La fase iniziale del regno di Teodosio II (408-439)

I PRIMI ANNI DI REGNO

Spentosi l’Imperatore Arcadio il 1 maggio 408, suo fratello Onorio ancora governava la parte occidentale dell’Impero; ma l’amministrazione dell’Oriente romano passò al figlio di Arcadio, Teodosio il Giovane, che all’epoca aveva solo otto anni. La gestione degli affari pubblici fu pertanto affidata al prefetto del pretorio Antemio, il cui nonno era quel Filippo che nel corso del regno di Costanzo II aveva espulso Paolo dalla diocesi di Costantinopoli, sostituendolo con Macedonio.

Per opera di Antemio Costantinopoli fu circondata da alte mura. Era molto stimato e ritenuto l’uomo più prudente della sua epoca, infatti raramente commetteva atti non ben ponderati, ma spesso si consultava con i più giudiziosi dei suoi amici, tra cui vi era il sofista Troilo, eccellente nell’arte filosofica e pari allo stesso Antemio in quanto a saggezza politica. Quasi tutte le cose vennero perciò fatte con il consiglio e la collaborazione di Troilo.

Influenzava una forte influenza sull’Imperatore Teodosio il Giovane anche Pulcheria, sua sorella. Questa principessa non aveva ancora compiuto i quindici anni di età, ma era molto saggia e colta, nonché virtuosa. Ella governò la parte orientale dell’Impero romano virtuosamente. Era in grado di scrivere e conversare perfettamente sia in greco che in latino. Reggeva lo stato in nome di suo fratello, e fece il possibile per educarlo nella maniera migliore possibile in modo da renderlo il principe ideale.

Ella lo pose sotto la tutela degli uomini più istruiti affinché gli insegnassero a cavalcare, e lo istruissero nelle lettere e nell’arte militare. Ma l’Imperatore apprese dalla sorella come essere principesco nelle sue maniere; ella gli insegnò come camminare e vestirsi come s’addice a un principe, nonché come indagare nel modo opportuno sui casi di coloro che si presentavano al suo cospetto con petizioni. Ella lo rese inoltre un cristiano devoto, insegnandogli a frequentare regolarmente la chiesa e a portare rispetto ai preti e a tutti gli uomini religiosi. Ella combatté inoltre zelantemente le eresie.

INVASIONE DI ULDINO (408)

Gli Unni in guerra.

Accadde intorno al 408 che gli Unni, accampati in Tracia, si ritirarono vergognosamente anche se non erano stati né attaccati né inseguiti. Uldino, re degli Unni, rompendo i trattati di alleanza stretti con Roma, attraversò il Danubio alla testa di un’immensa armata, e si accampò alle frontiere della Tracia. Si impadronì proditoriamente di una città della Mesia, di nome Castra Martis, e da lì sferrò incursioni che flagellarono il resto della Tracia, rifiutando insolentemente di venire a patti con i Romani. Il comandante dell’armata tracia tentò di negoziare la pace con lui, ma Uldino rispose puntando al sole, e dichiarando che gli sarebbe risultato agevole, se l’avesse solo desiderato, sottomettere qualunque regione della Terra illuminata dal sole.

Ma proprio mentre Uldino stava profferendo minacce di quel tipo, aggiungendo per di più che avrebbe accettato la pace solo in cambio di un immenso tributo; infatti, poco tempo dopo, i luogotenenti delle tribù barbariche sottomesse a Uldino furono spinti dalla filantropia dell’Imperatore, che li corruppe con molto denaro, ad abbandonare Uldino e passare dalla parte dei Romani. Abbandonato dalla quasi totalità delle proprie truppe, Uldino riuscì a stento a trovare riparo sulla riva opposta del fiume.

La maggior parte delle sue truppe, costituite soprattutto da Sciri, furono uccise,  mentre gli altri furono fatti prigionieri, e trasportati in catene a Costantinopoli. I governatori erano nell’opinione che, se agli Sciri fosse stato concesso di rimanere uniti e coesi, essi avrebbero potuto rivoltarsi più facilmente. Alcuni di essi furono pertanto venduti a prezzo basso, mentre altri furono regalati come schiavi, alla condizione che non fosse più concesso far ritorno a Costantinopoli, o in Europa, ma che fossero separati dal mare dai posti a loro familiari. Di questi, una certa quantità di Sciri non fu venduta, e ricevette l’ordine di insediarsi in luoghi diversi. Alcuni furono insediati in Bitinia, nei pressi del Monte Olimpo, vivendo separati uno dagli altri, e coltivando le colline e le valli di quella regione.

