Decadenza e caduta dell’esarcato: l’iconoclastia e le conquiste dei Longobardi

LA CRISI DELL’ESARCATO
Verso la fine del VII secolo l’esarcato conobbe un processo di decadenza sempre più marcata. La pace raggiunta con i Longobardi nel 680 non riuscì a frenare le mire espansionistiche del ducato di Benevento che nel 687, sotto il comando del duca Romualdo (il figlio di Grimoaldo di cui abbiamo parlato sopra), aveva sottratto ai Bizantini tutta la Puglia a parte Otranto e Gallipoli (cfr. Ravegnani, I Bizantini in Italia, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 118).

Nel frattempo ricominciò anche il conflitto con la Chiesa Romana. Nel 687, in prossimità di un conclave per eleggere un nuovo pontefice, l’arcidiacono Pasquale promise all’esarca Giovanni Platyn un compenso di 100 libbre d’oro nel caso l’avesse appoggiato nella candidatura a Papa. Tuttavia, nonostante il pronto intervento dell’esarca, la votazione terminò con l’elezione di un altro candidato, Sergio. Alla fine Platyn accettò Sergio come pontefice ma a patto che pagasse lo stesso compenso promesso da Pasquale. Secondo il Liber Pontificalis Sergio fece molta fatica a soddisfare la rapace avidità di Platyn, e dovette servirsi in parte degli altari sacri per pagare la somma (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 119). Pochi anni dopo, nel 691-692, di fronte al mancato riconoscimento da parte di Papa Sergio delle decisioni del Concilio Trullano, un concilio convocato dall’Imperatore ma non accettato dal Pontefice, Giustiniano II ordinò al protospatario Zaccaria di arrestare il Santo Padre. Ma gli eserciti dell’esarcato si schierarono a sostegno del Pontefice e Zaccaria, temendo di essere linciato dai soldati, dovette implorare il Santo Padre di avere pietà di lui, e, quando i soldati bussarono alla porta del palazzo del Papa, per la paura si nascose addirittura sotto il letto del Papa (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 120)! Il Papa riuscì a calmare i soldati ammutinatisi e Zaccaria, dopo il bello spavento, lasciò Roma fallendo la sua missione. Ormai l’indisciplina dei soldati dell’esarcato e la loro fedeltà al Papa rendeva ora difficile agli Imperatori usare la forza contro il Santo Padre.

Nel 710 Giustiniano II convocò il Papa a Costantinopoli e i due raggiunsero un accordo: il Papa avrebbe riconosciuto gli atti del Concilio Trullano e in cambio sarebbero stati riconfermati i privilegi alla Chiesa. Mentre il Papa partiva per Costantinopoli, il nuovo esarca, Giovanni Ricozopo si rese reo di aver fatto uccidere quattro dignitari ecclesiastici a Roma, per poi recarsi a Ravenna dove forse venne linciato dalla folla furiosa per il suo empio atto. Forse anche per questo episodio (ma anche per punire alcuni ravennati sospettati di aver congiurato contro di lui anni prima), l’Imperatore lanciò una spedizione punitiva contro Ravenna condotta dallo stratego di Sicilia Teodoro. Costui, arrivato a Ravenna con la flotta, attirò con l’inganno dentro la nave i maggiorenti di Ravenna e li portò a Costantinopoli, dove subirono una triste sorte; Ravenna fu poi saccheggiata (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 122).

Ucciso Giustiniano II in una ribellione, il nuovo imperatore Filippico si dimostrò eretico in quanto sostenitore del monotelismo. Per questo motivo Roma si rivoltò all’Imperatore, con l’appoggio persino del duca bizantino di Roma Cristoforo. Filippico inviò un suo funzionario, Pietro, per ristabilire l’ordine, ma venne sconfitto dal popolo e dall’esercito romano, schieratosi dalla parte del papa e di Cristoforo. Nel frattempo il duca di Spoleto espugnò Classe, il porto di Ravenna, ma fu costretto a restituirla ai Bizantini dal nuovo re longobardo Liutprando (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 123). Nel 713 Filippico fu ucciso in una congiura da Anastasio II, che abolì di nuovo il monotelismo, e si riconciliò con Roma imponendovi come duca il Pietro già menzionato sopra, con la promessa che non ci sarebbero state rappresaglie (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 124).

