Teodosio contro Magno Massimo

L’USURPAZIONE DI MAGNO MASSIMO

Mentre le calamità che avevano colpito fino a quel momento la Tracia erano terminate, Graziano, su consiglio dei suoi cortigiani, aveva dato accoglienza ad alcuni fuggitivi della tribù barbara degli Alani, che non solo ammise nell’esercito, ma li onorò con doni di valore, confidando a loro i suoi segreti più importanti, ingenerando l’invidia dei soldati di stirpe romana, che si sentivano trascurati dall’Imperatore.

Questo produsse, presso i suoi soldati, un profondo odio nei suoi riguardi, e questo odio li indusse alla rivolta, soprattutto da parte di quelle truppe di stanza in Britannia, le più risolute e vendicative. Massimo, di origini ispaniche, e soldato commilitone dello stesso Teodosio, era rimasto offeso per il fatto che Teodosio fosse stato associato al trono da Graziano mentre Massimo non aveva ottenuto nessun incarico di prestigio. Spinto dall’astio e dall’ambizione, Massimo sfruttò l’animosità dei soldati nei confronti dell’Imperatore Graziano, sobillandoli alla rivolta e spingendoli a proclamarlo imperatore, vestendolo della porpora e del diadema.

SCONFITTA E UCCISIONE DI GRAZIANO (383)

L’esercito di Massimo salpò immediatamente per la Gallia, dirigendosi verso le foci del Reno e ottenendo immediatamente l’appoggio delle truppe di stanza sulla frontiera del Reno (province di Germania I e Germania II). Graziano, con le truppe rimastegli fedeli, si scontrò in battaglia con Massimo nei pressi di Parigi. La battaglia durò per ben cinque giorni: ma Graziano, in seguito alla diserzione della cavalleria mauritana e della quasi totalità delle sue truppe che defezionarono in favore dell’usurpatore, abbandonò tutte le speranze e tentò la fuga verso le Alpi con un piccolo seguito di trecento cavalieri, gli unici rimastegli fedeli.

Quando Massimo fu informato della fuga, non perse tempo, ma distaccò Andragazio, comandante della cavalleria, incaricandolo di lanciarsi all’inseguimento di Graziano e ucciderlo. Questo ufficiale lo inseguì a grande velocità, raggiungendolo a Lione, e uccidendolo (25 agosto 383). Con tale successo confermò l’autorità di Massimo sulle Gallie.

RICONOSCIMENTO TEMPORANEO DI MASSIMO

Una volta ucciso Graziano, Massimo, la cui posizione si era ormai consolidata, inviò un’ambasceria all’Imperatore Teodosio. L’inviato era il ciambellano imperiale e lo scopo della missione era proporre a Teodosio un trattato di alleanza, contro tutti i nemici dello stato romano, e a un eventuale rifiuto, dichiarargli ostilità aperta. Teodosio ricevette l’ambasceria e accettò di riconoscere per il momento Massimo e il titolo imperiale. Malgrado ciò, a dire almeno di Zosimo, al contempo si stava segretamente preparando alla guerra, intendendo ingannare Massimo con ogni tipo di inganno e osservanza.

Diede inoltre ordine a Cinegio, prefetto del pretorio, di recarsi in Egitto per proibire i culti pagani e chiudere i templi, e di innalzare in qualche luogo pubblico di Alessandria una statua di Massimo, dichiarando alla popolazione che l’usurpatore era stato riconosciuto e associato all’Impero. Cinegio eseguì fedelmente tutti i suoi comandi.

Magno Massimo fu nel frattempo riconosciuto anche dall’Imperatore Valentiniano II, che governava l’Italia e l’Illirico sotto la reggenza della madre Giustina.

SCONFITTA DEI GREUTUNGI (386)

Nel 386 i Greutungi arrivarono alle rive del Danubio chiedendo il permesso di attraversare il fiume. Promoto, il comandante delle armate in quella regione, collocò le sue truppe lungo la riva del fiume, impedendone il passaggio ai barbari. Mentre era intento in tali misure, escogitò uno stratagemma. Chiamò alcuni dei suoi soldati, che comprendevano la lingua di quei barbari, e dei quali poteva fidarsi, e li inviò presso i Barbari. Essi dovevano fingere di essere disertori e far credere ai Barbari di essere dalla loro parte. I finti disertori, accolti dai barbari, proposero loro di consegnare l’intero esercito romano nelle loro mani in cambio di un’ampia ricompensa. I Barbari risposero di non essere in grado di pagare tanto. Tuttavia, per indurli a credere nelle loro promesse, essi si dimostrarono disposti a negoziare sulla somma. Alla fine, fu concordato che parte della somma dovesse essere pagata immediatamente, mentre il resto sarebbe stata pagata una volta commesso il tradimento.