CONTRASTI TRA CRISTIANI ED EBREI E L’UCCISIONE DI IPAZIA

Intorno a quel tempo, accadde che gli abitanti ebrei vennero espulsi da Alessandria d’Egitto dal vescovo Cirillo per le ragioni seguenti. Una rivolta era infatti scoppiata ad Alessandria tra la popolazione, non per una causa di seria importanza, ma per un male che era diventato popolare in tutte le città, la passione per le esibizioni di danza. In conseguenza del fatto che gli Ebrei si esibivano in attività teatrali il sabato, i danzatori raccoglievano una grande folla in quel giorno, portando di conseguenza a disordini ogni sabato. Anche se tutto questo era in qualche misura controllato dal governatore di Alessandria, nonostante tutto gli Ebrei continuarono ad opporsi a queste misure. E anche se gli Ebrei erano sempre stati ostili contro i Cristiani, lo divennero ancora di più a causa dei danzatori.

Quando il prefetto augusteo Oreste decise di pubblicare un editto sul teatro per la regolamentazione degli spettacoli, alcuni del seguito del vescovo Cirillo erano presenti per apprendere la natura degli ordini emessi. Tra questi vi erano un certo Ierace, un ascoltatore molto entusiasta dei sermoni del vescovo Cirillo. Quando gli Ebrei avvistarono questa persona nel teatro, essi immediatamente urlarono che era venuto lì per nessun altro scopo che per eccitare sedizione tra la popolazione. Ora Oreste aveva da lungo tempo considerato con gelosia il potere crescente dei vescovi, in quanto si intromettevano nella giurisdizione delle autorità nominate dall’Imperatore. Per questi motivi ordinò che Ierace fosse arrestato e pubblicamente torturato nel teatro.

Quando Cirillo ne venne informato, minacciò gli esponenti principali degli Ebrei nel caso avessero continuato a molestare i Cristiani. Gli Ebrei, per tutta risposta, decisero di compiere un attacco notturno ai Cristiani. Essi quindi inviarono persone per le vie per suscitare una rivolta che provocò l’incendio della chiesa di Alessandria, spingendo molti Cristiani ad accorrere per salvarla dalle fiamme. Gli Ebrei immediatamente li assaltarono facendone un massacro. All’alba del giorno successivo, il vescovo Cirillo decise di prendere severi provvedimenti contro gli Ebrei. Si recò nelle Sinagoghe e li costrinse ad abbandonare la città. E fu così che gli Ebrei che avevano abitato la città di Alessandria d’Egitto fin dai tempi di Alessandro il Macedone vennero espulsi da essa, privati di tutti i loro beni, e dispersi in ogni direzione.

Il governatore di Alessandria, Oreste, indignato per il fatto che una città di tale grandezza fosse stata improvvisamente privata di una porzione così grande della sua popolazione, decise di informare l’Imperatore dell’intera questione. Anche Cirillo scrisse all’Imperatore, descrivendo l’atroce condotta degli Ebrei, e tentando al contempo la riconciliazione con Oreste. Oreste continuò tuttavia a persistere nell’ostilità nei confronti di Cirillo.

Accadde nel frattempo che alcuni dei monaci abitanti le montagne di Nitria decisero di schierarsi dalla parte di Cirillo. Circa cinquecento di essi, abbandonando i loro monasteri, giunsero in Alessandria; e, incontrando il prefetto Oreste, lo insultarono definendolo un pagano idolatra e facendo uso di altri epiteti insultanti. Supponendo che essi fossero stati inviati da Cirillo, rispose loro di essere cristiano, e di essere stato battezzato dal patriarca di Costantinopoli, Attico. A un certo punto, uno di costoro, Ammonio, colpì con un sasso alla testa Oreste, che rischiò di perire, mentre quasi tutte le sue guardie fuggirono, temendo di subire la stessa sorte del loro superiore. Nel frattempo la popolazione di Alessandria accorse al salvataggio del governatore, mettendo il resto dei monaci in fuga, e, dopo aver catturato Ammonio, lo consegnarono al prefetto. Oreste lo condannò immediatamente alla tortura in pubblico, lo fece uccidere, e, non dopo molto tempo, inviò il suo rapporto della vicenda all’Imperatore. Anche Cirillo inviò la sua versione dei fatti all’Imperatore, e considerò Ammonio alla stregua di un martire. Diversi dei cristiani di Alessandria non condividevano però la posizione di Cirillo, perché ritenevano che Ammonio avesse ricevuto la giusta punizione per la sua impulsività e violenza. Ma l’ostilità tra Cirillo e Oreste non terminò a quel punto, a causa di un altro avvenimento, l’uccisione di Ipazia.