I PRIMI ANNI DI REGNO DI LEONE III
Riconciliatosi con Roma, l’Impero dovette affrontare l’espansionismo dei Longobardi di Benevento, che nel 717 occuparono Cuma, poi recuperata grazie all’intervento del Papa e del duca di Napoli, e Narni, nel Lazio. Liutprando nel frattempo attaccò Ravenna e occupò per qualche tempo Classe, per poi ritirarsi (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 125). Con l’ascesa dell’Imperatore Leone III, i dissidi tra Roma e Bisanzio vennero di nuovo a galla: poiché il Papa si rifiutava di pagare le tasse, che Leone aveva aumentato, nel 725 l’Imperatore ordinò al dux di Roma Basilio di ordire il suo assassinio; il perfido piano fu però rimandato di qualche tempo, fino a quando l’esarca Paolo non decise di riprovarci di nuovo. La congiura fu però scoperta e i responsabili, il cartulario Giordane e il subdiacono Giovanni Lurion, furono giustiziati, mentre Basilio fu costretto ad entrare in monastero. I Romani si rivoltarono all’esarca e respinsero un altro tentativo di uccidere il pontefice, stringendo un atipica alleanza con i Longobardi di Tuscia e di Spoleto (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 126). L’indisciplina dell’esercito e le varie rivolte stavano mandando in rovina l’esarcato. E i Longobardi ne approfitteranno.

L’ICONOCLASTIA
Nel 726 l’Imperatore Leone III (717-741), salvatore dell’Europa dalle invasioni arabe (nel 717 aveva infatti respinto l’assedio arabo di Costantinopoli, impedendo agli Arabi di porre fine all’Impero e di invadere l’Europa dalla parte dei Balcani), si risolse a dichiarare idolatre le immagini di Cristo, della Madonna e dei Santi, ordinando per questi motivi la loro distruzione. Sembra che prese questa decisione sotto l’influenza dei vescovi iconoclasti (cioè a favore della distruzione delle icone) dell’Asia Minore e a causa di un terremoto che colpì l’Impero, che venne considerato un segno dell’Ira divina, furioso perché le immagini erano venerate (cfr. Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, Torino, 1968, p. 149). L’ordine da parte di Leone III di distruggere le icone religiose non fu però accettato da parte della popolazione dell’Impero, devota alle immagini, e i cittadini dell’Ellade si rivoltarono eleggendo un usurpatore e tentando di deporre l’Imperatore eretico. Ma il loro piano fallì e furono severamente puniti.

Ma anche in Italia l’ordine dell’Imperatore non venne accolto: Papa Gregorio II si oppose strenuamente alla decisione imperiale e in questo atto di insubordinazione fu appoggiato dagli eserciti della Pentapoli e della Venezia, che si rivoltarono e pensarono addirittura di eleggere un usurpatore e di marciare fino a Costantinopoli per deporre Leone III e rimpiazzarlo con il loro candidato alla porpora; ma il pontefice riuscì a convincerli a desistere dal loro proposito di rovesciare Leone III un po’ perché sperava che l’Imperatore si ravvedesse, un po’ perché temeva di trovarsi indifeso contro i Longobardi e dunque non poteva rompere definitivamente con l’Impero (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 127).

Nel frattempo gli uomini di fiducia dell’Imperatore (come il duca di Roma Esilarato) tentarono di ordire l’assassinio del pontefice, ma la popolazione e l’esercito di Roma si opposero ai loro intrighi e vennero catturati e giustiziati. Poco dopo scoppiò anche una rivolta a Ravenna, nella quale fu ucciso l’esarca Paolo. L’Imperatore, furioso per l’assassinio dell’esarca, inviò lo stratego di Sicilia Teodoro a Ravenna per massacrare i rivoltosi. Ma quando i Bizantini sbarcarono a Classe, vennero massacrati dall’esercito di Ravenna e i loro corpi buttati nel Po, dove non fu però possibile pescare, a causa della contaminazione, per parecchio tempo (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 128).

Delle lotte intestine scoppiate nell’esarcato ne approfittarono i Longobardi di Liutprando, che nel 727 occuparono alcuni castelli a ovest di Bologna e forse Bologna stessa, oltre a Osimo (nella Pentapoli). Leone III inviò come nuovo esarca a Ravenna, Eutichio, che tentò come al solito di ordire l’assassinio del Santo Padre. Ma per la strenua opposizione dell’esercito e del popolo romano, gli intrighi fallirono. Nel frattempo Liutprando invase il ducato romano impadronendosi di Sutri. Quando il Papa protestò pretendendo la restituzione della città, Liutprando acconsentì, restituendo però la città non all’Impero, ma agli “Apostoli Pietro e Paolo” (ovvero al Papato). Questa “donazione di Sutri” pose le premesse per la nascita dello stato pontificio (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 130).