Dopo essersi messi d’accordo sul metodo di dare il segnale, e il tempo in cui mettere in esecuzione il progetto, essi fecero ritorno nell’accampamento romano e riferirono tutto al comandante Promoto, compreso che i Barbari avrebbero attaccato nel corso della notte dopo aver attraversato il fiume. Promoto, essendo stato informato dai falsi traditori di tutti i piani dei Barbari, aveva schierato le proprie imbarcazioni in una tripla linea lungo il fiume, per una lunghezza di venti stadi. Con questo piano, non solo impedì al nemico la traversata, ma affondò molte imbarcazioni nemiche. A causa della completa oscurità, dovuta al fatto che in quella notte la luna era stata oscurata dalle nubi, i Barbari erano completamente all’oscuro dei preparativi fatti dai Romani, e pertanto si erano imbarcati prestando attenzione a fare il massimo silenzio, convinti che i Romani fossero completamente all’oscuro dei propri piani.

Quando il segnale fu fatto, i Romani si avventarono contro di loro a bordo delle loro grandi e possenti imbarcazioni, e affondarono tutte le imbarcazioni nemiche che poterono, e non vi fu un uomo che riuscì a salvarsi a nuoto, essendo il loro equipaggiamento molto pesante. Le imbarcazioni che sfuggirono alle navi romane, all’avvicinarsi con quelle lungo la costa, furono assaltati con tanto vigore che nessuno fu in grado di passare il muro delle imbarcazioni romane. Vi fu pertanto un grande massacro, più grande di quanto fosse mai accaduto in ogni precedente battaglia navale.

Essendo terminato lo scontro, i soldati cominciarono a saccheggiare l’accampamento nemico, facendo prigionieri tutte le donne e i bambini dei barbari e impadronendosi di tutti i loro beni. Promoto fece allora venire l’Imperatore Teodosio, che non si trovava lontano da lì, per assistere alla sua vittoria. Quando assistette alla grande quantità di prigionieri, e di bottino, concesse ai prigionieri la libertà. Tramite la concessione di doni, intendeva farseli amici, in modo che gli potessero essere di aiuto in qualità di soldati mercenari nel corso di una eventuale guerra contro Massimo.

PUNIZIONE DI GERONZIO

Nel 386, inoltre, Geronzio, il comandante della guarnigione di Tomi, una città della Scizia, osò assalire con i propri soldati un reggimento di mercenari barbari di stanza nelle vicinanze della città. Essi erano evidentemente foederati goti. Secondo Zosimo, anche se questi mercenari barbari erano tra i favoriti dell’Imperatore Teodosio ricevendo da lui un’immensa quantità di grano e di altre provviste, più di ogni altro soldato, essi non ripagavano questi premi con azioni di valore, ma insultando il governatore della città e i soldati romani in essa. Geronzio, sospettando fortemente che essi intendessero attaccare proditoriamente la città, decise di scontrarsi con l’intero corpo dei barbari. Le truppe di Geronzio vinsero in battaglia i mercenari barbari, costringendo i superstiti a trovare rifugio in una chiesa cristiana (luogo di asilo).

Teodosio, tuttavia, si adirò per il fatto che quei mercenari Barbari, che aveva tanto onorato, erano stati uccisi. Evidentemente voleva evitare un incidente diplomatico che portasse alla rottura del trattato del 382 e una nuova guerra con i Goti insediati all’interno dell’Impero. Geronzio fu convocato a corte affinché potesse difendersi dalle accuse mossegli. Geronzio, giunto al cospetto dell’Imperatore, accusò i Barbari di ribellione, e riferì dei saccheggi e delle depredazioni che avevano commesso a danni degli abitanti di Tomi. L’Imperatore, tuttavia, senza alcun riguardo di quello che aveva detto Geronzio, insistette nell’accusarlo di averli aggrediti, non per il bene pubblico, ma solo per impadronirsi dei doni (collane d’oro) che l’Imperatore aveva inviato loro. Geronzio replicò di aver immediatamente inviato quei doni al tesoro pubblico dopo aver ucciso i barbari, ma, nonostante la sua giustificazione, fu punito dall’Imperatore: fu pesantemente multato e privato dei suoi averi, che furono distribuiti agli eunuchi.