Ipazia era una donna di Alessandria, figlia del filosofo Teone, che ottenne risultati così stupefacenti nella scienza e nella letteratura, da sorpassare tutti i filosofi della propria epoca. Avendo frequentato la scuola di Platone e di Plotino, esponeva i principi della filosofia ai propri allievi, molti dei quali erano venuti da lontano per seguire le sue lezioni. Ella appariva frequentemente in pubblico in presenza dei magistrati, ed era stimata da tutti a causa delle sue straordinarie virtù. Ella tuttavia cadde vittima della violenza dei Cristiani. Avendo ella avuto frequenti incontri con il prefetto Oreste, si diffuse tra i Cristiani di Alessandria la calunnia che fosse ella ad impedire la riconciliazione tra Oreste e Cirillo. Alcuni di questi Cristiani, trascinati dallo zelo e condotti da un lettore di nome Pietro, la sequestrarono mentre stava tornando a casa, e la portarono nella Chiesa nota come Cesareo, dove la uccisero orribilmente. Questo episodio di terribile violenza inorridì non solo Cirillo, ma l’intera chiesa di Alessandria. Esso avvenne nel mese di marzo, nel corso del quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il decimo consolato di Onorio e il sesto di Teodosio (412).

LA GUERRA CONTRO LA PERSIA (421-423)

Essendosi spento Isdigerde re dei Persiani, che non aveva in alcun modo perseguitato i Cristiani nei suoi domini, gli succedette il figlio Varane. Il nuovo re persiano, influenzato dai magi, cominciò a perseguitare i Cristiani con molto rigore, infliggendo loro le più svariate torture e supplizi. Molti Cristiani furono quindi costretti ad abbandonare la propria patria, la Persia, e a cercare riparo presso i Romani, supplicando loro di non permettere che i Cristiani di Persia fossero completamente estirpati. Il vescovo Attico ricevette queste suppliche con grande benignità, e fece del suo meglio per aiutarli. Informò quindi l’Imperatore Teodosio II.

Accadde al contempo un’altra ragione che contribuì a scatenare il conflitto tra Romani e Persiani. I Persiani non restituirono i lavoratori nelle miniere d’oro che erano stati assunti tra i Romani, e osarono persino saccheggiare i mercanti romani. Lo sdegno che questo incidente scatenò presso i Romani fu ulteriormente aumentato dalla fuga dei Cristiani Persiani in territorio romano. Il re persiano inviò immediatamente un’ambasceria per richiedere la restituzione dei fuggitivi. Ma i Romani non erano in alcun modo disposti a consegnarglieli, non solo per il desiderio di difendere loro ma anche la religione cristiana. L’Imperatore Teodosio decise quindi di rinnovare la guerra contro i Persiani, per difendere i Cristiani dalla persecuzione attuata dal re persiano. La pace fu quindi rotta, e seguì una feroce guerra, di cui non si mancherà di accennare i fatti più importanti.

L’Imperatore Teodosio inviò un esercito sotto il comando del generale Ardaburio che, sferrando un’incursione in Persia attraverso l’Armenia, devastò l’Arzanene. Narseo, il generale persiano, tentò di opporsi a lui, ma fu sconfitto in battaglia e costretto al ritiro. Lo stesso Narseo giudicò vantaggioso sferrare un’incursione attraverso la Mesopotamia in territorio romano, ritenendo che la Mesopotamia fosse sguarnita di truppe. Ma i piani di Narseo furono previsti da Ardaburio, che, dopo aver devastato l’Arzanene, fece rapido ritorno in Mesopotamia. In questo modo a Narseo fu impedito di invadere le province romane.

