Stilicone e Alarico

ALARICO INVADE L’ITALIA (401)

Nel frattempo Alarico, re dei Goti, era stato nominato governatore militare dell’Illirico dall’Imperatore Arcadio, come premio per aver devastato la Tracia e la Grecia. Alarico aveva approfittato della carica militare romana ricevuta per costringere i Traci a forgiare armi per lui, e le città romane a fornire ferro per i suoi usi. Secondo Claudiano, non accontentandosi di ciò che aveva già ottenuto, essendosi eccessivamente esaltato per le vittorie passate, ed essendogli stato assicurato da ciarlatani e indovini che, se avesse invaso l’Italia in quell’anno, avrebbe conquistato la città di Roma, Alarico invase con il suo esercito di Goti l’Italia, attraversando le Alpi. Probabilmente, in seguito alla caduta di Eutropio e di Gainas, Arcadio lo aveva privato della carica di magister militum per Illyricum e aveva tolto ai suoi Goti il riconoscimento legale delle terre di insediamento da essi occupate in seguito al trattato del 397, la cui validità fu annullata. Inoltre, probabilmente i Goti di Alarico dovettero subire gli attacchi dei nuovi alleati di Arcadio, gli Unni di Uldino, e disperando di poter raggiungere in tempi brevi la stipula di un nuovo trattato di alleanza con Costantinopoli, decise di rivolgersi alla pars occidentis governata da Onorio, sperando che, invadendola, sarebbe riuscito da ottenere da essa nuove terre di insediamento per il suo popolo e magari una carica militare romana per sé.

Secondo Claudiano, i Goti avevano scelto il momento maggiormente opportuno per invadere l’Italia, in quanto la Rezia era stata invasa e i reggimenti romani erano impegnati in questa guerra per liberarla dalle incursioni nemiche. Inoltre, le sconfitte dei due usurpatori Massimo e Eugenio avevano reso ben note ai Goti le strade che conducevano l’Italia tramite le Alpi. Insomma, le guerre civili tra i Romani avevano aperto la strada alle invasioni barbariche.

Per quanto riguarda la data di inizio dell’invasione, Prospero Tirone, Cassiodoro e Giordane asseriscono che essa avvenne nell’anno 400, mentre invece i Fasti Vindobonenses affermano che sarebbe cominciata il 18 novembre 401. Gli studiosi ritengono la data del 18 novembre 401 la più attendibile delle due in quanto Claudiano afferma che alla vigilia dell’invasione avvennero delle eclissi di luna, e due eclissi di luna avvennero nel 401 (il 21 giugno e il 6 dicembre) ma non nel 400. Prospero Tirone asserisce inoltre che nel 400 l’Italia sarebbe stata invasa da Radagaiso in concerto con Alarico. Alcuni studiosi, basandosi su questa affermazione di Prospero Tirone, hanno congetturato che Radagaiso sarebbe stato alla testa delle orde barbariche che, in coincidenza con l’invasione di Alarico, avevano invaso la Rezia e il Norico. Più recentemente altri studiosi hanno considerato erronea questa teoria dell’invasione di Radagaiso dell’anno 400, considerandolo un probabile errore di Prospero Tirone.

La corte dell’Imperatore Onorio.

 

La corte di Onorio, intimorita dall’avanzata nemica, che già aveva cominciato ad assediare le tremanti città della Liguria con l’inverno come suo alleato e minacciava di assediare la stessa Milano dove risiedeva l’Imperatore, meditava una vergognosa fuga in Gallia. Meditava di lasciare il Lazio per stabilire sulle rive della Somma un campo di rifugiati. Stilicone, con un discorso riportato dal suo panegirista Claudiano, convinse la corte di Onorio a rimanere a Milano. Dopo aver spinto la corte di Onorio a non tentare una fuga vergognosa, Stilicone partì per la Rezia per liberarla dai saccheggi nemici. Attraversò il Lago Lario a tutta velocità su una piccola imbarcazione. Poi ascese le montagne, nonostante fossero inaccessibili in inverno, senza temere né la stagione né il tempo.

Nei pressi della foresta Ercinia è situata la Rezia, che confina sia con il fiume Reno che con il fiume Danubio, i due fiumi che fissavano il confine dell’Impero romano. Fu in quella regione in cui Stilicone passò l’inverno. Questa regione era stata invasa dai Vandali che, violati i trattati, avevano invaso non solo quella provincia ma anche i campi del Norico. Secondo i panegirici di Claudiano, al solo arrivo di Stilicone in Rezia, gli invasori barbari sarebbero stati colti dal panico alla vista del generale romano. Con la forza militare e con la diplomazia, Stilicone riuscì a porre fine alle tribolazioni della Rezia e del Norico, riuscendo ad ottenere anche nuovi alleati per la guerra contro Alarico. Infatti gli invasori della Rezia e del Norico accettarono di fornire truppe ausiliarie all’esercito di Stilicone.

Dittico di Stilicone. Raffigurati anche la moglie Serena e il figlio Eucherio.

Mentre Stilicone si accingeva a tornare in Italia per confrontarsi con Alarico, le legioni furono richiamate da tutti i fronti per combattere il re goto. A Stilicone si unirono per prime le legioni stazionate in difesa della Rezia; poi lo raggiunse una legione posta a difesa della Britannia, quella legione che doveva continuamente combattere Scoti e Pitti; in seguito, lo raggiunsero persino le legioni abituate a fronteggiare popolazioni bellicose come Sigambri, Catti e Cherusci, insomma le legioni poste a difesa del Reno. Secondo la Cesa, però, è più verosimile che queste legioni avessero raggiunto Stilicone soltanto in Italia. Il panegirista Claudiano asserisce che le popolazioni della Germania, nonostante la rimozione delle truppe poste a difesa del Reno, non osarono invadere la Gallia per il solo timore di Stilicone. Poi ritorneremo su ciò, quando si descriverà il disastro delle invasioni di Vandali, Alani e Svevi, che sconfessa fortemente Claudiano.

Tornato in Italia, l’avanzata di Stilicone fu ostacolata dal nemico, che aveva bloccato le strade che il generale romano avrebbe dovuto percorrere per ricongiungersi con il genero, l’Imperatore Onorio. I Goti in particolare avevano occupato un ponte che permetteva la traversata del fiume Adda. In un primo momento, Stilicone esitò nel tentativo di rompere la linea nemica, essendo il suo esercito in inferiorità numerica, in quanto, per accorrere in soccorso dell’Imperatore, aveva lasciato dietro di sé molti soldati e truppe ausiliarie. Tuttavia, dopo molte esitazioni, decise di tentare, e riuscì ad attraversare l’accampamento nemico con pieno successo, riuscendo a superare il blocco nemico.