RIVOLTA DI ANTIOCHIA (387)

Nel frattempo, gli abitanti della città di Antiochia in Siria, non potendo tollerare il peso della continua aggiunta di nuove imposte che gli esattori si inventavano, sembra a causa della necessità da parte dello stato di reperire nuove entrate per le necessità belliche, insorsero. Avendo rovesciato le statue dell’Imperatore e dell’Imperatrice, le fecero sfilare per la città, e, come in genere accade in tali circostanze, la folla inferocita rivolse nei confronti dell’Imperatore ogni epiteto insultante che la passione potesse suggerire, in piena corrispondenza con le proprie azioni.

Quando l’Imperatore ne fu informato, si inferocì fortemente, minacciando di punirli tramite l’esecuzione di molti dei cittadini di Antiochia. La popolazione di Antiochia, a tale annuncio, si fece prendere dal panico e dalla disperazione. La furia lasciò il posto al pentimento, e, come se fossero già soggetti alla punizione minacciata, gli abitanti di Antiochia si abbandonarono ai lamenti e alle lacrime, supplicando il Signore per il loro perdono, facendo uso di alcuni inni trenodici per le loro litanie.

Il senato della città, temendo il suo risentimento e la sua punizione, decise di inviare ambasciatori alla corte di Costantinopoli per giustificare le azioni della popolazione. I senatori di Antiochia scelsero come ambasciatori il filosofo Libanio, grande oratore, e Ilario, uomo di nobile famiglia e di enorme cultura. Il primo di questi rivolse un’orazione di fronte all’Imperatore e al senato riguardante l’insurrezione. Riuscì a calmare l’ira che Teodosio provava contro gli Antiocheni.

L’Imperatore, essendosi ora perfettamente riconciliato con quella città, gli chiese di fare una seconda orazione sull’argomento, e inoltre assunse Ilario, che era ben noto per le sue virtù, governatore della Palestina.

Secondo altri autori, invece, fu inviato come ulteriore ambasciatore il vescovo di Antiochia, Flaviano, il quale, al suo arrivo, notando che il risentimento dell’Imperatore era rimasto immutato, ricorse al seguente espediente. Fece cantare ad alcuni giovani abili nel canto alcune delle litanie degli Antiocheni, al tavolo di Teodosio. Questo espediente risvegliò l’umanità dell’Imperatore, che concesse così il perdono ai cittadini di Antiochia.

MAGNO MASSIMO INVADE L’ITALIA (386)

Nel frattempo, in Occidente, Massimo, che riteneva le zone sotto il suo controllo inferiori al suo merito, governando soltanto quella parte dell’Impero governata in precedenza da Graziano, progettava il modo in cui detronizzare il giovane Valentiniano II, in modo da impadronirsi anche dell’Italia e degli altri territori governati da Valentiniano II. Ben determinato a questa risoluzione, si preparò ad attraversare le Alpi per invadere l’Italia. Percependo, tuttavia, che avrebbe dovuto passare per passi stretti e per monti impervii e privi di percorsi adeguati a una comoda traversata, rimandò l’impresa fino a che non si sarebbe presentata un’occasione più adatta.

Valentiniano II, tuttavia, che aveva posto la propria residenza ad Aquileia, gli aveva inviato degli ambasciatori per ratificare la continuazione della pace. Quando l’ambasciatore di Valentiniano II, Domnino (di origini siriane), arrivò al cospetto di Massimo, e lo informò del motivo dell’ambasceria, fu ricevuto con molta gentilezza e rispetto da Massimo, che lo ricoprì di doni e di onori, in modo da guadagnarsi la sua fiducia e non fargli sospettare le proprie intenzioni proditorie. Massimo si mostrò disposto a inviare parte del suo esercito in Pannonia, territorio di giurisdizione di Valentiniano II, con il pretesto di assistere Valentiniano contro i Barbari che l’avevano invasa. Domino si congedò dalla corte di Massimo altamente gratificato non solo dai molti doni che aveva ricevuto, ma anche di essere accompagnato dai soldati di Massimo. Pertanto, a causa della sua imprudenza, attraversando le Alpi, rese il passaggio più praticabile per Massimo. Infatti Massimo lo seguì con tutte le sue forze, distaccando anche delle guardie affinché impedissero il passaggio di chiunque che potesse avvisare gli attendenti di Domnino, che Massimo stava penetrando in Italia. Questa accortezza si rivelò decisiva per la riuscita del piano, in quanto era impossibile per ogni persona passare per le Alpi senza essere notata.