Arrivato a Nisibi, una città in possesso dei Persiani situata alla frontiera dei due Imperi, inviò messaggeri a Ardaburio esprimendo il desiderio di uno scontro decisivo tra le due armate, e gli disse di scegliere giorno e luogo della battaglia. Ma Ardaburio disse ai messaggeri di dire a Narseo che gli Imperatori romani non combattono quando piace a loro. L’Imperatore, nel frattempo, percependo che i Persiani stavano radunando tutte le truppe a loro disposizione, ordinò leve straordinarie all’esercito.

Essendosi la guerra trasferita dall’Armenia in Mesopotamia, i Romani rinchiusero i Persiani nella città di Nisibi, che cinsero d’assedio. Dopo aver costruito torri e altre macchine d’assedio e averle fatte avanzare verso le mura, essi uccisero grandi numeri di coloro che le difendevano, nonché molti di quelli che corsero alla loro assistenza.

Quando Varane, re di Persia, apprese che non solo la provincia di Arzanene era rimasta desolata, ma che il suo esercito era strettamente assediato nella città di Nisibi, decise di marciare in persona con tutte le proprie armate contro i Romani, implorando inoltre l’aiuto dei Saraceni, che all’epoca erano governati dal capo bellicoso Alamundaro. Questo principe saraceno inviò ai Persiani consistenti rinforzi di ausiliari saraceni, dicendo al re persiano di non temere nulla, in quanto egli avrebbe presto ridotto i Romani in suo potere, e consegnato la città di Antiochia in Siria nelle sue mani.

Nel frattempo i Romani, mentre stavano cingendo d’assedio Nisibi, vennero a sapere che il re di Persia si stava avvicinando con un grande numero di elefanti. Allarmati, incendiarono tutte le macchine d’assedio, e si ritirarono in territorio romano. Poco tempo dopo avvenne un grande scontro, nel quale Areobindo, un altro generale romano, uccise il guerriero più coraggioso dei Persiani in un singolo combattimento, Ardaburio annientò sette comandanti persiani in una imboscata, e Vitiano un altro generale romano annientò i mercenari saraceni. Molti ausiliari saraceni colti dal panico si gettarono nel fiume Eufrate, annegando in numero di centomila.

Il messaggero Palladio, noto per la velocità con cui portava i suoi messaggi lungo tutto l’Impero, informò rapidamente l’Imperatore Teodosio della vittoria romana. Palladio era noto per raggiungere in soli tre giorni le frontiere dei domini romani e persiani, e di fare ritorno a Costantinopoli nella stessa durata. Anche il re persiano rimase stupefatto per gli avvenimenti straordinari riferitegli dai corrieri.

L’Imperatore Teodosio il giovane, comunque, confidente nella vittoria, decise di aprire le negoziazioni di pace, e a tal fine inviò Elione con una commissione per aprire le trattative per un trattato di pace con i Persiani. Quando Elione arrivò in Mesopotamia, inviò il suo deputato Massimino, uomo di grande eloquenza che lavorava per il magister militum Ardaburio, per aprire le trattative preliminari. Massimino, giunto al cospetto del re persiano, asserì di essere stato mandato lì, non dall’Imperatore romano, ma dai suoi generali.

Anche se il sovrano persiano aveva deciso con contentezza di ricevere l’ambasceria, in quanto le sue truppe stavano soffrendo di carenza di provviste, vennero presso di lui quei reggimenti persiani noti come “Gli Immortali”. Era un reggimento di diecimila guerrieri coraggiosi, che consigliò il re persiano di non ascoltare le offerte di pace, ma di continuare la guerra contro i Romani. Il re persiano accolse il loro consiglio, ordinò che l’ambasciatore fosse imprigionato, e permise agli “Immortali” di portare avanti i loro piani contro i Romani.

Gli “Immortali”, giunti al posto concordato, si divisero in due bande, con il proposito di accerchiare qualche porzione dell’esercito romano. I Romani, resosi conto che un corpo di Persiani si stava avvicinando a loro, si stavano preparando allo scontro, non essendosi accorti della presenza dell’altro corpo.