Nel frattempo Onorio era assediato da Alarico. Probabilmente la città assediata dove l’Imperatore aveva trovato riparo era Milano, anche se alcuni studiosi, basandosi su una vaga allusione di Claudiano alla città di Asti, avevano sostenuto in passato che la città dove Onorio fu assediato Alarico sarebbe stata Asti. Oggi si ritiene che l’assedio di Asti menzionato di sfuggita da Claudiano sarebbe un episodio distinto della guerra, e che la città dove Onorio fu assediato era probabilmente Milano. D’altronde, se Onorio fosse stato assediato ad Asti, Stilicone per raggiungerlo avrebbe dovuto attraversare non solo l’Adda ma anche il Po, ma Claudiano menziona solo l’attraversamento dell’Adda. L’arrivo di Stilicone costrinse Alarico a levare l’assedio e a ritirarsi verso ovest, in direzione della Gallia. E fu forse nel corso di questa avanzata che avvenne l’assedio di Asti accennato di sfuggita da Claudiano.

Secondo i panegirici di Claudiano, il ritorno di Stilicone, oltre a salvare l’Imperatore Onorio dall’assedio di Alarico, ridestò le speranze dei Romani e suscitò le preoccupazioni dei Goti. I Goti, dopo aver attraversato le Alpi, si sentivano invincibili e inarrestabili. Ma quando videro l’esercito di Stilicone, la fanteria reclutata rapidamente, tutti gli squadroni di cavalleria, il territorio protetto da così tanti fiumi e fortezze, ed essi stessi circondati, essi cominciarono a temere che avessero invaso l’Italia con troppa audacia.

LA BATTAGLIA DI POLLENZO

Alarico riuscì a dare nuovo coraggio alle proprie truppe. Alarico raggiunse i confini della Liguria dove scorre un fiume dal nome Urbs (odierno Stura). Qui Alarico cominciò a sospettare che quando indovini e ciarlatani gli avevano assicurato che sarebbe penetrato nell’Urbe, avrebbero potuto riferirsi al fiume Urbs e non alla città di Roma. Fu proprio qui che si combatté la battaglia di Pollenzo contro l’esercito di Stilicone, nel giorno di Pasqua del 402.

L’esercito di Stilicone non comprendeva solo soldati romani ma anche truppe ausiliarie, tra cui gli Alani. Il comandante degli Alani, al comando di Stilicone, avanzò con la sua cavalleria, perendo dopo aver ucciso molti nemici. Gettata nella confusione dall’uccisione del suo comandante, la cavalleria alana finì nella confusione e il suo fianco sarebbe stato esposto se Stilicone non avesse ordinato a una legione di aiutarli nella lotta contro i Goti, dato che erano caduti in confusione.

Alla fine i Romani uscirono vittoriosi nella battaglia. Secondo il panegirista Claudiano, i Romani si impadronirono di oro, argento e di tutto il bottino di guerra dei Goti. I soldati romani si impadronirono del bottino accumulato dai Goti al tempo in cui uccisero l’Imperatore Valente, delle spoglie della città di Argo e di Corinto, vendicandosi così delle passate sconfitte contro di essi. Furono fatti anche molti prigionieri tra i Goti. Tra questi vi era la moglie di Alarico. Claudiano, con esagerazione retorica volta ad esaltare il suo protettore Stilicone, afferma che con la battaglia di Pollenzo fu recuperato dai Romani in una sola giornata tutto il bottino di guerra conquistato dai Goti in trent’anni di incursioni all’interno del territorio romano.

Molto più probabilmente Claudiano ingigantì a dismisura il successo romano, essendo del resto pur sempre un panegirista. Basti pensare che i filogotici Cassiodoro e Giordane (vissuti nel VI secolo) riportarono nelle loro opere storiche che a Pollenzo vinsero i Goti, e non i Romani. Lo stesso Claudiano ammette che la cavalleria di Alarico era rimasta intatta. Gli studiosi moderni ritengono che la battaglia ebbe un esito incerto, con una leggera prevalenza dei Romani, e che fu interrotta con il sopraggiungere della notte. Stilicone fu pesantemente criticato dai suoi oppositori, in particolare dallo storico cristiano Orosio, per aver attaccato i Goti proprio nel giorno di Pasqua, e proprio nel momento in cui i Goti la stavano celebrando, considerando questa decisione un atto sacrilego.

LA BATTAGLIA DI VERONA

Alarico, pur avendo subito delle pesanti perdite in seguito alla sconfitta subita a Pollenzo, aveva ancora la cavalleria intatta, per cui non aveva perso tutte le speranze. Si ritirò più a sud sugli Appennini. Contrastato da Stilicone, Alarico fu costretto a firmare con lui un trattato, secondo cui si impegnava a lasciare il Lazio in cambio della restituzione dei suoi familiari presi in ostaggio da Stilicone in seguito alla vittoria di Pollenzo.

Tuttavia, a un certo punto, Alarico, giunto nei pressi di Verona, cambiò idea, violando il trattato che gli imponeva di ritirarsi dell’Italia e assumendo di nuovo intenzioni bellicose e ostili all’Impero. Essendo stato il trattato violato da Alarico, Stilicone si scontrò con Alarico nei pressi di Verona, ottenendo una nuova vittoria sul re goto. Anche Alarico sarebbe stato catturato, se non fosse stato per l’eccessivo zelo del comandante degli ausiliari alani che rovinò il piano di cattura. Alarico, fuggito a stento dalla cattura, tentò di trovare un percorso sconosciuto attraverso le Alpi, in modo da poter invadere o la Rezia o la Gallia. Ma Stilicone riuscì ad ostacolare con successo i suoi piani.

Essendo tutti i suoi piani sventati con successo da Stilicone, Alarico si accampò su un colle colto dal panico. Alarico era stato fortemente indebolito dall’invasione dell’Italia. Le continue diserzioni nella sua armata continuavano a indebolire la sua già ridotta armata, e giorno dopo giorno le sue forze diminuivano in misura sempre maggiore. Decise quindi di abbandonare l’Italia per tornare nell’Illirico attraverso le Alpi. Stilicone lo seguiva per accelerare la sua ritirata, ma non osò attaccarlo per infliggergli il colpo di grazia. Così finì la prima invasione dell’Italia compiuta da Alarico.

Successivamente lo storico cristiano Orosio, prevenutamente ostile nei confronti di Stilicone, accusò il generale romano di origini vandaliche di non aver mai volutamente dare il colpo di grazia ad Alarico ma di averlo sempre risparmiato: taceo de Alarico rege cum Gothis suis, saepe victo, saepeque concluso, semperque dimisso (“taccio del re Alarico con i suoi Goti, spesso vinto, spesso circondato, sempre lasciato andare”). Diversi studiosi moderni hanno condiviso questo punto di vista, sostenendo che Stilicone considerasse i Goti di Alarico non come dei veri e propri invasori, ma dei potenziali alleati non da annientare ma da ricondurre all’obbedienza. Del resto, i Goti di Alarico erano pur sempre Foederati (alleati) di Roma, per quanto infidi e pronti a rivoltarsi al momento più propizio per loro. In effetti, gli eventi successivi dimostrano l’alleanza raggiunta tra Stilicone e Alarico ai danni dell’Impero d’Oriente.