In questo modo, nel 386, Massimo invase l’Italia senza incontrare resistenza, e marciò verso Aquileia. L’improvvisa invasione sorprese e atterrì Valentiniano, e la situazione era tanto disperata che i cortigiani già presagivano la possibile cattura ed esecuzione del loro Imperatore ad opera di Massimo.

FUGA DI VALENTINIANO II A TESSALONICA

Temendo di essere catturato e giustiziato, Valentiniano, con la madre Giustina e la sorella Galla, si imbarcò per Tessalonica. Dopo una lunga navigazione, una volta arrivati a Tessalonica, essi inviarono immediatamente messaggeri all’Imperatore Teodosio, chiedendogli di allestire una spedizione militare per rovesciare Massimo e ristabilire Valentiniano II sul trono d’Occidente. In questo modo avrebbe vendicato anche l’assassinio di Graziano, a cui Teodosio doveva il trono.

Quando l’Imperatore Teodosio ricevette i messaggeri di Valentiniano, decise, dopo essersi consultato con il senato, di recarsi a Tessalonica con alcuni senatori. Per comune assenso dell’assemblea, fu stabilito che Massimo avrebbe dovuto ricevere la giusta punizione per le sue colpe. La loro opinione è che tale persona non meritava la vita, in quanto non solo aveva ucciso Graziano e usurpato i suoi domini, ma dopo essere riuscito nella sua usurpazione, si era spinto oltre, giungendo a privare il fratello di Graziano del territorio di sua competenza.

Teodosio non sembrava però del tutto convinto della necessità assoluta di una guerra, ma non intendeva lasciare intentata la via diplomatica. Egli era consapevole dei danni possibili di una guerra civile, e che lo stato avrebbe subito perdite fatali da entrambe le parti. Egli propose di inviare prima un’ambasceria presso Massimo, in cui gli si intimava di restituire a Valentiniano la sua quota di Impero, in modo che tutto l’Impero fosse diviso tra i tre. Nel caso Massimo avesse rifiutato, Teodosio gli avrebbe dichiarato guerra. Nessun membro del senato osò opporsi alla decisione dell’Imperatore, perché sembrava sensata.

Nel frattempo, Giustina, comprendendo che Teodosio era naturalmente incline all’amore, introdusse alla sua presenza la figlia Galla, che era di una bellezza straordinaria. Giustina, dopo averlo supplicato di non lasciare impunita l’uccisione di Graziano, a cui tra l’altro doveva il trono, gli presentò sua figlia in lacrime, mentre si lamentava delle proprie sventure. Quando Teodosio ascoltò queste suppliche, ed essendo rimasto ammaliato dalla bellezza di Galla, richiese a Giustina di promettergli in sposa sua figlia, in quanto la sua precedente moglie Placilla era deceduta. A tale richiesta ella rispose che non avrebbe dato l’assenso al matrimonio, finché Teodosio non avrebbe dichiarato guerra a Massimo per vendicare l’uccisione di Graziano.

PREPARATIVI PER LA SPEDIZIONE

Determinato ad ottenere il suo assenso, Teodosio si decise ad avviare i preparativi per la guerra. Non solo si conciliò i soldati, aumentando il loro stipendio, ma, essendo il prefetto del pretorio Cinegio deceduto durante il suo viaggio di ritorno dall’Egitto, decise di nominare come suo successore, dopo un’attenta analisi dei possibili candidati, Taziano. Taziano aveva detenuto altre cariche sotto Valente, ed era una persona degna di tale carica. Teodosio, dopo dopo aver nominato Taziano prefetto del pretorio, nominò il figlio di lui prefetto della città. In questo agiva con saggezza, affidando le cariche più alte a tali uomini degni di onore, che sapevano quali fossero le giuste disposizioni da prendere a vantaggio dei sudditi in assenza dell’Imperatore.