Nel 729 l’esarca, per riprendere il controllo del ducato romano, strinse addirittura un’alleanza con Liutprando: avrebbe aiutato il re longobardo a ridurre all’obbedienza i duchi di Spoleto e di Benevento, e in cambio Liutprando lo avrebbe aiutato a riprendere il possesso di Roma. Dopo aver sottomesso i duchi Romualdo II di Benevento e Trasimondo di Spoleto, Liutprando mantenne le promesse ricongiungendosi con Eutichio nell’assedio di Roma, ma successivamente fece un brutto tiro all’esarca, negoziando al posto dei Bizantini le condizioni della resa, impedendo a Eutichio di trattare il pontefice nella posizione di forza che avrebbe desiderato (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 130). Le truppe romane aiutarono l’esarca a sedare un’insurrezione nella Tuscia romana ad opera dell’usurpatore Tiberio Petasio, ma ciò non servì a rendere meno tesi i rapporti tra imperatore e pontefice.

Nel 730 Leone III emise un decreto che decretava la distruzione delle “idolatre” icone religiose, cosa che mandò su tutte le furie il nuovo papa Gregorio III, consacrato il 18 marzo 731. Questi tentò di inviare all’Imperatore per mezzo del messo Giorgio uno scritto dogmatico per persuaderlo dei suoi errori teologici, ma, temendo l’ira dell’Imperatore, il messo si rifiutò di consegnarla, rischiando di essere punito con la radiazione dagli ordini sacerdotali dal Santo Padre. Perdonato dal Papa, Giorgio ritentò la sua missione diplomatica, che tuttavia non riuscì a portare a termine perché catturato e trattenuto per un anno in Sicilia dalle truppe bizantine. Gregorio III allora indisse un sinodo nel novembre del 731, nel quale veniva condannata come eretica l’iconoclastia, ma tutti i tentativi di portare all’Imperatore gli atti del sinodo fallirono, perché tutti gli inviati vennero arrestati da soldati imperiali (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 131). L’Imperatore punì l’insubordinazione del Papa, confiscando le proprietà della Chiesa in Sicilia e Calabria e sottraendo l’Italia meridionale e l’Illirico dalla giurisdizione del Papa.

CAMPAGNE DI LIUTPRANDO CONTRO L’ESARCATO
L’esarca, comprendendo la precarietà della propria posizione, cercò di riavvicinarsi al pontefice, evitando di applicare nella penisola il decreto iconoclasta e regalando al Santo Padre sei colonne di onice poi collocate di fronte all’altare di San Pietro. Nel frattempo Liutprando, approfittando della fragilità dell’esarcato, già pianificava di espandersi a suo danno e di conquistare l’intera penisola. In un anno incerto, forse nel 732, il duca di Vicenza Peredeo e il nipote di Liutprando Ildeprando riuscirono ad espugnare addirittura Ravenna, capitale dell’esarcato. Eutichio riuscì a sfuggire alla cattura rifugiandosi nelle lagune venete, implorando l’aiuto del duca (doge) Orso. Quest’ultimo, convinto da Gregorio III ad aiutare l’esarca, inviò una flotta a recuperare Ravenna. La flotta venetica conseguì un importante trionfo sui Longobardi, uccidendo Peredeo, catturando Ildeprando e recuperando Ravenna per conto di Eutichio (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 132). Rinvigoriti dal successo, i Bizantini, condotti dal duca di Perugia, tentarono di recuperare Bologna, ma la campagna fallì a causa di una sconfitta inflitta loro dall’esercito longobardo posto a difesa di quella città.

Nel 739 il duca di Spoleto, Trasimondo, tradì Liutprando, passando dalla parte del papa e dell’esarca e cedendo al ducato romano la città di Gallese. Ciò provocò ovviamente la reazione iraconda di Liutprando, che aggredì il ducato di Spoleto, costringendo il duca ribelle a implorare la protezione del Papa a Roma. Il re longobardo, dopo aver insediato sul ducato di Spoleto un uomo di sua fiducia, intimò al Papa e al duca di Roma la restituzione di Trasimondo, minacciando la guerra se non l’avessero fatto. Papa e duca rifiutarono e Liutprando conseguentemente invase e devastò il ducato romano, per poi ritirarsi e sottomettere le città del corridoio umbro che collegavano Roma con Ravenna (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 133). Il papa invocò allora l’aiuto di Carlo Martello e avviò con Pavia le trattative per la restituzione del corridoio; inoltre, fornendogli aiuti militari, permise a Trasimondo di ritornare sul trono di Spoleto; in cambio Trasimondo promise che avrebbe aiutato il papa a recuperare i centri sottratti da Liutprando, e che si sarebbe mantenuto fedele al Papa. Ma il mancato mantenimento delle promesse da parte di Trasimondo fece realizzare al nuovo pontefice Zaccaria (succeduto a Gregorio III nel 741) che la soluzione migliore era quella di negoziare per via diplomatica con il re longobardo, che accettò di restituire al ducato romano i centri laziali sottratti in cambio dell’aiuto contro i duchi meridionali ribelli. Nel 742, con l’aiuto delle truppe del ducato romano, Liutprando riuscì a sottomettere Trasimondo e il duca di Benevento, dopodiché si incontrò con Papa Zaccaria a Terni, accettando di restituire al ducato romano il corridoio umbro e quella parte del patrimonio della chiesa romana che era finito in mano longobarda (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, pp. 133-134).