Sozomeno, infatti, afferma che Alarico nel 405 era insediato “nella regione dei Barbari ai confini di Dalmazia e Pannonia”  (εχ τῆς πρός τῇ Δαλματία καί Παννονία βάρβαρου γῆ), e che si era alleato con Stilicone a danni dell’Impero d’Oriente, ricevendo da lui anche una carica militare romana. Gran parte dei studiosi ritiene che, in seguito alla battaglia di Verona (avvenuta forse nel 403, ma c’è chi sostiene la data del 402), Stilicone concesse ai Goti di Alarico terre di insediamento nei distretti a cavallo tra Dalmazia e Pannonia, interpretando in siffatto modo l’ambigua espressione di Sozomeno. Altri studiosi, invece, interpretano alternativamente l’ambigua frase di Sozomeno, identificando la “regione dei Barbari ai confini di Dalmazia e Pannonia” con le province romano-orientali di Moesia I e di Praevalitana, che confinano appunto con Dalmazia e Pannonia. Dunque, Stilicone per il momento si sarebbe limitato a un mero salvacondotto, permettendo ai Goti di tornare nell’Illirico Orientale e di devastarlo, come sembrerebbe suggerire anche una lettera datata 404 e scritta da Onorio al fratello Arcadio, in cui si lamentava di non essere stato informato dei saccheggi subiti dall’Illirico Orientale per mano di non ben precisati barbari (secondo alcuni studiosi appunto da identificare con i Goti di Alarico). Soltanto nel 405 Stilicone, di fronte al nuovo deteriorarsi dei rapporti con l’Oriente romano, avrebbe stipulato un’alleanza con i Goti di Alarico con l’intento di annettersi l’Illirico Orientale sottraendolo alla giurisdizione di Arcadio.

In seguito alla vittoria su Alarico, il senato e il popolo romano fecero richiesta che l’Imperatore Onorio effettuasse un’entrata trionfale a Roma per festeggiare la fine dell’invasione che tanto aveva minacciato l’Italia e la stessa Roma. Nel frattempo Onorio, intimorito dalle incursioni nemiche, fin dal 402 aveva trasferito la propria corte da Milano a Ravenna, ben protetta dalle paludi (e che inoltre, possedendo un porto, quello di Classe, consentiva una rapida fuga via mare a Costantinopoli o in altre città in caso di assedio nemico). L’Imperatore Onorio accettò le sollecitazioni del senato e partì per Roma. Dopo essere uscito dalle mura di Ravenna, attraversò il Po e avanzò verso Roma, passando per la città di Narni. Entrato nella città attraverso le nuove mura che erano state da poco costruite per il timore dell’avanzata di Alarico, l’Imperatore festeggiò qui il suo trionfo contro i Goti. L’entrata trionfale dell’Imperatore Onorio a Roma ebbe luogo nell’anno del suo sesto consolato (404).

LA VICENDA DI GIOVANNI CRISOSTOMO

Fu durante la tirannia di Gainas che Eudossia, che aveva partorito due figlie, fu incoronata Augusta (9 gennaio 400). Nonostante fosse di origini franche, non aveva simpatie per il partito germanico, tanto è vero che non si oppose alla caduta di Eutropio, e anzi la agevolò. L’Imperatrice era di carattere forte e impulsivo, e dopo la caduta dell’eunuco esercitò una forte influenza sul debole e imbelle marito, l’Imperatore Arcadio. L’Importanza storica di Eudossia poggia sul suo conflitto con il patriarca Giovanni Crisostomo. Quest’ultimo era stato eletto patriarca nel 398, e nei primi anni, fino ad almeno al 401, aveva avuto rapporti cordiali con l’Imperatrice. E’ interessante notare come Crisostomo non fosse tanto interessato alle controversie teologiche, quanto piuttosto alla riforma morale della società. Nei suoi discorsi denunciò il lusso, la ricchezza, i vizi dei ceti ricchi, mettendolo a confronto con la miseria dei ceti più poveri. Predicava per una società più giusta e rispettosa dei ceti meno agiati, e in un certo senso le sue idee erano socialiste. Fino al 401 non vi erano stati problemi con l’Imperatrice. Nel 401 cominciarono, tuttavia, le prime incomprensioni. Nell’aprile del 401 era giunto a Costantinopoli Porfirio, vescovo di Gaza, con lo scopo di indurre il governo a prendere misure rigorose per la sopressione dei culti pagani nella zona. Porfirio incontrò Crisostomo, chiedendogli di intercedere per loro presso l’Imperatrice. Crisostomo rispose tuttavia che i rapporti tra lui e Eudossia si erano deteriorati in quanto il patriarca l’aveva rimproverata aspramente per un qualche atto ritenuto immorale, e l’Augusta si offese al punto che cominciò ad avversarlo. I rapporti tra Patriarca e Imperatrice migliorarono leggermente allorché Crisostomo battezzò il figlio di Eudossia ed erede al trono, Teodosio, il 10 aprile dello stesso anno, ma Eudossia non era disposta a perdonare del tutto il patriarca per l’affronto subito, e attendeva il momento opportuno per vendicarsi. Il patriarca, tra l’altro, nel denunciare il lusso e la ricchezza dei ceti più ricchi, si era fatto molti nemici, tra cui molte nobildonne, che erano tra l’altro nel seguito dell’Imperatrice: tra queste spiccavano Marsa, la moglie di Promoto, nella cui casa era cresciuta l’Imperatrice stessa, Castricia, la moglie di Saturnino, e infine Eugrafia, la cui abitazione era diventato luogo di raduno per tutti gli oppositori di Crisostomo. Tuttavia se Crisostomo avesse agito con più prudenza, i suoi nemici non avrebbero avuto il pretesto per provocarne la deposizione. Verso la fine del 401, dopo che il vescovo di Efeso, Antonino, era stato accusato di simonia, Crisostomo decise di intraprendere un viaggio di cinque mesi per le diocesi dell’Asia Minore, con lo scopo di indagare su eventuali abusi: durante il viaggio, tuttavia, agì con più zelo che con prudenza, deponendo ben tredici vescovi giudicati colpevoli, giudicando anche casi oltre la sua giurisdizione, e così agendo si fece ancora più nemici. Quando ritornò a Costantinopoli, trovò la diocesi disorganizzata. Durante la sua assenza aveva affidato la diocesi temporaneamente al vescovo Severiano, che, aspirando al titolo di patriarca in sostituzione dello stesso Crisostomo, si era unito con i suoi nemici. Tra Crisostomo e Severiano si ebbe una rottura dei rapporti, anche se l’Imperatrice Eudossia tentò di convincere Crisostomo a fare pace con Severiano. Alla fine, per le insistenze dell’Imperatrice, Crisostomo accettò di riappacificarsi con Severiano.