Per quanto riguarda l’esercito, affidò il comando della cavalleria a Promoto e quello della fanteria a Timasio. Quando tutti i preparativi erano ultimati per la spedizione, l’Imperatore Teodosio fu informato che i Barbari, che combattevano a fianco delle legioni romane, erano state sobillate da Massimo a tradire l’esercito di Teodosio con la promessa di grandi ricompense. Quando ricevettero il sentore che il loro piano era stato scoperto, i Barbari fuggirono in Macedonia, dove si nascosero nelle foreste. Essendo cercati con grande diligenza, molti di loro furono uccisi.

L’Imperatore, sgravato dall’insidia del tradimento dei Barbari, marciò con grande risoluzione con la sua intera armata contro Massimo. Collocò per prima cosa Giustina e sua figlia a bordo di una nave, affidando loro a quelle persone che le avrebbero dovuto condurre in tutta sicurezza a Roma, ritenendo che i Romani li avrebbero accolti con grande piacere, in quando erano mal disposti nei confronti di Massimo. Teodosio intendeva condurre la propria armata attraverso la Pannonia Superiore e i monti Appenini fino ad Aquileia, in modo da prendere di sorpresa il nemico.

INCURSIONE DEI FRANCHI IN GALLIA

Mentre Teodosio stava procedendo contro l’usurpatore e Massimo era rinserrato dentro Aquileia, i Franchi fecero irruzione nella provincia di Germania sotto i loro duchi Genobaude, Marcomero e Sunnone, e, dopo aver superato la frontiera, procedettero a massacrare e a devastare i distretti più fertili, suscitando panico profondo persino a Colonia.

E quando la notizia dell’invasione arrivò a Treviri, Nannino e Quintino, gli ufficiali militari ai quali Massimo aveva affidato suo figlio Vittore e la difesa della Gallia, allestirono un esercito e si incontrarono a Colonia per discutere il da farsi. Ora il nemico, carico di bottino dopo aver devastato le parti più ricche della provincia, aveva attraversato il Reno, lasciando però molti dei loro uomini su suolo romano pronti a rinnovare le loro devastazioni. Un attacco contro questi tornò a vantaggio dei Romani, e molti Franchi perirono in una battaglia nei pressi di Carbonnière.

E quando i Romani stavano discutendo, in seguito a tale loro successo, se invadere il territorio dei Franchi, Nannino si dichiarò contrario a questo piano, in quanto era ben consapevole che i Franchi non sarebbero stati colti impreparati e sarebbero stati senza dubbio più insidiosi nella loro terra natia, che ben conoscevano. E poiché questo lo mise in contrasto con Quintino e il resto degli ufficiali, Nannino ritornò a Magonza, mentre Quintino procedette ad attraversare il Reno con la sua armata nei pressi della fortezza di Neuss, e, collocato il suo secondo accampamento dalla traversata del fiume, trovò grandi villaggi abbandonati.

Infatti i Franchi simularono il panico e si ritirarono nei luoghi più remoti nascondendosi nella profondità delle foreste. I soldati diedero fuoco a tutto, pensando che accanirsi contro le dimore dei Franchi fosse il premio della vittoria, e al principio del giorno successivo entrarono nelle foreste condotti da Quintino, procedendo in tutta sicurezza fino a mezzogiorno. Quando trovarono la strada sbarrata da enormi ostacoli, tentarono di uscire nelle pianure paludose adiacenti alle foreste, e fu a quel punto che i soldati romani furono aggrediti dai Franchi. Nascosti dai tronchi degli alberi o sopra gli abeti come se sulla sommità delle frecce, essi scagliarono contro i Romani frecce avvelenate, in modo da uccidere i soldati romani anche colpendoli in punti non letali. L’esercito fu circondato dal nemico in netta superiorità numerica, e tentò disperatamente la fuga nei luoghi aperti che i Franchi avevano lasciato non occupati. E i cavalieri furono i primi a cadere nelle paludi, e i corpi di uomini e cavalli caddero indiscriminatamente insieme, messi fuori combattimento dalla loro stessa confusione. I fanti, che erano sfuggiti alla sorte dei cavalli, furono impediti dalla fuga dal fango, e si riuscirono a liberare da tale situazione a stento, e si nascosero di nuovo in panico nelle foreste in cui essi avevano combattuto poco tempo prima. E fu così che gli schieramenti furono gettati nel disordine e le legioni romane annientate. Eraclio, tribuno dei Gioviniani, e quasi tutti gli ufficiali furono uccisi, mentre la notte e le foreste offrirono una via sicura di fuga a ben pochi.

