suo amico durante l’ambasciata con Anatolio.’ Disse tutto questo, e che Edeco era ben disposto verso di lui. Con questo argomento a proposito dell’ambasciata, e di questioni che dovevano essere discusse in ogni caso, cercò di ottenere – sia vero o falso – la possibilità di attuare il piano, secondo quanto era stato deciso contro Attila; anche perché aveva portato con sé l’oro che, come aveva detto Edeco, era necessario distribuire tra gli uomini nominati.”

Tuttavia, purtroppo per lui, Edeco aveva già riferito ad Attila del complotto ordito contro di lui:

“Ma senza che lui ne fosse a conoscenza, poiché Edeco o aveva dato una falsa promessa o aveva avuto paura che Oreste riferisse ad Attila quello che aveva detto a noi in Sardica, dopo il banchetto; In ogni caso, egli temeva di venire incolpato per aver conversato con l’imperatore e l’eunuco, e non con Oreste; e così rivelò ad Attila il complotto contro di lui, e la quantità di oro da inviare. E inoltre rivelò anche lo scopo della nostra ambasciata.”

Ecco spiegati i motivi dell’ostilità di Attila. Ma all’epoca Prisco e il resto dell’ambasceria non ne era a conoscenza ed erano rimasti stupefatti per ciò. Mentre dunque stavano andandosene:

“Il nostro bagaglio era già stato caricato sulle bestie da soma, e, non avendo altra scelta, cercammo di iniziare il nostro viaggio di ritorno durante la notte; ma altri barbari ci raggiunsero e dissero che Attila ordinava di attendere a causa dell’ora tarda. Nel luogo in cui ci trovavamo, come ho appena esposto, giunsero poi alcuni uomini portandoci un bue e del pesce di fiume mandati da Attila, e così potemmo cenare e poi tornammo a dormire.”

Tuttavia la mattina successiva gli Unni ribadirono che avrebbero dovuto partire. Prisco non si arrese e cercò l’intercessione di Rusticio, che conosceva bene l’unno e  “che era venuto con noi nella Scizia, non per il bene dell’ambasciata, ma per incarico di Costanzo”. Costanzo era “un italiano che Ezio, il generale dei Romani d’occidente, aveva mandato da Attila come suo segretario. Lo inviai da Scottas, perché Onegesio non c’era in quel momento”. Con un discorso convincente, Prisco riuscì a ottenere da Scottas l’incontro con Attila. Prisco narra che:

“Quindi tornai da Massimino, che, con Bigilas, era turbato e affranto, nelle attuali circostanze. riferii quello che avevo detto a Scottas e quello che avevo udito da lui; proposi che fosse necessario preparare dei regali per il barbaro, e considerare ciò che si doveva dire a lui. Tutti e due balzarono in piedi, poiché erano distesi sull’erba, lodarono la mia iniziativa e richiamarono quelli che erano già partiti con le bestie da soma. Poi discutemmo su come affrontare Attila e come presentarci a lui con tutti i doni dell’imperatore e le altre cose che Massimino aveva portato per lui.”

L’incontro con Attila mostrò l’ostilità del re unno nei confronti dell’ambasceria, e soprattutto nei confronti di Bigilas, perché Attila era già a conoscenza della congiura ai suoi danni:

“Mentre eravamo così impegnati Attila ci convocò attraverso Scottas, e così giungemmo alla sua tenda, che era custodita da una banda di barbari tutto intorno ad essa. Quando facemmo il nostro ingresso trovammo Attila seduto su un sedile di legno. Siccome eravamo leggermente in disparte rispetto al trono, Massimino avanzò, salutò il barbaro, e gli diede le lettere dell’imperatore, affermando che l’imperatore pregava affinché lui e i suoi sudditi fossero sani e salvi.”

La risposta di Attila fu ostile:

“Egli rispose che per lui i Romani avrebbero potuto ottenere ciò che volevano. Subito, rivolse le sue parole contro Bigilas, chiamandolo una bestia senza vergogna, e gli chiese perché insisteva nel voler venire a lui quando conosceva bene i termini proposti da lui e Anatolio per la pace, aggiungendo che aveva detto che gli ambasciatori non dovevano recarsi da lui prima che tutti i fuggitivi fossero stati riconsegnati ai barbari.”

Quando Bigilas rispose che tutti i fuggitivi erano già stati consegnati, il re unno si adirò ancora di più minacciando di ucciderlo per la sfrontatezza delle sue parole, e facendo recitare un lungo elenco di fuggitivi ancora non consegnati. Attila ordinò che “Massimino rimanesse presso di lui così che, per suo tramite, avrebbe potuto rispondere all’imperatore riguardo alle cose scritte, ed infine accettò i doni”. Tornati nella loro tenda, i tre ambasciatori discussero tra loro sull’ostilità di Attila:

“Bigilas era sorpreso del fatto che Attila fosse sembrato dolce e gentile con lui, quando aveva fatto da ambasciatore in precedenza, mentre ora si scagliava contro di lui con tanta durezza. Dissi poi che avevo paura che alcuni dei barbari che avevano banchettato con noi a Sardica potessero aver reso ostile Attila, riferendogli che lui aveva chiamato l’imperatore dei Romani un dio, e Attila un uomo. Massimino accettò questa spiegazione, come probabile, dal momento che, in realtà, Bigilas non era un complice nella cospirazione che l’eunuco aveva ideato contro il barbaro. Ma Bigilas era in dubbio e appariva veramente sconvolto per come Attila lo aveva affrontato. Non riteneva, come ci disse in seguito, che i fatti di Sardica, o i dettagli del complotto fossero stati riferiti ad Attila, dal momento che nessun altro al mondo, a causa della paura che prevale su tutto, avrebbe avuto il coraggio di entrare in conversazione con Attila, e Edeco avrebbe avuto tutto da perdere a causa di quel giuramento e dell’incertezza della missione; perché egli, come partecipante a tali piani, poteva essere sospettato di essere stato favorevole ad essi, e avrebbe potuto subire la pena di morte.”

Bigilas fu raggiunto da Edeco che, fingendo di voler ancora partecipare alla congiura, ci parlò in disparte. Inoltre, “alcuni del seguito di Attila giunsero e riferirono, a Bigilas e a noi tutti, di non comprare alcun romano prigioniero, o schiavo barbaro, o cavalli o qualsiasi altra cosa, tranne le cose necessarie per il nostro sostentamento, fino a quando le controversie tra Romani e Unni fossero state risolte”. Attila aveva ordinato ciò agendo con astuzia, in modo che Bigilas non potesse trovare una giustificazione valida allorquando sarebbe stato trovato con le 50 libbre d’oro necessarie per uccidere il re unno.