La posizione di Crisostomo presto si indebolì. Teofilo, patriarca di Alessandria, invidiava Crisostomo per la posizione raggiunta nella gerarchia ecclesiastica, ben maggiore della propria. In precedenza sostenitore dell’eresia di Origene, il quale rigettava la concezione antropomorfa della divinità, cominciò ben presto a perseguitare i seguaci di Origene, tra cui un gruppo di monaci egizi. Teofilo ordinò al prefetto augusteo d’Egitto di arrestare i monaci eretici, che riuscirono però a fuggire a Costantinopoli implorando la protezione del patriarca di Costantinopoli. Crisostomo li ricevette con cortesia, ma non potendo comunicare con essi finché la loro causa non fosse stata giudicata, li alloggiò per il momento nella chiesa di Santa Anastasia. Il gruppo di monaci seguaci di Origene si rivolse all’Imperatore, denunciando il comportamento a loro dire iniquo del patriarca di Alessandria, e un inviato imperiale fu inviato presso Teofilo per costringerlo a recarsi a Costantinopoli affinché potesse rispondere della propria condotta nel corso di un sinodo. Nel giugno del 403 Teofilo giunse a Costantinopoli: stava per essere processato per la sua condotta da un tribunale presieduto da Crisostomo stesso, ma il patriarca di Alessandria era determinato a invertire le parti, facendo in modo che egli divenisse l’accusatore e Crisostomo l’accusato. Tra l’altro l’Imperatrice aveva preso in simpatia i monaci eretici ed è proprio per questo che decise di prendere le loro parti, ordinando che Teofilo venisse processato per rispondere della propria condotta. Se quindi Crisostomo avesse agito con prudenza avrebbe ottenuto l’appoggio dell’Imperatrice e prevalso su Teofilo. Invece Crisostomo, offeso per l’atteggiamento cortese dell’Imperatrice nei confronti di Epifanio, un vescovo suo oppositore, lanciò un sermone contro le donne che conteneva allusioni all’Imperatrice; Eudossia, quando ne fu informata, assunse di nuovo un atteggiamento ostile nei confronti di Crisostomo, e decise di appoggiare i suoi oppositori. Quando a Crisostomo fu chiesto di presiedere il processo contro Teofilo, il patriarca di Costantinopoli declinò, in quanto considerava illegale presiedere un processo su atti compiuti al di fuori della propria giurisdizione, e questo liberò Teofilo dalla posizione di accusato, e gli permise di diventare l’accusatore. Teofilo formulò una serie di accuse nei confronti di Crisostomo, sufficienti per spingere l’Imperatore ad avviare un inchiesta contro il Patriarca di Costantinopoli. Crisostomo fu accusato, tra le altre cose, di aver venduto il marmo che decorava la chiesa di Santa Anastasia; di aver ingiuriato Epifanio; di aver intrigato contro Severiano; di aver accusato il clero di corruzione; e di aver deposto vescovi in Asia sostituendone con altri in modo improprio. Il sinodo condannò Crisostomo e lo privò della carica di Patriarca di Costantinopoli non perché giudicato colpevole dei reati attribuitegli, ma perché rifiutò di presentarsi al processo. Crisostomo fu condannato all’esilio. Tuttavia, quando la popolazione di Costantinopoli scoprì che il loro amato patriarca era partito, insorse chiedendo il suo ritorno; e Costantinopoli fu colpita persino da un terremoto. Eudossia, essendo superstiziosa, interpretò il terremoto come un segnale del fatto che avesse sbagliato a provocare la rovina del patriarca e si affrettò a scrivere a Crisostomo, implorandolo di ritornare nella Capitale per riprendere il suo posto come Patriarca. Crisostomo accettò e si riappacificò con l’Imperatrice, venendo reinsediato come patriarca. Crisostomo intendeva regolarizzare la propria posizione convocando un sinodo che si pronunciasse di nuovo sulle accuse mosse sia contro Teofilo che contro lui stesso. Se fosse riuscito a mantenere permanenti la riappacificazione con Arcadio e Eudossia sarebbe riuscito a mantenere la posizione. Invece, un altro incidente gli mise per l’ennesima volta contro Eudossia. Alcuni mesi dopo il suo ritorno, fu eretta un’immagine d’argento raffigurante Eudossia nelle vicinanze della Chiesa di Santa Sofia: la cerimonia di inaugurazione era caratterizzata da elementi pagani, e fu accompagnata da danze e musica; tanto fu il rumore che il patriarca, infastidito, si lamentò con il prefetto dell’Urbe per i riti pagani; l’Imperatrice lo considerò come un affronto personale, e ritornò ad assumere per l’ennesima volta un atteggiamento ostile nei confronti del patriarca. Il patriarca convocò un concilio che potesse assolverlo definitivamente dalle accuse mossegli dagli oppositori; ma l’Imperatrice gli era di nuovo ostile, e fece in modo che al concilio partecipassero quanti più oppositori possibile alla politica del patriarca. Ai vescovi radunati a Costantinopoli fu poi suggerito di fare uso del canone del Concilio di Antiochia del 341 secondo il quale un vescovo che era stato deposto da un sinodo, se si fosse appellato al potere secolare, la sua deposizione sarebbe stata definitiva e irrevocabile. Il problema è che il Concilio di Antiochia era considerato illegale in quanto aveva appoggiato l’Arianesimo, dunque sarebbe apparso improprio fare uso contro Crisostomo delle deliberazioni di un concilio eretico. Inoltre al concilio, che si tenne agli inizi del 404, parteciparono anche molti vescovi sostenitori di Crisostomo, dunque la posizione degli oppositori del patriarca si era fatta difficile. Alla fine fu suggerito a loro, alla presenza dell’Imperatore, che, se il canone fosse stato accettato come valido, essi avrebbero dovuto sottoscrivere gli atti del concilio, ed essi lo fecero, con molta vergogna perché il concilio in questione si espresse in favore dell’Arianesimo. Mentre la questione prendeva fuoco, Crisostomo continuò a svolgere le sue mansioni ordinarie, finché, il giorno di Pasqua del 404 gli fu impedito di celebrare la festività in quanto deposto e scomunicato da un sinodo. Gli fu imposto di rimanere nel suo palazzo per ulteriori due mesi. Infine, il 20 giugno, per ordine di Arcadio, gli fu imposto di lasciare la Capitale. Quella stessa notte, un incendio danneggiò la Chiesa di Santa Sofia. Crisostomo e i suoi seguaci furono accusati di averlo provocato e furono duramente perseguiti. Crisostomo visse in esilio per altri tre anni, dapprima in Cappadocia e in Armenia, poi ad Arabisso, sempre in Asia Minore.