Ma proprio quando lo scontro stava per cominciare, un’altra divisione dell’esercito romano, sotto il generale Procopio, emerse da una collina e resosi conto del pericolo che correvano i loro commilitoni, attaccò i Persiani nella retroguardia. Dopo averli annientati in breve tempo, i Romani si avventarono contro quelli appostatisi in imboscata, e inflissero loro pesanti perdite. I guerrieri “Immortali” subirono numerose perdite, mostrando così di non essere invincibili, e i Romani ottennero così la vendetta sui Persiani per le persecuzioni condotte ai danni dei Cristiani. Così ebbe termine la guerra, insieme alla persecuzione dei Cristiani in Persia, sotto il tredicesimo consolato di Onorio e il decimo di Teodosio.

Una nobile azione di Acacio vescovo di Amida aumentò notevolmente la sua reputazione tra tutti gli uomini. Poiché i soldati romani non avevano nessuna intenzione di restituire al re persiano i prigionieri di guerra, questi prigionieri, circa settemila, stavano per essere annientati dalla fame. Ma Acacio decise di accorrere in loro soccorso, ordinando che i vasi d’oro e d’argento della sua chiesa venissero fusi, e intendendo con il denaro ricavato riscattare i prigionieri e rifornirli di cibo. Dopo averli riscattati e riforniti di cibo e di tutto ciò fosse necessario per il loro viaggio, li rispedì dal loro sovrano.  La benevolenza di Acacio lasciò stupefatto il re persiano, come se i Romani fossero usi a conquistare i loro nemici sia con la loro generosità in tempo di pace che con le prodezze in guerra. Il re persiano fece richiesta che Acacio si presentasse al suo cospetto, così da conoscerlo e ringraziarlo, desiderio soddisfatto per ordine dell’Imperatore Teodosio.

La vittoria contro i Persiani fu celebrata da panegirici in onore dell’Imperatore Teodosio, che vennero recitati in pubblico. Anche l’Imperatrice Eudocia si dilettò a comporre un poema su tali avvenimenti. Ella, infatti, era di notevoli doti letterarie, essendo la figlia del sofista ateniese Leonzio il quale aveva provveduto all’istruzione della figlia rendendola molto colta. In origine Eudocia si chiamava Atenaide ed era pagana. Il vescovo Attico l’aveva battezzata poco prima del matrimonio con l’Imperatore, e al momento del battesimo le era stato dato il nome cristiano di Eudocia, al posto del precedente nome pagano di Atenaide.

LA SPEDIZIONE CONTRO L’USURPATORE GIOVANNI

Sotto il regno di Teodosio II, i rapporti con l’Occidente romano migliorarono relativamente. Nel 409 4.000 soldati romano-orientali furono spediti a Ravenna, assediata da Alarico e dall’usurpatore Attalo, salvando il trono a Onorio, che già disperava e intendeva ingloriosamente fuggire a Costantinopoli via mare. Grazie all’arrivo dei rinforzi da Costantinopoli, Onorio poté resistere all’assedio e non fuggì mantenendo così il trono.

Tuttavia, nel 421 Teodosio II rifiutò di riconoscere Costanzo III, associato al trono da Onorio, come suo collega. Infatti, quando nel 421, le immagini di Costanzo III furono spedite nell’Oriente romano, come prescriveva l’antica usanza prevista per tutti coloro che erano stati recentemente innalzati al trono, Teodosio II, disapprovando la nomina di Costanzo ad Imperatore, non ammise le sue immagini e rifiutò, inoltre, di ricevere l’ambasceria che gli fu inviata per informarlo dell’elevazione di Costanzo al trono. Costanzo, non riconosciuto come Imperatore da Teodosio ed intenzionato ad ottenere vendetta per l’affronto ricevuto, progettava quindi una spedizione contro Costantinopoli, che però non andò in porto per la morte improvvisa di Costanzo, dopo appena sette mesi di regno.

Nel 422 Teodosio II accolse sua zia, Galla Placidia, fuggita a Costantinopoli dopo violenti contrasti con Onorio, che l’aveva esiliata in Oriente. Con Galla Placidia vi erano i figli, Valentiniano e Giusta Grata Onoria, cugini di Teodosio II.

Nel 423, Onorio si spense di idropisia il 27 agosto, e un annuncio della notizia fu inviato in Oriente. Teodosio, ora imperatore unico, dopo aver ricevuto tali notizie, celò la verità il più lungo possibile, sviando la popolazione prima con una notizia, e poi con un’altra. Nel frattempo, Teodosio aveva inviato un’armata per occupare Salona, una città della Dalmazia, in previsione di possibili movimenti rivoluzionari in Occidente che avrebbero potuto renderla una città di importanza strategica notevole. E solo allora annunciò pubblicamente la scomparsa di suo zio.