IN VIAGGIO CON ATTILA

Dopodiché, il giorno dopo la partenza di Bigilas, il viaggio con Attila per le parti settentrionale del paese riprese. L’ambasceria seguì la stessa strada di Attila per un tratto, poi Attila deviò perché doveva recarsi in un certo villaggio per sposare la figlia di Escam. Prisco spiega: “egli ha avuto molte mogli, ma era intenzionato a prendere anche la figlia di Escam”. Prisco prosegue:

Da qui procedemmo lungo una strada pianeggiante che attraversa una pianura con fiumi navigabili e incrociati, dei quali il primo, dopo il Danubio, era il Drecon, così chiamato, il Tigas, e il Tiphesas. Ci siamo spostati attraverso di essi con imbarcazioni [realizzate] in un unico pezzo di legno, come quelle in uso lungo i loro fiumi, e abbiamo attraversato gli altri fiumi su zattere che i barbari portano sui carri per utilizzarle nei luoghi paludosi.”

“Il cibo ci venne fornito con generosità nei villaggi; miglio invece di grano, e idromele, come viene chiamato nella lingua madre, invece di vino. Gli assistenti che ci seguivano erano riforniti di miglio e di una bevanda a base di orzo che i barbari chiamano ‘kamon.’ Dopo aver completato il lungo viaggio, nel tardo pomeriggio ci accampammo presso un lago dall’acqua dolce, e da dove gli abitanti del vicino villaggio attingevano la loro acqua. Il vento e una tempesta si alzarono all’improvviso, accompagnati da frequenti tuoni e fulmini, e da un rovescio di pioggia, che non solo abbatté la nostra tenda, ma scagliò anche tutto il nostro bagaglio nell’acqua del lago. Terrorizzati dal tumulto che pervadeva l’aria e da quello che era successo, lasciammo quel posto e ci separammo gli uni dagli altri, in modo che, nel buio e nella pioggia, ognuno di noi prese qualunque strada riteneva che sarebbe stata per lui praticabile. Quando arrivammo alle capanne del villaggio – poiché tutti vi eravamo giunti per strade diverse – ci riunimmo nello stesso posto e cercammo, gridando, di recuperare le cose di cui avevamo bisogno. Gli Sciti accorsero nel tumulto e accesero le canne che utilizzano per il fuoco, e, dopo aver fatto luce, ci chiesero perché avessimo sollevato un tale clamore. I barbari, con noi, risposero che tutto era stato messo in confusione dalla tempesta, e così ci accolsero nelle loro capanne, accesero di un gran numero di canne, e ci concessero rifugio.”

“Una donna che governava il villaggio – che era stata una delle mogli di Bleda – ci inviò delle provviste e delle donne di bell’aspetto per confortarci. Si trattava di un complimento Scita, ma noi, quando i viveri vennero disposti, ci mostrammo amichevoli, ma rifiutammo il rapporto con loro. Rimanemmo nelle capanne fino all’alba e poi iniziammo a cercare il nostro bagaglio. Ritrovammo tutto, in parte nel luogo dove ci eravamo accampati, in parte sulla riva del lago, e in parte nell’acqua stessa. Trascorremmo quel giorno nel villaggio, per asciugare tutte le nostre cose, in quanto la tempesta era cessata e il sole splendeva. Dopo aver preso cura dei nostri cavalli e degli altri animali, ci recammo dalla principessa, la salutammo e ringraziammo con dei regali, tre coppette d’argento, pelli rosse, pepe dell’India, frutti di palma, dolci e altri doni molto stimati dai barbari, perché non è facile per loro procurarseli. E la ringraziammo per la gentilezza della sua ospitalità.”

INCONTRO CON L’AMBASCERIA ROMANO-OCCIDENTALE

Dopo sette giorni di viaggio, l’ambasceria si fermò in un certo villaggio “poiché le nostre guide Scite ci avevano ordinato di fare così, in quanto Attila stava seguendo la stessa strada e che ci conveniva procedere dietro di lui”. In quel villaggio incontrarono altri ambasciatori, inviati dall’Impero romano d’Occidente. L’ambasceria romano-occidentale era costituita da Romolo, Promoto (governatore del Norico) e Romano, dux dell’esercito. Prisco spiega i motivi per cui l’ambasceria romano-occidentale fu inviata presso Attila:

“Stavano conducendo questa ambasciata per placare Attila, il quale pretendeva che Silvano, il direttore della banca di Armius a Roma, gli venisse consegnato perché aveva ricevuto delle coppe d’oro di Costanzo. […] Nel momento in cui Sirmio in Pannonia era assediata dagli Sciti egli ricevette le coppe dal vescovo della città, a condizione che le avesse riavute indietro se la città fosse stata presa e ed egli fosse sopravvissuto, oppure, se fosse stato ucciso, per salvare le vite dei cittadini che venivano condotti via come prigionieri. Ma Costanzo, dopo la riduzione in schiavitù della città, tenne conto solo in parte dei suoi accordi e, giunto a Roma per alcuni affari, ottenne dell’oro da Silvano, dandogli le coppe, a condizione che, entro un tempo stabilito avrebbe rimborsato il denaro prestato a interesse, e recuperato le fideiussioni; in caso contrario Silvano le avrebbe utilizzate per quello che voleva. Ma poi Attila e Bleda, sospettando Costanzo di tradimento, lo crocifissero.”

“Dopo poco, quando la vicenda delle ciotole venne rivelata ad Attila, volle che Silvano fosse consegnati a lui come un ladro dei suoi beni. Pertanto, degli inviati vennero mandati da Ezio e l’imperatore dei Romani d’occidente per riferire che Silvano, dato che era il creditore di Costanzo, aveva avuto quelle ciotole come cauzioni e non tanto come merci rubate, e che aveva dato loro in cambio denaro per i sacerdoti e non per la gente comune: perché non è onesto, per gli uomini, utilizzare per i propri scopi beni dedicati a Dio. Se, tuttavia, Attila non desistesse da questa giusta causa o nel timore che la divinità potesse richiedere le sue ciotole, essi mandarono a dire che avrebbero mandato l’oro al posto loro, ma rifiutarono di consegnare Silvano, poiché non volevano rinunciare ad un uomo che non aveva fatto nulla di male. Questo fu il motivo della loro ambasciata, e ci stavano seguendo da vicino in modo che Attila, il barbaro, potrebbe rispondere e mandarli via.”