Il trattamento riservato a Giovanni Crisostomo mise di nuovo l’Oriente romano in contrasto con l’Impero d’Occidente. Papa Innocenzo I, una volta letti gli atti del Sinodo che decretò la deposizione del Patriarca, prese le parti di Crisostomo, a cui inviò una lettera di consolazione. Convinto dell’irregolarità del Sinodo, pensò che fosse necessario un concilio generale della Chiesa per prendere una decisione definitiva: convocò, pertanto, un sinodo in Italia, che dichiarò illegale la condanna di Crisostomo e richiese che venisse convocato un concilio generale a Tessalonica. Onorio, influenzato da Papa Innocenzo, aveva già scritto per due volte al fratello Arcadio, condannandolo per il trattamento riservato a Crisostomo. Dopo che si tenne il Sinodo in Italia, Onorio scrisse una terza lettera ad Arcadio, che doveva essere consegnata da una delegazione di vescovi per informare la corte di Costantinopoli della deliberazione del sinodo svoltosi in Italia. Scortati da Atene a Costantinopoli, non fu loro permesso di entrare nella Capitale, ma furono rinchiusi in una fortezza della Tracia, privati delle loro lettere, e infine, tenuti prigionieri per qualche tempo, finché non fu loro permesso, nel 406, di ritornare in Italia. Poiché Onorio aveva raccomandato ad Arcadio di trattare con cortesia la delegazione di ecclesiastici che gli aveva inviato, il loro maltrattamento fu considerato un affronto per la corte di Ravenna, e Stilicone pensò bene di approfittarne per riprendere i progetti ostili contro Costantinopoli. Nel frattempo, poiché Arcadio si era rifiutato di convocare un concilio generale, Onorio e Innocenzo si arresero e abbandonarono Crisostomo al suo destino. Onorio e Arcadio non si scrissero più. I loro rapporti si erano deteriorati. Il generale Fravitta, che si era segnalato per la vittoria su Gainas, accusò il comes sacrarum largitionum Giovanni di aver contribuito a generare, con la sua politica, nuova discordia tra i due Imperi, presumibilmente riferendosi al trattamento del Crisostomo. Giovanni era l’amante di Eudossia e il presunto padre di Teodosio II, per cui potrebbe aver appoggiato l’Imperatrice nelle trame ordite contro il patriarca di Costantinopoli. Fravitta pagò caro il suo ardire: Giovanni, a quanto pare, ordinò al governatore della Pamfilia, che Eunapio chiama Ierace detto lo sparviero, di cercare prove che potessero permettergli di accusare Fravitta di tradimento. Fravitta era stato in passato magister militum per orientem e aveva operato proprio in Pamfilia per liberarla dai saccheggi dei banditi Isauri: Giovanni sperava che Ierace potesse trovare prove compromettenti proprio nella regione dove aveva operato in passato Fravitta per poterlo accusare di tradimento. Ierace, che, invece di prendere misure efficaci contro i banditi Isauri che devastavano la provincia, pensava unicamente ad arricchirsi con la corruzione e il depredamento della popolazione insieme al magister militum Arbazacio, lo accontentò: reperite le prove, forse con testimoni falsi, Fravitta fu ingiustamente accusato di tradimento e giustiziato. Poco tempo dopo, Ierace fu arrestato dal vicario Erenniano, che lo processò per corruzione insieme al magister militum Arbazacio: ma i contatti privilegiati con la corte di Costantinopoli, in particolare con Giovanni, permise ai due ufficiali corrotti di cavarsela con il pagamento di una somma di denaro. Nel frattempo, il 6 ottobre 404 l’Imperatrice Eudossia si spense. Arcadio le sopravvisse per tre anni e mezzo, perendo il 1 maggio 408. In questi suoi ultimi anni, il governo effettivo dell’Impero d’Oriente fu detenuto dal prefetto del pretorio d’Oriente Antemio, che si rivelò un abile ministro, e fronteggiò con successo l’insurrezione dei banditi isaurici, che durò per circa tre anni, dal 404 al 407.

L’ALLEANZA TRA STILICONE E ALARICO

Nel frattempo, anche in seguito alla faccenda del Cristosomo, nel 405 Stilicone riprese i piani contro l’Oriente romano: rivendicava per l’Occidente l’Illirico orientale (diocesi di Dacia e Macedonia), che fino al 378 appartenevano all’Occidente, ma furono trasferite all’Impero d’Oriente sotto Teodosio I. A tal fine si alleò con Alarico attraverso uno scambio di ostaggi concedendogli peraltro una carica militare romana. Stilicone voleva riottenere da Arcadio le diocesi di Dacia e Macedonia in modo da permettere ai Goti di Alarico di insediarsi lì e concedere ad Alarico la tanto agognata per lui carica di magister militum per Illyricum; sperando di rabbonire i Goti concedendo loro i territori da loro pretesi e ad Alarico il ruolo di comando nell’esercito romano da lui bramato, sperava così di fare dei Goti degli alleati (Foederati) leali, che gli potessero essere utili per fronteggiare altre minacce. E’ anche possibile che Stilicone desiderasse tanto riottenere le province dell’Illirico orientale perché erano da sempre state fonte di generali e soldati capaci: gli Imperatori illirici che nel III secolo salvarono l’Impero dalla disgregrazione provenivano appunto dalle province illiriche.

Nel 405 Stilicone sfruttò l’arresto per ordine di Arcadio degli ambasciatori inviati da Onorio per protestare contro il trattamento riservato a Giovanni Crisostomo per riprendere le ostilità contro l’Oriente romano: impedì alle navi provenienti dall’Oriente di sbarcare in Italia interrompendo di fatto i commerci tra i due Imperi, e ordinò ad Alarico, che era alle sue dipendenze, di invadere con i suoi Foederati Visigoti l’Epiro, provincia sotto la giurisdizione di Costantinopoli. Alarico avrebbe dovuto poi rimanere in Epiro in attesa dell’arrivo dell’armata romana comandata da Stilicone, e i due generali avrebbero dovuto poi conquistare insieme l’intero Illirico orientale. Stilicone aveva persino già assunto un prefetto del pretorio d’Illirico, Giovio, forse per garantire ad Alarico i rifornimenti necessari, dato che i prefetti del pretorio avevano, tra i tanti incarichi, quello di garantire il rifornimento delle armate. Una nuova minaccia, secondo almeno Zosimo, trattenne però Stilicone dal raggiungere Alarico in Epiro: i Goti di Radagaiso, pressati dall’espansionismo unno, furono costretti verso la fine del 405 ad attraversare il Danubio per invadere l’Italia; per tutto l’anno del 405 l’intera Italia Settentrionale fu soggetta ai saccheggi di Radagaiso, e Stilicone, per fronteggiare la nuova minaccia, dovette rimandare la spedizione illirica. La Cesa e altri studiosi ritengono in questo caso inattendibile la cronologia di Zosimo e ritengono che Alarico invase l’Epiro non nel 405 ma tra la fine del 406 e il 407. Nel 405 Stilicone avrebbe stipulato l’alleanza con Alarico ma non l’avrebbe ancora istigato a invadere l’Epiro, cosa che avvenne tra la fine del 406 e l’inizio del 407.