Nel 743, tuttavia, Liutprando invase di nuovo l’esarcato, occupando Cesena e minacciando di espugnare Ravenna; l’esarca, tremebondo, implorò l’aiuto del Santo Padre, il quale, dopo aver cercato invano per via diplomatica di far recedere il re longobardo dai suoi bellicosi propositi, affidò il governo di Roma al duca e si recò a Ravenna, dove fu accolto con sommo gaudio dalla popolazione, che lo ritenevano l’unica speranza di salvezza. Successivamente si recò a Pavia per incontrare il re longobardo e indurlo a ritirare le sue truppe dall’esarcato; il re, convinto dal Papa, acconsentì a restituire all’Impero tutti i territori occupati dai Longobardi in quell’anno e 2/3 del territorio di Cesena (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 134).

L’anno successivo, il 744, Liutprando perì. Il regno longobardo era al suo apogeo.

LA CADUTA DELL’ESARCATO
A Liutprando succedette il nipote Ildeprando, il cui regno durò però soli otto mesi, perché “venne rovesciato da coloro che prima gli avevano giurato fedeltà” (cfr. Jarnut, Storia dei Longobardi, p. 107). I congiurati elessero re Ratchis, il duca del Friuli. Ratchis, al contrario di Liutprando, decise di perseguire una politica non espansionistica ai danni di Bisanzio, concludendo una pace ventennale con il pontefice, molto probabilmente valida per l’intero esarcato (cfr. Ravegnani 2004, ibidem, p. 135). In politica interna, Ratchis cercò, con la promulgazione di nuove leggi, di rendere più giusto il funzionamento della giustizia, combattendo gli abusi dei magistrati e inasprendo le pene per le spie e per coloro si fossero rivoltati ai loro duchi e gastaldi (cfr. Jarnut, ibidem, p. 108). Cercò anche di garantire una maggiore giustizia ed equità ai deboli e ai poveri, oltre che a cercare di favorire un ulteriore integrazione tra Longobardi e Romanici, dando egli stesso l’esempio, sposando una nobile romanica, Tassia, e rinunciando alla designazione di “rex gentis Longobardorum”, facendosi chiamare, a partire dal 746, “princeps” (cfr. Jarnut, ibidem, p. 109). Di fronte però al rafforzarsi dell’opposizione, che gli rimproverava la sua politica conciliatrice con Bisanzio e con il pontefice, Ratchis, cercando di scongiurare una eventuale congiura, decise di accontentare i suoi oppositori, attaccando nel 749 l’esarcato e la pentapoli. Durante l’assedio di Perugia, tuttavia, fu convinto dal papa al ritiro. Nel luglio del 749, vista fallire la campagna contro l’esarcato, gli oppositori al regime di Ratchis si rivoltarono riuscendo infine a deporlo e a costringerlo a farsi monaco (cfr. Jarnut, ibidem, p. 110).

Il suo successore, Astolfo, non solo duca del Friuli ma anche fratello di Ratchis (ah, fratelli traditori!), ripristinò la designazione “re della gente longobarda”, ma vi aggiunse anche “assegnatoci dal Signore il popolo dei Romani”, volendo precisare chiaro e tondo che egli voleva dominare anche i Romani dell’Esarcato (cfr. Jarnut, ibidem, p. 111). Giacché voleva sottomettere tutta l’Italia al suo giogo, riformò l’esercito, rendendo il servizio militare obbligatorio per tutti (che fossero romanici o longobardi, o ricchi o poveri), anche se ovviamente, a causa della loro maggiore disponibilità economica, i ricchi erano quelli meglio armati, mentre i più poveri erano tenuti a munirsi solo di scudo, arco e frecce. Rafforzato l’esercito, nel 750 Astolfo conquistò in Emilia Ferrara e Comacchio, oltre che l’intera Istria. Nel 751 anche Ravenna si arrese all’assedio longobardo. L’esarcato era caduto. Insediatosi a Ravenna, Astolfo decise di parificare il palazzo dell’esarca alla reggia di Pavia e di non integrare nel regno longobardo l’esarcato, intendendo porsi agli occhi dei Romani dell’Italia imperiale come il successore degli esarchi e dell’Imperatore d’Oriente (cfr. Jarnut, ibidem, p. 112).

Ma Astolfo non aveva fatto i conti né con il Papa né con i Franchi, e il regno longobardo entro un venticinquennio avrebbe seguito le stesse sorti dell’esarcato.