Nel frattempo, un certo Giovanni, il sovraintendente delle segreterie dell’Imperatore Onorio, non accontentandosi della dignità già acquisita, si era impossessato del trono occidentale. Si narra che, mentre la cerimonia dell’incoronazione stava avendo luogo, si sarebbe udito qualcuno dire la frase, come se provenisse da qualche oracolo, “Cade, non regge”, mentre il popolo, per scaramanzia, urlava, “regge, non cade”.

Giovanni, dopo aver usurpato la porpora, inviò un’ambasceria presso l’Imperatore d’Oriente Teodosio, nel tentativo di ottenerne il riconoscimento come suo collega. Ma essi tornarono senza aver ottenuto niente, e, per di più, dopo essere stati trattati con indegnità e arrestati, furono inviati in direzioni differenti attraverso la Propontide.

Teodosio, infatti, aveva intenzione che sul trono d’Occidente salisse suo cugino Valentiniano, che era fuggito a Costantinopoli insieme alla madre di lui Placidia. A tal fine iniziò i preparativi per la spedizione militare che avrebbe dovuto deporre l’usurpatore Giovanni. Nel frattempo a Placidia venne confermato il titolo di Augusta, e a Valentiniano il titolo di Nobilissimo.

Essi partirono accompagnati da un’armata, formata sia da fanti che da cavalieri, sotto il comando del magister militum Ardaburio, che si era già distinto notevolmente nella guerra contro i Persiani, suo figlio Aspare, e Candidiano. A Tessalonica il magister officiorum Elione, su ordine di Teodosio, vestì degli indumenti regali Valentiniano, che all’epoca aveva soli cinque anni, garantendogli la dignità di Cesare.

L’armata passò attraverso la Pannonia e l’Illirico, con Placidia e Valentiniano al loro seguito, e riuscì ad espugnare Salona, importante città della Dalmazia. Dopo questi primi successi, Ardaburio salpò con una flotta con l’intento di sbarcare ad Aquileia, mentre Aspare assunse il comando della cavalleria. Proprio Aspare, anticipando tutti i sospetti con un attacco improvviso, riuscì ad espugnare agevolmente Aquileia, città molto importante della Venezia e Istria, con ancora Valentiniano e Placidia al suo seguito.

Nel frattempo però Ardaburio, mentre navigava con la sua flotta, fu sorpreso da un vento violento, che lo fece finire, insieme a due delle sue triremi, nelle mani dell’usurpatore. Catturato, infatti, dai soldati di Giovanni, fu portato al cospetto del tiranno, che però lo trattò con molta cortesia, in quanto l’usurpatore sperava in questo modo di negoziare un compromesso più facilmente se lo avesse trattato bene. In questo modo, però, Ardaburio, potendo godere di ampie possibilità di manovra, riuscì ad eccitare contro l’usurpatore alcuni dei suoi sottoufficiali che erano già sul punto di rivoltarsi.

Suo figlio Aspare e Placidia erano nel frattempo presi dall’ansia per le sorti di Ardaburio, temendo per la sua sorte, essendo ora in mani nemiche. Ma Candidiano, tramite la conquista di molte città, grazie alle quali ottenne grande fama, fece svanire le loro preoccupazioni e diede loro nuova speranza. Inoltre Aspare ricevette un messaggio inviato dal padre Ardaburio in cui veniva esortato a marciare contro l’usurpatore per ottenervi una vittoria immediata.

Aspare marciò con andamento celere con la sua cavalleria, e, dopo un breve scontro, Giovanni, tradito dai suoi stessi soldati, fu preso prigioniero e condotto ad Aquileia al cospetto di Placidia e Valentiniano. Qui la sua mano destra fu tagliata, e poco tempo dopo fu decapitato, dopo aver usurpato il trono per circa un anno e mezzo.

Nel frattempo Placidia con suo figlio, che all’epoca aveva il rango di Cesare, entrò a Ravenna. Elione, magister officiorum e patrizio, prese possesso di Roma, e nel mezzo di una folla di gente, vestì degli indumenti regali Valentiniano, che all’epoca aveva appena sette anni. In questo modo Valentiniano divenne Imperatore della parte occidentale dell’Impero.