L’INVASIONE DI RADAGAISO

La sconfitta di Radagaiso nei pressi di Fiesole.

Nel frattempo, nel 405, il pagano e goto Radagaiso, avendo radunato un esercito molto consistente (secondo Zosimo multietnico, secondo altre fonti antiche costituito da Goti), invase l’Italia. La notizia di ciò, quando venne comunicata, generò una generale costernazione. Tutti i pagani di Roma, sentitesi minacciati dall’invasione, si lamentarono affermando che il nemico era potente, non soltanto a causa delle dimensioni della sua armata, ma soprattutto perché godeva del favore delle divinità pagane, che invece, a loro dire, avevano abbandonato Roma destinandola al collasso a causa dell’abbandono e alla persecuzione del Paganesimo in favore del Cristianesimo.

Mentre alcune città precipitarono nella disperazione, e persino Roma stessa si riempì di preoccupazione per il pericolo che correva, Stilicone radunò tutte le forze stazionate a Ticinum (Pavia) in Liguria, che ammontavano a circa trenta coorti, e tutti gli ausiliari che poteva procurarsi dagli Alani e dagli Unni, e attraversò l’Arno con tutte le sue forze. Uldino e Saro, comandanti rispettivamente delle truppe ausiliarie unne e gotiche, intervennero in soccorso dei Romani, unendosi a Stilicone. Tale era il pericolo che correva l’Italia che delle leggi emanate a Ravenna nell’aprile 406 consentivano anche agli schiavi, normalmente esclusi dal servizio militare, di arruolarsi, con la promessa dell’affrancamento e di un premio di due solidi. Era dai tempi della disfatta di Canne contro Annibale sei secoli prima che non si ricorreva all’arruolamento degli schiavi.

Stilicone, accorrendo con il suo esercito, riuscì a liberare Firenze dall’assedio di Radagaiso, poi, attaccando i Barbari nei pressi di Fiesole, li annientò completamente. Radagaiso tentò la fuga, ma fu catturato e decapitato di fronte alle porte della città dieci giorni prima delle calende di settembre (23 agosto 406). Molti dei Barbari catturati furono ridotti in schiavitù, facendo scendere di molto il prezzo di ogni schiavo per la grande abbondanza di nuovi schiavi in così breve tempo immessi nel mercato, mentre 12.000 di essi furono costretti ad arruolarsi tra le truppe ausiliarie dell’esercito romano.

Stilicone, soddisfatto per la sua vittoria, ricevette, a dire di Zosimo, lodi dal popolo di ogni luogo, per aver liberato l’Italia dal pericolo costituito dai Goti di Radagaiso. La vittoria di Stilicone su Radagaiso venne accolta a Roma con grande giubilo: furono eretti un arco di trionfo, oltre a un monumento nel Foro, per celebrare la vittoria “che aveva annientato per l’eternità la nazione getica”; inoltre i Romani, grati al generale “per il suo amore eccezionale verso il popolo romano”, innalzarono sulla tribuna dei Rostri una statua raffigurante Stilicone.

PREPARATIVI PER LA SPEDIZIONE ILLIRICA IN ALLEANZA CON ALARICO

Nel frattempo, Alarico, che fino a quel momento era insediato nella regione dei Barbari ai confini di Dalmazia e Pannonia, invase l’Epiro. Intendeva rimanere qui fino all’arrivo di Stilicone con cui si era messo d’accordo. Stilicone, infatti, percependo che i ministri di Arcadio erano avversi a lui, intendeva, con il sostegno di Alarico, ottenere per l’Impero di Onorio tutte le province illiriche. Essendosi accordato con Alarico a questo scopo, si aspettava in breve tempo di mandare a effetto il suo piano. Stilicone aveva nominato Alarico generale romano e gli aveva inviato Giovio, prefetto del pretorio, ad assisterlo nell’impresa, promettendogli inoltre che lo avrebbe raggiunto in breve tempo in Epiro con truppe romane per sottomettere quelle regioni alla parte occidentale dell’Impero.

Stilicone arrivò a Ravenna, metropoli della provincia della Flaminia. A Ravenna, Stilicone si stava apprestando ad assalire le città illiriche con il supporto di Alarico con l’intento di strapparle all’Impero di Arcadio, e ricongiungerle all’Impero di Onorio, quando due impedimenti lo prevennero dal mandare ad effetto i suoi piani. Circolava la notizia che Alarico fosse deceduto, e giunsero lettere dall’Imperatore Onorio da Roma, informandolo che Costantino si era rivoltato, ed era avanzato dall’isola di Britannia alle province transalpine, dove si era fatto proclamare imperatore. La stessa Gallia era invasa e orribilmente devastata da orde di Vandali, Alani e Svevi che avevano attraversato il Reno sguarnito di truppe. Le voci che sostenevano la morte di Alarico parvero dubbie, prima dell’arrivo di talune persone che lo assicurarono della veridicità di ciò. Ma la notizia della rivolta di Costantino venne creduta da tutti. Stilicone, essendogli impedito di mandare ad effetto la sua progettata spedizione contro gli Illiri, procedette a Roma per consultarsi con altre persone riguardo lo stato presente degli affari.

Dopo il termine dell’autunno, agli albori dell’inverno, durante il consolato di Basso e Filippo, l’Imperatore Onorio, avendo perso tempo prima sua moglie Maria (figlia di Stilicone), si sposò con la sorella di lei Termanzia. Nel frattempo Stilicone inviò in Gallia contro Costantino un esercito condotto dal goto Saro che però tornò in Italia a mani vuote, essendo l’usurpatore riuscito a respingere il suo attacco.

IL RICATTO DI ALARICO

Era il 408, e nel frattempo Stilicone venne informato che Alarico aveva lasciato l’Epiro, e passando per il passaggio che collega la Pannonia con la Venezia, aveva collocato il suo accampamento in una città chiamata Emona, che è situata tra la Pannonia Superiore e il Norico. Alarico, uscito da Emona, e varcato il fiume Aquilis, oltrepassò i monti Appennini, e entrò nel Norico.

I monti Appennini sono situati ai confini della Pannonia, e rendono l’ingresso nel Norico molto difficile, perché se i passi fossero sorvegliati da un piccolo numero di soldati, un grande esercito troverebbe grande difficoltà a entrarci. Nonostante tale difficoltà, Alarico avanzò nel Norico, e quivi inviò messaggeri a Stilicone, pretendendo del denaro non solo come rimborso spese per la sua attesa in Epiro dell’arrivo di Stilicone, ma anche per ottenere il suo ritiro dal Norico. Stilicone, anche se ricevette l’ambasceria, trattenne i latori del messaggio a Ravenna, e procedette egli stesso a Roma, con l’intenzione di consultarsi con l’Imperatore e il senato.