NELLA CAPITALE DI ATTILA

Una volta atteso il sorpasso da parte di Attila, l’ambasceria lo seguì con tutta la folla. Dopo aver attraversato alcuni fiumi, l’ambasceria entrò in un villaggio molto grande, la residenza usuale di Attila. Prisco narra che:

“Il palazzo era stato assemblato con legni lucidi e tavole, e circondata da una palizzata di legno, concepita non per la sicurezza, ma per la bellezza. Accanto alla dimora del re che secondo il parere di Onegesius era splendida, vi era anche una lunga palizzata, ma non era stata abbellita con torri, così come la reggia di Attila. Non lontano dal recinto vi era un grande bagno che Onegesius, che aveva un potere secondo solo ad Attila tra gli Sciti, avevano costruito, andando a prendere le pietre dalla terra di Pannonia. Non vi erano, infatti, ne pietre né un albero tra i barbari che vivono in quelle parti, ma essi usano legname importato. Il costruttore del bagno, preso come prigioniero da Sirmio, pensava che avrebbe riavuto la sua libertà come premio per il suo lavoro geniale. Ma rimase deluso e cadde in un disagio maggiore della schiavitù, tra gli Sciti, perché venne soprannominato uomo vasca da bagno, e dovette attendere, lui e la sua famiglia, ai bagni [del re].”

“Vi erano molti gruppi di donne sotto quelle bende, e tutte intonavano canti Sciti. Quando fu giunto presso la casa di Onegesio, per la strada che va verso il palazzo, la moglie di Onegesio uscì con molti servi, alcuni manicaretti di carne e altri vini, e (questo è il più grande onore fra gli Sciti) lo salutò e gli chiese di prendere il cibo che aveva portato per lui con cordiale ospitalità. Per compiacere la moglie del suo amico intimo, mangiò seduto sul suo cavallo, e i barbari che lo accompagnano sollevarono il piatto d’argento per lui. Dopo aver assaggiato il vino offerto si recò al palazzo, che era superiore alle altre case, e situato in un luogo più elevato.”

L’ambasceria pranzò e cenò a casa di Onegesio. Onegesio non poté cenare con loro perché recatosi da Attila per riferirgli questioni importanti, tra cui l’incidente del figlio di Attila che si era rotto la mano destra. Dopo aver cenato, l’ambasceria piantò le tende vicino alla residenza di Attila, “in modo che Massimino, quando avesse dovuto recarsi da Attila, oppure andare in conferenza con altri uomini della sua corte, non si trovasse troppo distante da loro”.

VITA DA UNNI

Prisco, passaggiando di fronte al recinto della casa, si imbattè su un uomo in abito unno che lo salutò sorprendentemente in greco, dicendo: “Salve” (χηαιρε). Prisco si meravigliò che un Unno parlasse perfettamente il greco. Infatti, spiega Prisco, “essendo una miscela di popoli, oltre alla propria lingua barbara, coloro che hanno rapporti con i Romani coltivano anche la lingua degli Unni dei Goti, ma anche quella dei latini; ma non è facile per nessuno di loro di parlare nella lingua ellenica, ad eccezione di quelli portarono come prigionieri dalla Tracia e dal litorale dell’Illiria. Ma quando ci si reca in quei luoghi, costoro sono facilmente riconoscibili per gli stracci e lo squallore dei loro volti, di uomini che hanno incontrato la sfortuna. Ma quest’uomo era come uno Scita ben vestito, di quelli che vivono nel lusso, e aveva i capelli tagliati tutto intorno”. Alla richiesta di spiegazioni, l’unno rispose che “era un greco di nascita, e che si era recato per commercio a Viminacium, la
città della Mesia sul fiume Danubio, era vissuto lì per molto tempo e aveva sposato una donna molto ricca. Ma quando la città passò sotto i barbari era stato spogliato della sua ricchezza, e, insieme ai beni che erano appartenuti a lui era, stato consegnato ad Onegesius nella distribuzione del bottino. Infatti l’elite degli Sciti, dopo Attila, aveva preso per se i prigionieri selezionati tra i benestanti, perché sarebbero stati riscattati per somme più alte. Aveva combattuto con coraggio nelle battaglie successive con i Romani e la nazione degli Akatiri, e, dopo aver dato al suo padrone barbaro, secondo la legge degli Sciti, quello che aveva guadagnato durante la guerra, aveva ottenuto la sua libertà. Aveva sposato una donna barbara e avuto dei figli, era partecipe della tavola di Onegesius e conduceva, ora, una vita migliore di quella che aveva in precedenza”. L’Unno (di origini romane) cominciò una lunga invettiva contro la civiltà romana:

“Tra gli Sciti, così disse, gli uomini sono abituati a vivere a proprio agio dopo aver partecipato ad una guerra, e ciascuno gode di quello che ha, con pochi problemi, o nessuno, e senza tribolazioni. Tra i romani, invece, gli uomini facilmente si rovinano in guerra, in primo luogo perché ripongono le loro speranze di sicurezza negli altri, dal momento che a causa dei tiranni non tutti gli uomini sono autorizzati ad usare le armi. Per coloro che le usano, la vigliaccheria dei loro generali, quando non possono sostenere l’andamento della guerra, è ancor più pericolosa. In tempo di pace, inoltre, le circostanze sono più gravi dei mali delle guerre, a causa delle tasse molto pesanti e delle ingiustizie subite per mano degli uomini malvagi, dal momento che le leggi non sono imposte a tutti in egual modo. Se il trasgressore della legge appartiene alla classe facoltosa, è improbabile che egli paghi la pena per il suo misfatto, e se invece dovesse essere povero e ignorante su come gestire il processo, sicuramente avrà inflitta la pena secondo la legge – se non finisce la propria vita prima della fine del processo. Infatti il corso di questi procedimenti si protrae sempre a lungo, e per loro bisogna spendere una grande quantità di denaro. Probabilmente la sofferenza più grave di tutte è quella di dover ottenere, spesso, i diritti della legge a pagamento. Nessun uomo offeso sarà mai garantito in un tribunale se non mette da parte un po’ di soldi per il giudice e i suoi assistenti.”