Ezio, uno dei generali dell’usurpatore Giovanni, arrivò tre giorni dopo l’esecuzione di quest’ultimo, portando con se all’incirca 60.000 truppe di Unni, che era riuscito ad ingaggiare come ausiliari. Con essi si scontrò in una battaglia con le truppe di Aspare, in cui entrambi gli schieramenti subirono pesanti perdite.

In seguito a questo scontro, Ezio firmò un trattato con Placidia e Valentiniano, con i quali si riappacificò e passò al loro servizio, venendo promosso al rango di comes. Dietro pagamento di una somma di denaro, gli Unni abbassarono le armi e ritornarono nella loro patria, in seguito a un reciproco scambio di ostaggi e di promesse di fedeltà. Così ebbe termine la guerra contro l’usurpatore Giovanni.

RAPPORTI CON L’OCCIDENTE E LA QUESTIONE DELL’ILLIRICO

In cambio dell’aiuto offerto a Galla Placidia contro l’usurpatore Giovanni, Teodosio II pretese che almeno parte dell’Illirico Occidentale passasse sotto la giurisdizione dell’Impero d’Oriente. Probabilmente questa cessione di territori avvenne nel 437, in concomitanza con il matrimonio combinato tra Valentiniano III e la figlia di Teodosio II, Eudocia. Cassiodoro infatti scrisse che Galla Placidia, acquisendo una nuora, perdette l’Illirico. Se tutto l’Illirico fosse stato ceduto all’Oriente e solo una parte, appare controverso: comunque si può affermare con una certa sicurezza che il Norico rimase romano-occidentale (ancora nel 468 Sidonio Apollinare lo riporta tra i territori sotto la giurisdizione di Ravenna) mentre almeno parte della Pannonia fu ceduta, con le città di Sirmio e Bassiana. Infatti vi è evidenza che Teodosio II spostò la sede del prefetto del pretorio dell’Illirico da Tessalonica a Sirmio nel periodo tra il 437 e il 441. Se la Dalmazia passò all’Oriente o restò occidentale rimane ancora incerto. Però Procopio sostiene che nel periodo successivo alla morte di Ezio il comes di Dalmazia Marcellino fosse al servizio di Ravenna e non di Costantinopoli, quindi si può presumere che Norico e Dalmazia rimasero sotto la giurisdizione romano-occidentale e solo la Pannonia fu ceduta all’Oriente romano, anche se su ciò si hanno poche certezze.

Comunque Teodosio II cercò di aiutare il governo di Ravenna a fronteggiare l’invasione dell’Africa compiuta dai Vandali. Nel 431, dunque, il generale romano-orientale Aspar (di origini alane) sbarcò in Africa con un esercito, e si unì al Comes Africae Bonifacio nella lotta contro gli invasori. Le fonti sono laconiche e frammentarie, Procopio riporta che l’esercito congiunto di Bonifacio e di Aspar subì una grave sconfitta contro i Vandali, e che entrambi i generali lasciarono l’Africa tornando l’uno in Italia e il secondo a Costantinopoli. In realtà della partenza immediata di Aspar per Costantinopoli si può a ragione dubitare: infatti alcune fonti lo attestano ancora a Cartagine nel 434, allorquando assunse il consolato. In realtà Aspar rimase in Africa riuscendo a limitare i danni salvando Cartagine dall’immediata conquista vandala. Un’effimera invasione degli Unni nel 434 costrinse Teodosio II a richiamare probabilmente Aspar a Costantinopoli. Nel 435 con il trattato di Trigezio fu raggiunta una pace temporanea con i Vandali e Aspar potè tornare a Costantinopoli.

Nel 439, tuttavia, i Vandali, violati proditoriamente i patti, espugnarono Cartagine il 19 ottobre, e l’anno successivo con una flotta invasero e saccheggiarono la Sicilia. Teodosio II tentò ancora una volta di aiutare l’Occidente romano nella lotta contro i Vandali, e nel 440 una flotta romano-orientale di 1.100 navi (circa 30.000 soldati) arrivò in Sicilia, con l’intento di liberare l’Africa dai Vandali l’anno successivo. Purtroppo a questo punto intervenne Attila, re degli Unni, che invase l’Illirico, costringendo Teodosio II a richiamare la flotta. Costantemente minacciato dagli Unni di Attila, Teodosio II non poté più aiutare l’Occidente romano contro i Vandali.