Quando il senato si radunò nel palazzo imperiale, e deliberò sulla possibilità di dichiarare guerra, la maggioranza era disposta alla guerra. Stilicone, e pochi altri che concordavano con lui solo per paura e per viltà, erano di opinione opposta, e votarono per la pace con Alarico. Quando quelli che preferivano la guerra chiesero a Stilicone di motivare perché, a suo parere, era da preferire l’ottenimento della pace con il denaro, disonorando quindi il nome romano, alla guerra, egli rispose, “Alarico ha continuato a rimanere in questo intervallo di tempo in Epiro attendendo il mio arrivo per marciare contro l’Imperatore d’Oriente, e per separare gli illiri dal dominio di Costantinopoli, assoggettandoli a Onorio.”

Ciò, aggiunse, sarebbe già avvenuto, se non fossero giunte nello stesso tempo lettere dall’Imperatore Onorio, che rimandarono la spedizione in Oriente, in vista della quale Alarico aveva trascorso così tanto tempo in quel paese. Quando Stilicone terminò il suo discorso, mostrò un’epistola scritta dall’imperatore, e asserì che Serena era la causa dell’annullamento della spedizione illirica, desiderando preservare un’inviolabile amicizia tra i due imperatori.

Il senato, quindi, persuaso da Stilicone, decretò che Alarico avrebbe ricevuto quattromila libbre d’oro per mantenere la pace, anche se la maggioranza di loro lo fece più per timore di Stilicone che per propria convinzione o inclinazione personale. Per questo motivo, Lampadio, uomo di illustre nascita e rango, sentenziò questa frase in latino, Non est ista pax, sed pactio servitutis (“Questa non è una pace, ma un patto di servitù”), per poi rifugiarsi, non appena fu congedato il senato, in una chiesa poco distante, appartenente ai Cristiani, nel timore di essere punito per la franchezza con cui si era espresso.

LA CADUTA DI STILICONE

Stilicone, dopo aver fatto pace in tal modo con Alarico, si preparò al viaggio, per mandare i suoi piani ad effetto. L’Imperatore dichiarò che si sarebbe diretto da Roma a Ravenna per visitare e incoraggiare l’esercito, dato che un nemico così potente minacciava ora l’Italia. Ma si dice che questa decisione non la prese per sua inclinazione, ma spinto da Serena. Ella desiderava che lui risiedesse in una città più sicura, in modo che, se Alarico avesse infranto il trattato e avesse attaccato Roma, non avrebbe potuto impadronirsi dell’Imperatore in persona. Ella era la più zelante nel cercare di tenerlo al sicuro, poiché la sua stessa sicurezza dipendeva da quella dell’Imperatore.

Stilicone, tuttavia, essendo piuttosto contrario al viaggio dell’imperatore a Ravenna, cercò di porre molti ostacoli per impedirlo. Poiché l’Imperatore, nonostante tutto, non cambiò idea, essendo ancora determinato a compiere il viaggio, Saro, un Barbaro, e capitano di una banda di Barbari di stanza a Ravenna, organizzò un ammutinamento di fronte alla città su istigazione di Stilicone. Il suo disegno non era quello di gettare tutto nella confusione, in realtà, ma piuttosto quella di rinviare la venuta dell’Imperatore a Ravenna.

Ma poiché l’Imperatore persisteva ancora alla sua risoluzione, Giustiniano, un eccellente avvocato a Roma, che Stilicone aveva scelto come assistente e consigliere, sagacemente congetturò che se l’Imperatore avesse fatto il viaggio, i soldati a Pavia, odiando Stilicone, non appena l’Imperatore sarebbe arrivato lì, lo avrebbero ridotto in circostanze di grande pericolo. Quindi, lo avvisò di continuo di dissuadere l’Imperatore dalle sue attuali intenzioni. Ma quando Giustiniano capì che l’Imperatore non avrebbe dato ascolto al consiglio di Stilicone, lo raggiunse, pensando che, a causa della sua familiarità con Stilicone, avrebbe dovuto condividere le sue sventure.

Prima di ciò circolò a Roma la notizia che l’Imperatore Arcadio era deceduto, e ciò fu confermato prima della partenza per Ravenna. Stilicone, essendo a Ravenna mentre l’Imperatore era in una città dell’Emilia, di nome Bononia (Bologna), circa settanta miglia distante, l’Imperatore mandò a dirgli di castigare i soldati, che si erano ammutinati lungo il tragitto. Stilicone, quindi, avendo radunato le truppe ammutinate, informò loro che l’Imperatore gli aveva ordinato di punirli per la loro disobbedienza con la decimazione, ovvero l’esecuzione di un soldato ogni dieci. E i soldati precipitarono in una tale costernazione, che iniziarono a piangere, implorando il generale di avere compassione di loro, e lo spinsero a promettere loro che avrebbe cercato di ottenere il loro perdono dall’Imperatore. L’Imperatore accettò di perdonarli, e i soldati scamparono così alla decimazione.

Stilicone era desideroso di recarsi in Oriente per gestire gli affari di Teodosio, figlio di Arcadio, che era molto giovane, e in cerca di un tutore. Onorio stesso intendeva compiere lo stesso viaggio, con il progetto di assicurarsi i domini di quell’Imperatore. Ma Stilicone, essendo dispiaciuto di ciò, e mostrando all’Imperatore una stime calcolo degli immensi costi che avrebbe richiesto tale spedizione, lo spinse a desistere dall’impresa.

Gli fece notare, inoltre, che la rivolta di Costantino non avrebbe permesso il suo viaggio, perché l’usurpatore aveva devastato tutta la Gallia e aveva posto la sua residenza ad Arelate minacciando l’Italia e Roma stessa. Inoltre, anche se ciò che aveva già detto era sufficiente ad attirare l’attenzione dell’Imperatore, rammentò che Alarico si stava anch’egli avvicinando con un grande esercito di Barbari, e, essendo Barbaro e senza fede, quando avrebbe trovato l’Italia priva di forze, l’avrebbe certamente invasa.

Quindi, sostenne che la migliore decisione da prendere per il vantaggio pubblico era affidare ad Alarico la spedizione contro il ribelle Costantino, mettendogli a disposizione, oltre a parte dei suoi Barbari, anche alcune legioni romane con i loro ufficiali. Stilicone aggiunse che egli stesso si sarebbe diretto in Oriente, se l’Imperatore l’avesse desiderato, e gli avrebbe dato istruzioni su come procedere lì. L’Imperatore, convinto da questo discorso di Stilicone, gli diede lettere indirizzate sia all’Imperatore d’Oriente che ad Alarico, e partì da Bononia. Ma Stilicone rimase qui, e né partì in Oriente, né eseguì nulla che era stato pianificato.