La risposta di Prisco fu la seguente:

“Gli risposi, mentre stava proponendo questo e molti altri argomenti, suggerendogli che avrebbe dovuto ascoltare anche le argomentazioni dalla mia parte. Poi dissi che i fondatori della costituzione romana furono uomini saggi e nobili, con il risultato che oggi le varie questioni non vengono amministrate a casaccio. Vengono nominati magistrati per essere custodi della legge e altri per prestare attenzione alle armi e praticare le esercitazioni militari, e sono incaricati di nessun altro compito diverso da quello di essere pronti per le battaglie, e di andare in guerra con fiducia, come si va ad un esercizio familiare, essendo stata eliminata in precedenza la paura attraverso la formazione. Altri sono impegnati nell’agricoltura e la cura del territorio, e sono stati nominati per sostenere se stessi, e coloro che combattono per loro conto, attraverso la raccolta della tassa militare. E altri ancora sono assegnati per provvedere a coloro che abbiano subito un torto – uomini che si prodigano a sostegno delle richieste di coloro che non possono, a causa di una carenza nella loro natura, far valere i propri diritti, e giudicano per imporre il rispetto della legge; e non si trascura dunque in nessun modo l’assistenza per coloro che si presentano dinnanzi ai giudici – tra questi uomini ve ne sono di coloro che fanno in modo che chi ha ottenuto una sentenza dai giudici possa ottenere il suo risarcimento, e che l’unico condannato per illecito non debba essere costretto a pagare più di quanto la decisione dei giudici abbia sancito. Se coloro che hanno l’incarico di tenere tali questioni sotto la loro cura non esistessero, e le ragioni di entrambi non fossero esattamente valutate nella stessa causa, il vincitore di una causa potrebbe procedere contro il suo nemico troppo severamente, oppure colui che abbia ottenuto una sentenza negativa persisterebbe nella sua tesi sbagliate. Viene stabilita, inoltre, una somma fissa di denaro, per tali uomini, dovuta da chiunque muova una causa, come quella pagata dagli agricoltori ai soldati. Non è giusto, risposi, sostenere colui che ti viene in aiuto e ripagare la sua gentilezza ? Proprio come il provvedere al proprio cavallo è un vantaggio per il cavaliere, la cura dei suoi animali per il pastore, dei suoi cani per il cacciatore, e di altre creature agli uomini che ne traggono la propria protezione e assistenza. Quando gli uomini pagano il prezzo per accedere alla giustizia e perdono la causa, sono soliti attribuire questa disgrazia ad una ingiustizia subita, e a nessun’altra cosa.”

“Per quanto riguarda il tempo impiegato per le cause, che è ritenuto troppo a lungo, se ciò dovesse accadere, è dovuto piuttosto alla preoccupazione per la giustizia, perché i giudici non potrebbero agire con giustizia, operando in modo sbrigativo. È meglio che, riflettendo, emettano una sentenza in ritardo, piuttosto che commettano una ingiustizia per la fretta, offendendo la persona, ma anche Dio stesso, che è il fondatore della giustizia. Le leggi sono imposte a tutti, anche l’imperatore vi è sottoposto, e obbedisce, e non è vero che il benestante può oltraggiare i poveri impunemente, a meno che qualcuno non sfugga alla punizione eludendo il pagamento. Questa fuga non è solo una prerogativa dei ricchi, ma ogni povero potrebbe anche ricorrervi. Infatti, anche se sono colpevoli, potrebbero non ottenere la giusta punizione a causa della mancanza di prove, e questo avviene tra tutti i popoli, non solo tra i Romani. Per la libertà che aveva ottenuto, dissi poi, che lui avrebbe dovuto ringraziare la fortuna, e non il suo padrone che lo aveva condotto alla guerra. In effetti, per inesperienza, avrebbe potuto morire per mano del nemico o, in fuga, sarebbe stato punito dal suo proprietario. I romani sono abituati a trattare i loro servi in maniera migliore. Essi mostrano l’atteggiamento dei padri o degli insegnanti nei loro confronti, in modo da condurli dalle abitudini volgari a quelle più sobrie, e ciò che si prefiggono viene pensato come un bene per loro; ma i loro padroni li castigheranno per i loro peccati come farebbero con i propri figli. Non è lecito infliggere la morte su un servo, come lo è per gli Sciti. Ci sono anche molti altri modi per conferire la libertà, dei quali chiunque può beneficiare, non solo quando sono ancora in vita, ma anche quando muoiono, dopo aver organizzato le loro proprietà come vogliono. E qualunque cosa l’uomo progetta per i suoi beni, alla sua morte, è giuridicamente vincolante.”

L’interlocutore di Prisco, piangendo, rispose che “le leggi erano eccellenti e così la costituzione dello stato romano, ma che i governanti stavano mandando tutto in rovina, non avendo provveduto ad esso come i loro predecessori”.

INCONTRO CON ONEGESIO

La conversazione fu interrotta dall’uscita di qualcuno dall’abitazione di Onegesio. Prisco chiese a quest’ultimo quando avrebbe potuto ottenere un incontro con Onegesio. “Mi rispose che avrei potuto incontrarlo se avessi aspettato ancora un poco, perché stava per uscire”. Poco dopo effettivamente Onegesio uscì e Prisco gli disse “che l’ambasciatore romano lo salutava e che ero giunto con i regali per lui, e che recava anche l’oro
inviato dall’imperatore. Chiesi quando e dove si sarebbe potuta tenere una discussione con Massimino, in quanto quest’ultimo era ansioso di avere un incontro. Ordinò quindi ai suoi
assistenti di accettare l’oro e i doni e mi disse di riferire al Massimino che sarebbe venuto subito da lui. Quindi tornai e annunziai che Onegesio era a portata di mano. E subito questi giunse alla tenda”. Massimino disse a Onegesio che “che era giunto il momento in cui Onegesio avesse maggiore onore tra gli uomini, se si fosse recato dall’imperatore e, con la sua intelligenza, avesse messo ordine tra le controversie e ristabilito la concordia tra Romani e Unni. Disse poi che ci sarebbe stato una vantaggio, non solo per entrambe le nazioni, ma avrebbe anche ottenuto molti benefici per la propria casa, in quanto lui e i suoi figli sarebbero divenuti, per sempre, amici dell’imperatore e della sua razza”. Prisco riferisce che la risposta di Onegesio fu:

“Onegesio allora disse: ‘E quali azioni potrebbero essere gratificanti per l’imperatore, e come le controversie potrebbero essere risolte secondo lui ?’ Massimino rispose che, dopo aver attraversato il territorio romano, si sarebbe guadagnato la gratitudine dell’imperatore e che le controversie [si sarebbero risolte] mediante un esauriente esame delle loro cause e la loro rimozione secondo i termini della pace. L’altro rispose che avrebbe riferito all’imperatore e i suoi ministri le cose che Attila desiderava. ‘O forse i romani pensano’, disse, ‘che mi discosterò dai suoi propositi a tal punto da tradire il mio signore, trascurare la mia educazione tra gli Sciti, le mie mogli e i miei figli; e ritengono che la schiavitù sotto Attila non è migliore della ricchezza tra i romani ?’ Egli aggiunse poi che sarebbe stato più vantaggioso per lui, rimanendo nel suo paese, placare lo spirito del suo signore, assecondando i suoi motivi per essere arrabbiato con i romani, piuttosto che, andando da loro, sottomettersi [e portare] la colpa di aver fatto cose diverse da quanto sembrasse meglio per Attila.”

La discussione finì qui.