IL FALLIMENTO DI ANDRAGAZIO

Mentre Teodosio era in marcia, Massimo, avendo appreso che la madre di Valentiniano e i suoi figli stavano procedendo ad attraversare il Mar Ionio, allestì numerose imbarcazioni, e mise al comando di esse Andragazio. La missione di Angragazio era intercettare le imbarcazioni che trasportavano la famiglia di Valentiniano e catturarli. Ma Andragazio, anche se cercò in tutte le direzioni, fallì nel suo scopo. infatti, la famiglia di Valentiniano aveva già attraversato lo stretto ionico. Allestendo una marina consistente, allora, navigò per le coste adiacenti, aspettandosi che Teodosio lo avrebbe attaccato con la sua flotta.

VITTORIA DI TEODOSIO (388)

Mentre Andragazio era impiegato in tale modo, Teodosio, dopo aver attraversato la Pannonia e aver vinto gli eserciti dell’usurpatore a Siscia, sulla Sava, e a Poetovio, arrivò fino alle porte di  Aquileia, dove le guardie erano troppo poche per resistere loro.

Massimo fu costretto a lasciare il trono imperiale mentre era nell’atto di distribuire denaro ai suoi soldati, ed essendo stato privato degli ornamenti imperiali, fu portato a Teodosio, che, dopo aver enumerato alcuni dei suoi crimini contro lo stato romano, lo inviò al boia affinché ricevesse la giusta punizione (28 luglio o 28 agosto 388). Teodosio inviò il generale Arbogaste in Gallia per deporre e uccidere l’usurpatore Vittore, figlio di Massimo, che era stato innalzato dal padre al rango di Cesare e a cui era stato affidato il governo della Gallia. Quando queste notizie giunsero a Andragazio, che stava ancora navigando nel Mar Ionio, lo gettarono in cotanta apprensione per gli innumerevoli pericoli a cui era esposto, che non attese l’arrivo dei suoi nemici, ma divenne l’esecutore di sé stesso. Si gettò in mare, preferendo annegare nelle onde piuttosto che essere giustiziato dai suoi più grandi nemici.

TRIONFO DI TEODOSIO

Teodosio fece la propria entrata pubblica a Roma, accompagnato dal figlio Onorio, ancora in tenera età, che si era  fatto inviare da Costantinopoli immediatamente dopo la sconfitta di Massimo. Essi continuarono quindi a celebrare il loro trionfo a Roma. In questo periodo di tempo Teodosio mostrò clemenza nei confronti di Simmaco, un uomo che aveva rivestito in passato il consolato, e che era alla testa del Senato di Roma. Questo Simmaco era un retore latino di grande fama ed eloquenza, ma, poiché aveva scritto un panegirico dedicato a Massimo, e lo aveva pronunciato pubblicamente di fronte all’usurpatore, fu accusato di alto tradimento. Simmaco, per sfuggire alla pena capitale, si rifugiò in una chiesa. Qui chiese l’intercessione di Leonzio, vescovo della chiesa novaziana di Roma, che intercesse per conto di Simmaco, pregando l’Imperatore di perdonarlo. Teodosio, che teneva in grande considerazione i vescovi cristiani, decise di dare il suo assenso, e fu così che Simmaco fu perdonato. Simmaco, grato all’Imperatore per avergli concesso il perdono, scrisse un componimento apologetico a Teodosio. E fu così che la guerra contro Massimo fu portata a una rapida conclusione.

TEODOSIO IN ITALIA E VALENTINIANO II IN GALLIA

Teodosio rimase per altri tre anni in Italia, fino al 391, ponendo la propria corte a Milano e affidando il governo della sola Prefettura del pretorio delle Gallie al suo giovane collega Valentiniano II, sotto la tutela del generale Arbogaste.

Nel frattempo, dopo che i Franchi ritornarono carichi di bottino ottenuto dal saccheggio della provincia di Germania, Arbogaste, desiderando non ulteriore ritardo, avvertì il Cesare che i Franchi andavano prontamente puniti, a meno che essi non avessero restituito tutto il bottino saccheggiato l’anno precedente quando le legioni romane erano state annientate in un’imboscata, e non avessero consegnato gli istigatori della guerra in modo da essere puniti per la loro proditoria violazione della pace.