Nel frattempo, Olimpio, un nativo delle coste del mar Eusino, e ufficiale di rango nelle guardie di corte, concepì sotto il camuffamento della religione cristiana i più atroci piani. Avendo l’opportunità, a causa della sua modestia e modi gentili, di conversare frequentemente con l’Imperatore, usò espressioni molto dure contro Stilicone, insinuando che desiderava andare in Oriente, per nessun altro motivo che per avere l’opportunità di spodestare il giovane Teodosio, e porre sul trono d’Oriente il suo stesso figlio, Eucherio. Queste insinuazioni le riferì all’Imperatore durante il viaggio, al momento più opportuno.

E quando l’Imperatore era a Pavia, Olimpio, con il pretesto di visitare i soldati malati, un capolavoro di ipocrisia, seminò tra loro le medesime insinuazioni. L’Imperatore era già a Pavia da quattro giorni, quando tutti i soldati vennero convocati a corte e l’Imperatore apparve di fronte a loro, esortandoli a combattere contro il ribelle Costantino.

Olimpio fece in modo di far ricordare ai soldati cosa aveva detto loro in privato. Ciò li eccitò alla follia, e uccisero Limenio, prefetto del pretorio delle Gallie, e con lui Cariobaude, il comandante delle legioni galliche. Quei due erano accidentalmente sfuggiti dalle mani dell’usurpatore, ed erano venuti con l’Imperatore a Pavia. Oltre a quei due furono massacrati Vincenzo, comandante della cavalleria, e Salvio, comandante dei domestici.

Mentre il tumulto accresceva di intensità, l’Imperatore si ritirò nel palazzo e alcuni magistrati se la diedero a gambe. I soldati, disperdendosi per la città, massacrarono tutti i magistrati alla loro portata, trascinandoli fuori dalle case in cui si erano rifugiati, e saccheggiando tutta la città. Così violenta fu la sommossa che l’Imperatore, non trovando rimedio a tale situazione, indossò un mantello corto, e senza il diadema e il vestito lungo, dirigendosi nel mezzo della città, trovò grandi difficoltà nel trattenere la loro furia.

Furono uccisi numerosi altri funzionari, come Nemonio, Petronio e Salvio. Il tumulto continuò fino a tarda notte, e l’Imperatore, temendo che venisse commessa violenza contro la sua persona, si ritirò. Scovarono Longino, prefetto del pretorio d’Italia, e lo uccisero. Tutti questi magistrati vennero massacrati dai soldati in rivolta, insieme a numerose persone il cui numero è talmente grande che va oltre ogni calcolo.

Quando la notizia della rivolta raggiunse Stilicone, che si trovava a Bononia, fu estremamente preoccupato di ciò. Convocando tutti i comandanti dei suoi barbari confederati, che erano con lui, propose una consultazione relativa a tutte le misure che sarebbe stato prudente adoperare. Fu concordato con generale consenso, che se l’Imperatore fosse stato ucciso, cosa ancora incerta, tutti i barbari confederati si sarebbero uniti, e avrebbero attaccato i soldati romani in rivolta. Ma se l’Imperatore fosse al sicuro, anche se i magistrati fossero stati uccisi, gli autori della rivolta avrebbero subito una punizione più mite. Tale fu il risultato della consultazione tra Stilicone e i suoi Barbari.

Quando vennero a conoscenza che l’Imperatore non aveva subito alcun danno, Stilicone decise di non procedere ulteriormente nel punire o correggere i soldati, ma di ritornare a Ravenna. Questo perché pensò che l’Imperatore fosse passato dalla parte dei soldati, e quindi gli era diventato ostile, e inoltre non ritenne onorevole o sicuro incitare dei Barbari contro l’esercito romano.

Stilicone era pieno di ansia per queste circostanze, mentre i Barbari al suo seguito tentarono insistentemente di convincerlo a tornare sulle sue prime decisioni e di dissuaderlo dalle misure che in seguito ritenne più opportuno adottare. Ma non essendo in grado di prevalere su di lui, decisero all’unanimità di rimanere in qualche luogo fino a che non avessero meglio compreso i sentimenti che l’Imperatore ora provava nei confronti di Stilicone, ad eccezione di Saro, che eccelleva su tutti gli altri Foederati per potere e rango.

Saro, accompagnato dai Barbari sotto il suo comando, assalì la tenda di Stilicone, dopo aver ucciso tutti gli Unni che costituivano la guardia di Stilicone mentre stavano dormendo. Stilicone, dopo essere riuscito a fuggire all’assalto di Saro, ed essersi reso conto dei litigi tra i Barbari al suo seguito, affrettò il passo verso Ravenna, non prima di aver avvertito le città in cui risiedevano le mogli e i figli dei soldati barbari, di non far entrare nessuno dei Barbari se ne avesse fatto richiesta.

Nel frattempo Olimpio, avendo convinto l’Imperatore delle presunte intenzioni proditorie di Stilicone, inviò un mandato imperiale ai soldati di stanza a Ravenna, ordinando loro di catturare immediatamente Stilicone e detenerlo in prigione. Quando Stilicone ne fu a conoscenza, cercò immediatamente riparo in una chiesa cristiana vicina, mentre era notte. I suoi Barbari e gli altri famigliari, che, con i suoi servi, erano tutti armati, al mirare tutto ciò, già si immaginavano cosa sarebbe successo.

All’alba, i soldati, nell’entrare nella chiesa, giurarono di fronte al vescovo, che avevano ricevuto ordini dall’Imperatore non di uccidere Stilicone, ma di detenerlo in prigione. Non appena Stilicone uscì dalla chiesa, furono portate altre lettere dalla stessa persona che aveva portato la prima, in cui veniva ordinata l’esecuzione di Stilicone perché ritenuto colpevole di gravi crimini compiuti a danno dello stato romano.

Mentre Eucherio, figlio di Stilicone, fuggì verso Roma, Stilicone fu condotto nel luogo dell’esecuzione. I Barbari al suo seguito, con i suoi servi e altri amici e parenti, di cui vi era un vasto numero, intendevano salvarlo dall’esecuzione. Stilicone li trattenne dal tentativo con tutte le minacce possibili e immaginabili, e con calma e rassegnazione accettò la propria sorte venendo così giustiziato (23 agosto 408).

Secondo Zosimo, che riprende in questo caso il giudizio positivo della propria fonte Olimpiodoro da Tebe, Stilicone era l’uomo più moderato e giusto di tutti gli uomini che possedevano grande autorità a quell’epoca. Anche se era sposato con la nipote di Teodosio, e gli fu affidata la tutela di entrambi i figli, ed era stato comandante per ventitré anni, non aveva mai conferito cariche militari per denaro, o estorto stipendio ai soldati per il proprio uso personale. Essendo il padre di un unico figlio, gli offrì la carica di tribuno dei Notarii, e gli disse chiaramente di non desiderare o tentare di ottenere alcuna altra carica o autorità.