Il giorno dopo Prisco si recò al recinto di Attila con i doni per la moglie Kreta, da cui Attila aveva avuto tre figli, di cui il maggiore era divenuto capo degli Akatziri. Prisco racconta che:

All’interno del recinto vi erano molte case, alcune costruite con tavole incise, ben assemblate, e con altre di travi piallate, che erano poste su travi che formavano delle piattaforme; e a partire dal terreno quelle piattaforme si elevavano ad un’altezza moderata: qui abitava la moglie di Attila. Ebbi il permesso di accedere dai barbari che erano alla porta e giunsi da lei [che era] sdraiata su un giaciglio morbido. Il pavimento era coperto di tappeti di lana infeltrita. Un certo numero di servitori erano dietro a lei in cerchio, e le ancelle, sedute sul pavimento di fronte a lei, erano intente a ricamare con colori raffinati la biancheria da inserire come ornamento sulle loro vesti barbariche. Avvicinatomi, la salutai, presentai i nostri doni e poi uscii.

Prisco si diresse dunque verso l’altra casa in cui Attila casualmente si trovava, in attesa dell’uscita di Onegesio. Attila, uscito dalla sua casa con Onegesio e con un atteggiamento altezzoso, “e molti che avevano controversie tra di loro si recavano da lui e ricevevano il suo giudizio. Poi tornò in casa e ricevette gli ambasciatori barbari venuti in visita da lui”.

TENTATIVO DI DIROTTARE ATTILA CONTRO LA PERSIA

Mentre Prisco era in attesa di Onegesio, gli ambasciatori romano-occidentale si accostarono a Prisco chiedendogli come stesse procedendo la sua missione diplomatica. Prisco chiese a sua volta come stesse andando la loro, e “risposero che non aveva cambiato idea, ma stava per dichiarare guerra a meno che Silvano, o le coppe, non gli fossero stati consegnati”. A questo punto:

“Eravamo [tutti] affascinati dal barbaro per la sua irragionevolezza, e Romolo, un ambasciatore esperto in molti affari, prese il discorso e disse che la sua fortuna più grande, e il potere derivato dalla buona sorte, lo avevano innalzato in modo tale che non poteva acconsentire ad alcuna proposta, a meno che non fosse pensata e venuta da se stesso. Infatti nessuno, che avesse mai governato la Scizia, o qualsiasi altra terra, aveva realizzato così grandi cose in un tempo così breve, dal momento che governava anche le isole dell’Oceano e, oltre a tutta la Scizia, teneva anche i romani al pagamento del tributo. Egli mira, disse, a grandi risultati oltre a quelli ottenuti fin ora, e desidera andare contro i Persiani ed espandere il suo territorio in misura ancora maggiore.”

“Quando uno di noi chiese quale strada avrebbe potuto prendere [Attila] contro i Persiani, Romolo rispose che la terra dei Medi non è separata da grande distanza rispetto alla Scizia, e che gli Unni non erano all’oscuro di questo percorso. Molto tempo fa l’avevano praticato quando la fame era dilagata nel loro paese, e i Romani non li aveva fermati a causa della guerra, che stavano combattendo in quel momento. Basich e Kursich, due uomini che in seguito erano giunti a Roma per stipulare un’alleanza, essendo della famiglia reale Scita, e condottieri di una vasta orda, allora erano avanzati fin nel territorio dei Medi. Coloro che parteciparono narrarono poi di aver attraversato un paese deserto, e guadato una certa palude, che Romolo pensava fosse la Meotide, trascorsero quindici giorni di attraversamento su alcune montagne, e così scesero nella Media. Un esercito persiano piombò su di loro mentre stavano saccheggiando e invadendo la terra, e, trovandosi più in alto di loro, riempì l’aria con di frecce in modo che, circondati e in pericolo, gli Unni dovettero battere in ritirata e fuggire attraverso le montagne. Del loro scarso bottino, la maggior parte venne recuperata dai Medi. Rimanendo vigili a causa del nemico che li inseguiva presero un’altra strada, e, dopo aver marciato … (testo perduto) … giorni dalla fiamma che sale dalla pietra sotto il mare giunsero a casa. Così, essi conobbero il paese dei Medi che non è lontano dalla Scizia. Attila, se vi si volesse recare, non avrebbe troppi problemi, né dovrebbe affrontare un lungo viaggio, e così potrebbe sottomettere i Medi, i Parti e Persiani, e costringerli al pagamento di un tributo, poiché dispone di una forza militare a cui nessuna nazione può resistere.”

“Quando lo incitammo a muoversi contro i Persiani, e portare la guerra contro di loro, invece che da noi, Costanziolo rispose che temeva che, dopo aver sottomesso i Persiani con facilità, Attila sarebbe tornato come un tiranno, anziché un amico, verso di noi. Al momento gli abbiamo portato dell’oro per il bene del suo rango, ma se dovesse sottomettere i Parti, i Medi, e i Persiani, non potrebbe più sopportare il dominio dei Romani indipendente da lui, ma, considerandoli suoi servitori, potrebbe apertamente imporre condizioni dure e intollerabili su di essi. Il rango con cui viene menzionato Costanziolo era quello di generale dei Romani e maestro delle milizie, lo stesso titolo che Attila avrebbe ricevuto dall’imperatore come pretesto per giustificare il tributo; così i tributi erano stati inviati a lui, con la scusa di disposizioni militari fornite ai generali. Perciò, disse, dopo che i Medi, i Parti e i Persiani fossero [stati] sottomessi avrebbe potuto scrollarsi di dosso il titolo con cui i romani avevano voluto insignirlo e il grado con cui pensavano di averlo onorato, e li avrebbe costretti a rivolgersi a lui come imperatore, invece di generale. Anche adesso, quando era arrabbiato, era solito affermare che i suoi servi erano i generali di quel sovrano, e che lui stesso aveva un potere di pari grado rispetto agli imperatori dei Romani. Si verificherebbe, insomma, un aumento del suo potere attuale, e [tutto questo] Dio lo aveva già rivelato nel portare alla luce la spada di Ares. Questo era un oggetto sacro onorato tra i re Sciti, da quando era stato dedicato al [dio] che sovrintendeva alle guerre. Era stata nascosta in tempi antichi e poi scoperta attraverso la rivelazione di un bue.”

Onegesio accompagnò Massimino alla presenza di Attila, e all’uscita Massimino riferì a Prisco che “il barbaro avrebbe voluto o Nomo il console, oppure Anatolio il senatore, inviati da lui come ambasciatori, e non avrebbe ricevuto alcun altro tranne gli uomini nominati. Quando Massimino ebbe risposto che, nominando degli uomini per un’ambasciata, questo li avrebbe necessariamente resi sospetti all’imperatore, Attila rispose che se non avesse accettato di fare ciò che chiedeva, la controversia sarebbe stata risolta con le armi”.