Alcuni giorni dopo, Arbogaste tenne una conferenza con Marcomero e Sunnone, principi dei Franchi, richiese ostaggi da loro come al solito, per poi ritirarsi a Treviri per svernarvi.

LA STRAGE DI TESSALONICA E LA PENITENZA DI TEODOSIO

Durante la sua permanenza a Milano, Teodosio si recò in chiesa per pregarvi dentro. Ma, alle porte dell’edificio religioso, fu fermato da Ambrogio, il vescovo cittadino, che gli intimò, in presenza della folla: “Fermo!!! Un uomo macchiato da un peccato così grave è indegno, senza pentimento, di entrare in questi luoghi sacri!”. L’Imperatore, colpito dall’audacia del vescovo, cominciò a riflettere sulla propria condotta, e tornò indietro.

Tale fu l’occasione del peccato. Mentre Buterico era generale delle truppe di stanza in Illiria, un cocchiere lo vide vergognosamente in una taverna, e tentò di oltraggiarlo; fu posto in custodia. Qualche tempo dopo, alcune splendide corse si tennero all’ippodromo, e la popolazione chiese la liberazione del prigioniero, ritenendolo necessario per la celebrazione delle gare. Poiché la loro richiesta non fu soddisfatta, essi si rivoltarono e uccisero Buterico.

All’udire di tale atto, l’ira dell’Imperatore si eccitò immediatamente, e comandò l’uccisione di un certo numero di cittadini; nel massacro conseguente molte persone innocenti persero ingiustamente la vita. Un mercante offrì di essere ucciso al posto dei suoi due figli che erano stati selezionati come vittime, e promise ai soldati tutto l’oro posseduto, in cambio dello scambio. Essi acconsentirono a prenderlo come sostituto di uno dei suoi figli, ma dichiararono che almeno uno dei figli sarebbe stato ucciso lo stesso, in quanto, se li avessero risparmiati tutti e due, il numero dei massacrati sarebbe stato incompleto. Il padre, in preda all’angoscia, non poteva decidere quale dei due salvare dall’esecuzione, e continuò ad esitare fino a quando non furono entrambi giustiziati, essendo stato vinto da un uguale amore per entrambi. Accadde anche che uno schiavo leale si offrì di perire al posto del padrone.

Per punire l’Imperatore di tale massacro avvenuto a Tessalonica, Ambrogio aveva impedito a Teodosio di entrare in chiesa e lo scomunicò. Teodosio confessò pubblicamente il proprio peccato in Chiesa, e, durante il suo periodo di penitenza, si astenne dal vestire i propri ornamenti imperiali, secondo l’usanza dei penitenti. Al termine della penitenza, emanò una legge che proibì agli ufficiali incaricati di eseguire i mandati imperiali di eseguire esecuzione capitali entro trenta giorni dopo l’emanazione del mandato, in modo da consentire all’Imperatore di riflettere ed eventualmente revocare la sentenza di condanna.

PARTENZA DELL’IMPERATORE TEODOSIO

Nel 391 Teodosio ritornò a Costantinopoli restituendo l’Italia, l’Africa e l’Illirico a Valentiniano II. Tuttavia, al ritorno a Costantinopoli, nuove preoccupazioni tennero impegnato Teodosio. I Goti si erano rivoltati, e Teodosio dovette combatterli di nuovo. Inoltre, in Gallia giungevano notizie preoccupanti. Arbogaste impediva a Valentiniano II di regnare effettivamente e lo aveva ridotto quasi al rango di cittadino privato. Il 15 maggio 392 Valentiniano II fu trovato impiccato. Arbogaste sostenne la tesi del suicidio, ma fu presto sospettato di aver fatto strangolare il giovane imperatore dagli eunuchi della camera da letto e poi fatto in modo che potesse sembrare un suicidio. Il 22 agosto 392 fu proclamato per volere di Arbogaste come successore di Valentiniano II un retore di nome Eugenio. Teodosio, convinto della tesi dell’omicidio di Valentiniano II, non riconobbe Eugenio come imperatore legittimo e si preparò a una nuova spedizione in Occidente contro un nuovo usurpatore. Di questa nuova spedizione se ne parlerà nel seguito.