A BANCHETTO CON ATTILA

La scena rappresentata è tratta dal frammento 8 della storia di Prisco:
“Quando arrivò la sera, vennero accese le torce e due barbari vennero avanti davanti ad Attila e cantarono canti composti da essi stessi, inneggiando alle sue vittorie e alle sue grandi gesta militari. […].”
Attila è al centro; il giovane alla sua sinistra è probabilmente suo figlio Ellak (o Ernach), mentre le donne in alto a destra e in alto a sinistra sono le sue mogli (tra cui Kreka). Prisco è rappresentato a destra, mentre tiene in mano il suo libro ἹΣΤΩΡΙΑ (una scrittura erronea della parola greca ἹΣΤΟΡΙΑ, o Historia).
Dopodiché, gli ambasciatori furono ammessi a partecipare a un banchetto con Attila, che avrebbe avuto inizio verso l’ora nona del giorno. “I coppieri ci offrirono una coppa, secondo l’uso locale, in modo che avremmo potuto pregare prima di sederci. Quando questo venne fatto, e assaggiammo dalla coppa, ci recammo ai posti in cui saremmo stati seduti durante la cena”. Prisco racconta che:

“Tutte le sedie erano allineate lungo le pareti della casa su entrambi i lati. Nel mezzo sedeva Attila su un divano, un altro divano era posto di dietro di lui, e quindi lui si recò al suo letto, che era coperto con lenzuola bianche e ricami colorati per ornamento, così come usano gli Elleni e i Romani nei preparativi per coloro che si sposano. La posizione di coloro pranzavano a destra di Attila era considerato più onorevole, rispetto alla posizione a sinistra, dove ci capitò di essere e dove sedette Berichus – un Goto ma pur sempre un nobile tra gli Sciti – accanto a noi. Onegesius sedette su una sedia a destra del divano del re, e, opposti ad Onegesius, due dei figli di Attila sedettero sulle loro sedie. Il figlio seduto sul suo divano, non vicino a lui, ma all’estremità, guardava a terra in segno di rispetto per suo padre.”

“Quando tutti furono disposti in ordine un coppiere si avvicinò e offrì ad Attila del vino in una coppa in legno. Lo prese e salutò […], e quelli onorati dal saluto si alzarono. Non era giusto per costoro sedersi fino a che il re non avesse assaggiato il vino o bevuto e avesse reso la tazza al coppiere. Tutti i presenti lo celebrarono nello stesso modo, allorché egli fu seduto, prendendo le tazze e, dopo un saluto, degustarono. Ogni ospite aveva il suo proprio coppiere che doveva farsi avanti in ordine quando coppiere di Attila si ritirava. Dopo che il secondo uomo fu onorato e poi gli altri in ordine, Attila accolse anche noi con lo stesso rituale secondo l’ordine dei sedili. Quando tutti furono onorati da questo saluto e i coppieri furono usciti, dei tavoli per tre o quattro o più uomini vennero disposti accanto a quello di Attila. Da questi ognuno era in grado di prendere le vivande poste nel piatto senza lasciare la disposizione originale di sedie. Il servitore di Attila fu il primo ad entrare, portando un piatto pieno di carne, quindi i servitori che aspettavano sul retro posero il pane e le vivande sui tavoli. Infatti il cibo raffinato che era stato preparato, veniva servito su piatti d’argento, per gli altri barbari e per noi, perché Attila non voleva altro che della carne su un tagliere di legno. Egli si mostrò temperante in tutti i modi, poiché mentre calici d’oro e d’argento erano stati offerti a tutti gli uomini durante la festa, la sua coppa era di legno. Il suo vestito era molto semplice, avendo egli cura di niente altro che di essere pulito; né la spada che portava al fianco, né le fibbie ai suoi stivali barbari, né le briglie del suo cavallo, erano adornate d’oro o di gemme come quelle di altri Sciti, o con qualcosa di valore elevato.”

E’ sorprendente una cosa della descrizione che Prisco fa di Attila. In genere i topoi con cui gli storici romani descrivevano il “tiranno” erano l’ingordia, l’ebbrezza, la dissolutezza, mentre invece il “buon sovrano” era descritto come parco nel mangiar e nel bere e e umile nel vestire. Attila viene descritto da Prisco con i topoi del “buon sovrano”: mentre tutti gli altri mangiavano e bevevano usando piatti e calici d’oro o d’argento, lui si accontentava di un piatto e di un calice di legno, e anche il suo vestito era umile, per niente adornato d’oro o di gemme come quelle di altri Unni, o con qualcosa di valore elevato. Prisco rinuncia al dualismo stereotipato civiltà-barbarie, in cui i Romani sono civili e buoni e gli Unni sono barbari e cattivi, si sforza di andare sul grigio. Così come ci sono romani buoni e cattivi, anche gli unni possono essere più o meno buoni o cattivi. E anche la conversazione tra Prisco e il romano di lingua greca, che era riuscito a diventare da schiavo un unno benestante, mette in dubbio la superiorità della civiltà romana, o quantomeno ne mette in evidenza i possibili aspetti negativi (come la corruzione). Per Prisco Attila era per molti aspetti un sovrano migliore di Teodosio II, peccato che fosse un nemico. Certo Prisco non tace la crudeltà di Attila e i suoi aspetti negativi, ma mette in evidenza anche degli aspetti positivi taciuti da altre fonti, che fanno un ritratto completamente nero del re unno. Prisco va sul grigio. Questo è il seguito del resoconto sul banchetto:

“Quando il cibo posto prima sui piatti venne tutto consumato, tutti noi ci alzammo in piedi e nessuno tornò al suo posto fino a quando ciascuno di noi, nell’ordine precedente, ebbe bevuto il calice di vino che gli venne offerto, con la preghiera che Attila potesse godere di salute. Quando egli fu onorato in questo modo tornammo a sederci, e su ogni tavolo venne posto un secondo piatto di vivande. Dopo che tutti ebbero mangiato, ci alzammo nello stesso modo, nuovamente bevemmo il vino e tornammo a sederci.”

“Come si fece sera, vennero accese delle torce di pino per illuminare, e due barbari, avanzarono di fronte ad Attila, intonando canzoni che avevano composto, cantando le sue vittorie e le sue virtù in guerra. Tra coloro che, durante la festa avevano ascoltato quelle canzoni, alcuni si dilettavano nei versi, e, ricordando le guerre passate, si commossero, mentre altri, i cui corpi erano ormai indeboliti dal tempo, e il cui spirito era stato costretto al riposo, cedettero alle lacrime. Dopo i canti uno Scita, certamente folle, si fece avanti, e costrinse tutti a ridere pronunciando parole mostruose e incomprensibili, niente affatto sano di mente. Dopo di lui entrò il Moro Zercone.”

“Quest’uomo, che tutti chiamavano Scita, era [in realtà] della razza dei Mauri. A causa della deformità del suo corpo, la pronuncia blesa della sua voce, e il suo aspetto, era oggetto di risate. Lui era decisamente corto, gobbo di spalle, con i piedi distorti, e il naso rivelato solo dalle narici, con la parte superiore piatta. Era stato presentato ad Aspar, figlio di Ardaburio, durante il periodo trascorso in Libia; era stato poi catturato quando i barbari invasero la Tracia e portato al re Scita. Attila non poteva sopportare la vista di lui, ma Bleda ne era estremamente soddisfatto, non solo quando pronunziava parole comiche, ma anche quando camminava in silenzio e trascinava così il suo corpo goffamente. Era con lui quando banchettava e quando era in missione; in quelle occasioni gli faceva indossare l’armatura e l’elmo, e questo gli provocava allegria. Bleda lo teneva in grande considerazione e, quando fuggì insieme ad altri prigionieri romani, trascurò completamente gli altri, ma ordinò che lui fosse ricercato con ogni diligenza. Quando lo vide, catturato e riportato a lui in catene, si mise a ridere e, dopo aver calmato la sua rabbia, gli chiese il motivo della sua fuga, e perché egli considerasse la vita dei romani migliore di quella tra di loro. Zercone rispose che la sua fuga era certamente un crimine, ma che riteneva di aver ragione per il suo crimine, perché a lui non era stata mai concessa una moglie. Bleda, ridendo sempre più, gli gli diede allora, tra le donne di buona nascita, una moglie che era stata una delle assistenti della regina, ma che, a causa di qualche manchevolezza, non era più al suo servizio. Così passava tutto il suo tempo in compagnia di Bleda. Dopo la morte di quest’ultimo, Attila mandò Zercone come dono per Ezio, il generale dei Romani d’occidente, che lo rimandò ad Aspar.”

“Edeco lo aveva convinto a tornare da Attila per riprendersi, con la sua influenza, la moglie che aveva ricevuto in matrimonio nel paese dei barbari, quando era stato favorito da Bleda. L’aveva infatti lasciata in Scizia, quando fu inviato come dono di Attila ad Ezio. Ma fu deluso nella sua speranza, in quanto Attila era arrabbiato perché egli era tornato nel suo paese. Al momento del banchetto, egli si fece avanti, e per suo aspetto, il suo vestito, la sua voce, e le parole da lui pronunciate confusamente, poiché mescolava la lingua degli Unni e dei Goti con quella dei Latini, fece rallegrare tutti, tranne Attila, e causò risate a non finire.”

“Ma Attila rimase immobile e la sua espressione inalterata, né con la voce, né con i gesti egli rivelò di aver avuto una risata in lui, fino al momento in cui il suo figlio più giovane – Ernach era il nome del ragazzo -, entrò e si fermò davanti a lui. Allora pizzicò le guance del ragazzo e lo guardò con occhi sereni. Mi sorprese che egli tenesse poco in conto i suoi figli più grandi, ma desse tutta la sua attenzione a questo, fino a quando un barbaro seduto accanto a me, che conosceva la lingua latina, avvertendomi di non ripetere nulla di quello che stava per dirmi, narrò che i veggenti avevano profetizzato ad Attila che la sua razza sarebbe un giorno finita, ma sarebbe stata restaurata da questo suo figlio. Allorché la notte era ormai avanzata, ci ritirammo, in quanto non avevamo più voglia di bere.”

RITORNO A CASA

Il giorno dopo gli ambasciatori si recarono da Onegesio chiedendo di essere congedati, e scoprirono che anche Attila era intenzionato a mandarli via. Attila scrisse le lettere che dovevano essere consegnate agli ambasciatori e consegnate all’Imperatore Teodosio II, con l’aiuto di Rusticio. Rusticio, spiega Prisco, “nato nella terra della Mesia Superiore, era stato catturato in guerra e, a causa della sua abilità nel parlare, era stato impiegato nella redazione delle lettere per il barbaro”. Prisco riferisce che:

“Quando uscì dalla riunione lo supplicammo per la liberazione della moglie di Sillo e dei suoi figli, che erano stati venduti come schiavi durante la presa di Ratiaria. Egli non si oppose alla loro liberazione, ma voleva venderli per una grande somma di denaro. Lo supplicammo a pietà per la loro sfortuna e di prendere in considerazione la loro felicità prima di tutto; andò ad Attila e fece rimandare la donna per 500 pezzi d’oro, mentre inviò i ragazzi come dono per l’imperatore.”

Dopo aver cenato a casa di Adamis, gli ambasciatori tornarono nelle loro tende e il giorno successivo furono ammessi a un nuovo banchetto con Attila. Gli ambasciatori scoprirono che quello che era “seduto accanto a lui sul divano non era il maggiore dei suoi figli, ma Oebarsius, che era suo zio per parte di padre. Durante il banchetto ci mostrò gentilezza nel suo discorso e ci ordinò di dire all’imperatore che concedesse a Costanzo, che era stato mandato a lui da Ezio in qualità di segretario, la moglie che gli aveva promesso. Costanzo era giunto da Teodosio con gli ambasciatori di Attila, e gli aveva detto che avrebbe concluso una lunga pace tra Romani e Unni, se l’imperatore gli avesse dato una moglie ricca”. L’imperatore aveva accettato e aveva detto che gli avrebbe concesso la figlia di Saturnino ma Eudocia aveva distrutto la reputazione di Saturnino e Zenone, comandante di un esercito di Isauri, impedì il matrimonio, promettendola in sposa a Rufo, uno dei suoi assistenti.  “In occasione della festa, quindi, il barbaro ordinò a Massimino di dire all’imperatore, che non voleva essere ingannato nelle aspettative sollevate, perché non si addice ad un imperatore il fatto di mentire. Attila diede questi comandi, e Costanzo promise di dargli del denaro se una donna di rango, presso i Romani, fosse stata fidanzata con lui.”

Dopo tre giorni gli ambasciatori furono definitivamente congedati. Attila inviò con loro Berico come ambasciatore presso Teodosio II. Durante il viaggio Berico cambiò insolitamente atteggiamento divenendo da gentile a ostile:

“Finché attraversammo la Scizia, Berico ci accompagnò nel viaggio e sembrò mite e cordiale; ma quando traversammo il Danubio, adottò verso di noi l’atteggiamento di un nemico, per un motivo o un altro, appreso dai suoi servi. Attila aveva ordinato a tutta l’élite della sua corte di mostrare amicizia a Massimino con dei regali, e ciascuno, tra cui Berico, aveva inviato a lui un cavallo. Accettando alcuni di questi, Massimino ne rimandò indietro il resto, essendo desideroso di dar prova di moderazione nelle sue pretese. Berico riprese così il suo cavallo, e non volle continuare a viaggiare o mangiare con noi. Continuò a comportarsi così, sebbene ci fosse [stato] un patto di amicizia per noi nella terra dei barbari.”

Dopo essere passati per Filippopoli, si fermarono ad Adrianopoli e lì chiesero spiegazioni sul suo comportamento ostile. Dopo il chiarimento il viaggio riprese. Incontrarono Bigilas sulla via del ritorno, riferendogli la risposta di Attila alla loro ambasciata e proseguirono il loro cammino verso Costantinopoli. Tuttavia, una volta a Costantinopoli, Berico tornò ad essere loro ostile:

“Quando giungemmo a Costantinopoli pensammo che Berichus avesse placato la sua rabbia, ma non aveva mutato la sua natura selvaggia. Egli si ritirò di nuovo in disaccordo, incolpando Massimino di aver detto, quando aveva attraversato la Scizia, che il generale Areobindo e Aspar non avevano avuto influenza con l’imperatore, e che teneva le loro cariche in disprezzo, perché aveva la prova della loro incostanza barbara.”

BIGILAS IN TRAPPOLA

Nel frattempo Bigilas, giunto nell’accampamento unno, fu circondato dagli Unni che lo perquisirono e trovarono le 50 libbre d’oro. Attila gli chiese il motivo per cui avesse così tanto oro, con sé e Bigilas gli rispose che “era per il suo approvvigionamento e di coloro che lo accompagnavano, dal momento che, per mancanza di forniture o scarsità di cavalli o di animali da trasporto, nel corso del lungo viaggio, non avrebbe potuto portare a compimento con zelo l’ambasciata. Era stato anche rifornito per l’acquisto di fuggitivi, in quanto molti nel territorio romano lo avevano pregato di liberare i loro parenti”. Attila rispose infuriato:

“Quindi Attila parlò: ‘Non più, bestia inutile, fuggirai alla giustizia con l’inganno, né ci sarà alcuna scusa sufficiente per te per evitare la punizione; la tua munizione di denaro contante è maggiore di quella necessaria per i vostri approvvigionamenti, o per i cavalli e gli animali da trasporto che potreste acquistare, o per la liberazione dei prigionieri, una cosa, inoltre, che ho vietato a Massimino di fare quando venne da me.’

Alla minaccia di uccidergli il figlio (che Bigilas aveva portato con sé), Bigilas confessò:

“Quando vide il figlio sotto la minaccia di morte prese a piangere e lamentarsi, e chiese ad alta voce che, per giustizia, fosse rivolta la spada contro di lui e non contro un giovane che non aveva fatto nulla di male. Senza alcuna esitazione, parlò dei piani fatti da lui stesso, Edeco, l’eunuco, e l’imperatore, e pregò incessantemente per essere messo lui a morte, e suo figlio liberato. Quando Attila fu certo, in base alle cose raccontate da Edeco, che non stava dicendo bugie, ordinò che fosse messo in catene e promise di non liberarlo fino a quando, dopo aver rimandato suo figlio, non gli fossero state portate altre cinquanta libbre d’oro come riscatto. L’uno rimase prigioniero e l’altro venne rimandato in territorio romano, quindi Attila inviò Oreste ed Eslas a Costantinopoli.”

Secondo Prisco Attila:

Ordinò ad Oreste di appendere al collo la borsa in cui Bigilas aveva messo l’oro da dare al Edeco, e in questo modo giungere davanti all’imperatore. Dopo averla mostrata a lui e all’eunuco, quindi, chiedere loro se l’avessero riconosciuta. Quindi Eslas prese a parlare a memoria dicendo: ‘Teodosio è il figlio di un padre nobilmente nato; Attila è anche di nobile nascita, essendo succeduto al padre Mundiuch, e ha conservato la sua nobiltà. Teodosio, da quando ha intrapreso il pagamento del tributo a lui, ha gettato la sua nobiltà ed è diventato il suo schiavo. Pertanto, non ha agito con giustizia verso il suo superiore – colui che la sorte ha dimostrato essere il suo padrone – perché ha ordito segretamente un complotto come un miserabile schiavo domestico. Attila non mancherà di biasimare coloro che hanno peccato contro di lui, a meno che Teodosio non gli consegnerà l’eunuco per la punizione’.”

Anatolio e Nomo furono dunque inviati presso Attila per placare la sua rabbia e convincerlo a mantenere la pace secondo gli accordi, e sostenere che la moglie che sarebbe stata promessa in sposa a Costanzo, non aveva nulla da invidiare alla figlia di Saturnino sia in nascita che in ricchezza”. Inoltre Crisafio inviò anche dell’oro per il barbaro per placare la sua ira. L’ambasceria ebbe successo:

Attila, mostrando rispetto per questi uomini, tenne una riunione con loro, in quel luogo, in modo che essi non fossero afflitti dal viaggio. In un primo momento si espresse con arroganza, ma poi, sopraffatto dalla grandezza dei doni e appagato dalle parole concilianti, giurò di mantenere la pace in base agli accordi, a ritirarsi dalla terra dei Romani che si affacciano sul Danubio, e anche di non fare più questioni circa coloro che erano fuggiti presso l’imperatore, se i Romani non avessero più ricevuto altri che fuggivano da lui. Rilasciò quindi Bigilas dopo aver ottenuto cinquanta libbre d’oro, che il figlio aveva portato a lui quando era giunto in Scizia con gli ambasciatori. Fece anche rilasciare moltissimi prigionieri senza riscatto, per quando era ben disposto verso Anatolio e Nomo. Quindi donò loro cavalli e pelli di animali selvatici, con le quali i re Sciti si adornano, e li mandò via con Costanzo in modo che l’imperatore potesse adempiere la sua promessa a lui. Quando gli ambasciatori rientrarono e riferirono tutto ciò che era stato detto e fatto, una donna venne promessa in sposa a Costanzo.

Poco tempo dopo morì Teodosio II (450) e il suo successore Marciano si rifiutò di continuare a pagare il tributo agli Unni. Attila, nel frattempo, aveva ricevuto una richiesta di aiuto da Giusta Grata Onorio, sorella dell’Imperatore d’Occidente Valentiniano III. Interpretandola come un’offerta di matrimonio, Attila chiese come dote metà dell’Impero d’Occidente. Al rifiuto di queste esorbitanti richieste, Attila dichiarò guerra alla pars occidentis. Questo sarà però argomento di un altro articolo.